La nullità del patto di prova non vanifica gli effetti del recesso, determinando la ricostituzione del rapporto di lavoro
Nota a Cass. 12 settembre 2016, n. 17921
Francesco Belmonte
Le conseguenze del licenziamento intimato in presenza di un patto di prova affetto da nullità sono quelle previste dalla L. n. 604 del 1966 sui licenziamenti individuali e non quelle “di diritto comune”.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (12 settembre 2016, n. 17921), la quale ha rilevato che la causa del patto di prova è quella di tutelare l’interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, sicché detta causa risulta insussistente ove la verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le medesime mansioni, in virtù di prestazione resa dal lavoratore, per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore di lavoro (v. Cass. 17 luglio 2015, n. 15059; Cass. 25 marzo 2015, n. 6001; Cass. 5 marzo 2015, n. 446) Nella specie, il lavoratore aveva prestato la propria collaborazione a progetto per due anni, svolgendo corsi di formazione professionale come docente di materie informatiche e, successivamente, era stato assunto come lavoratore subordinato con le medesime mansioni. La prova, quindi, era già avvenuta con esito positivo, anche se, nel periodo precedente, non era stato instaurato un vero e proprio rapporto di lavoro e, pertanto, il patto di prova doveva ritenersi nullo.
Da tale nullità, però, la Cassazione non fa discendere l’”automatica conversione della assunzione in definitiva sin dall’inizio e la vanificazione degli effetti del recesso”. Ciò, sulla base di un rigoroso ragionamento che si articola come segue.
Dal momento che il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto di lavoro, “in ragione di tale interesse, l’art. 2096 c.c. consente il recesso ad nutum che permette al datore di lavoro di recedere dal rapporto, senza alcun obbligo motivazionale, qualora sia insoddisfatto dell’esito della sperimentazione”. A sua volta, l’art. 10 della L. n. 604/1966, nello stabilire che “le norme della presente legge (sui licenziamenti individuali) si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro … assunti in prova … dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva”, sottrae il rapporto nel quale il patto di prova sia stato validamente inserito alla applicazione della disciplina limitativa del licenziamento, con la conseguenza che “il recesso del datore (licenziamento) durante il periodo di prova rientra così nella cosiddetta area della recedibilità acausale, o ad nutum: il datore è titolare di un diritto potestativo, il cui esercizio legittimo non richiede giustificazione” (v. Cass. S.U. 2 agosto 2002, n.11633).
Questa libera recedibilità presuppone, però, che il patto di prova sia stato validamente apposto; diversamente, “laddove difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola, in quanto parziale, non estendendosi all’intero contratto, determina la conversione (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario.., e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale” (Cass. 18 novembre 2000, n. 14950). In questa ipotesi, quindi, il recesso del datore di lavoro equivale ad un “ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o giustificato motivo”.
Sulla base di questi presupposti, i giudici di legittimità, hanno cassato la sentenza della Corte territoriale (la quale aveva ritenuto che la nullità del patto di prova vanificasse gli effetti del recesso determinando, per ciò solo, la ricostituzione del rapporto), precisando che, nel caso di specie, doveva trovare applicazione la disciplina ordinaria sui licenziamenti e, quindi, in presenza dei requisiti occupazionali rispettivamente richiesti, la tutela assicurata dall’art. 8, L. n. 604/66 o dall’art. 18, L. n. 300/70.