La tempestività della contestazione disciplinare va valutata con riferimento all’effettiva conoscenza dell’illecito commesso dal lavoratore e non con riferimento al momento di possibile conoscenza, poiché il datore ha il potere, ma non il dovere, del controllo sulla prestazione.
Nota a Cass. 17 maggio 2016, n. 10069.
Gennaro Ilias Vigliotti
La funzione essenziale svolta dalla contestazione dell’addebito disciplinare nell’ambito della procedura ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori impone che essa sia dotata di tempestività, cioè giunga a conoscenza del lavoratore in tempi ragionevoli: tale ragionevolezza, secondo la giurisprudenza di legittimità (si v., su tutte, Cass. 17 maggio 2015, n. 10302) deve essere valutata in relazione al momento specifico in cui il datore di lavoro è venuto a conoscenza dell’infrazione.
Tale principio è stato di recente confermato dalla Corte di Cassazione, nella sentenza n. 10069 del 17 maggio 2016, con la quale i giudici di legittimità hanno valutato il caso del dipendente di una nota società di telecomunicazioni italiana che, avendo accertato anomalie nelle richieste di rimborso carburante presentate da un suo lavoratore, aveva proceduto ad ulteriori accertamenti, appurando che questi gonfiava le fatture della benzina per ottenere somme maggiori dall’azienda. La società lo aveva dunque licenziato, ma i giudici di merito avevano stabilito l’illegittimità dell’atto di recesso perché tardivo, in quanto la contestazione era intervenuta molto dopo il periodo in cui l’azienda avrebbe potuto, attuando controlli più stringenti, conoscere il comportamento illecito del dipendente.
La Corte di Cassazione, però, nel cassare la sentenza della Corte di Appello, ha ribadito che «la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse esercitato assidui controlli sull’operato del proprio dipendente, ma in relazione al momento in cui ne abbia acquisito piena conoscenza». Tale principio discende dalla considerazione che il potere di controllo del datore è appunto un potere e non un obbligo, dunque a questi non può muoversi il rimprovero di non aver attivato in tempo le dotazioni di sorveglianza e supervisione. Secondo la Corte, infatti, «un obbligo siffatto, non previsto da alcuna norma di legge né desumibile dai principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del rapporto di lavoro subordinato, che implica che il datore di lavoro normalmente conti sulla correttezza del proprio dipendente, ossia che faccia affidamento sul fatto che egli rispetti i propri doveri anche in assenza di assidui controlli».