Il principio di immutabilità della contestazione si applica solo quando il quadro di riferimento posto dall’impresa a fondamento della sanzione muti a tal punto da menomare il diritto alla difesa del lavoratore
Nota a Cass. 2 novembre 2016, n. 22127
Donatella Casamassa
Nell’ipotesi di licenziamento disciplinare opera, come noto, una serie di principi, quali la specificità, la tempestività e l’immutabilità della contestazione disciplinare.
Secondo la giurisprudenza, la contestazione di un addebito disciplinare, quale “atto eminentemente formale”, “deve essere chiara, completa ed inequivocabile nel suo contenuto” ed è insuscettibile di successive “modifiche e integrazioni nelle sue parti essenziali, e, tanto meno, di sottointesi” (v. Cass. 22 febbraio 2008, n. 4674, in RCDL, 2008, 641); Ciò, sul presupposto che è necessaria la completa coincidenza tra il capo di incolpazione contenuto nella previa contestazione e quello posto a base della sanzione disciplinare (nel senso che non è lecito infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, v. Cass. 15 maggio 2012, n. 7511, in PL, 2012, 1175).
L’applicazione del principio di immutabilità della contestazione, dovendo garantire l’effettivo diritto di difesa del prestatore, preclude, dunque, al datore di lavoro la possibilità di licenziare per “altri” motivi diversi da quelli contestati (Cass. 22 aprile 2015, n. 2238); in altre parole, impedisce all’impresa di far valere, a sostegno delle proprie determinazioni disciplinari, “circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione disciplinare” (Cass. 5 marzo 2010, n. 5401, in GLAV, 2010, n. 18, 63; e Cass. 10 agosto 2007, n. 17604, in FI, Rep., 2007, voce Lavoro (rapporto), n. 1054).
Si è poi affermato che “la legittimità nell’adozione di un provvedimento disciplinare deve essere verificata con riguardo al tempo in cui esso viene emesso; se questa legittimità non sussiste in tale momento, essa non può certo essere recuperata ex post a seconda del contingente sviluppo dei fatti” (Trib. Firenze 11 ottobre 2007, in Foro toscano-Toscana giur., 2007, 343).
Non sono precluse, invece, “le modificazioni dei fatti contestati che non si configurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella contestata … riguardando circostanze prive di valore identificativo della stessa fattispecie” (Cass. 26 ottobre 2010, n. 21912, in GLAV, 2010, n. 47, 31; Cass. 24 giugno 2010, n. 14212, ivi, n. 30, 28; Cass. 13 giugno 2005, n. 12263, in ADL, 2006, 897, con nota di MONTANARI, Sul contenuto dei principi di specificità e di immutabilità della contestazione disciplinare in rapporto al diritto di difesa del lavoratore; Cass. 7 giugno 2003, n. 9167, in FI, 2003, I, 263).
Inoltre, i Giudici di legittimità hanno più volte precisato: a) che non si configura una modifica della contestazione nel caso in cui la condotta contestata rimanga invariata, mutando solo l’apprezzamento e la valutazione della medesima. In tal caso, infatti, se non vengono in rilievo nuove circostanze di fatto, il diritto di difesa non risulta compromesso (Cass. 9 febbraio 2016, n. 11868; Cass. 22 marzo 2011, n. 6499); b) che il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato ed addebito a fondamento della sanzione disciplinare non può ritenersi violato qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del procedimento disciplinare, circostanze confermative o ulteriori prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, senza violare la regola della immutabilità della contestazione (in tal senso, Cass. 22 novembre 2011, n. 24567, in PL, 2012, 170; Cass. 19 gennaio 2011, n. 1146, in GLAV, 2011, n. 10, 25; Cass. 12 marzo 2010, n. 6091, ivi, 2010, n. 15, 35 che, con riguardo al licenziamento di un impiegato pubblico che aveva svolto continuativamente attività libero-professionale senza autorizzazione, ha escluso “l’intervenuto mutamento dell’incolpazione da parte del datore di lavoro che, dopo aver contestato l’illecito disciplinare attraverso il generico richiamo del divieto normativo, aveva allegato, nel corso del procedimento, la partecipazione del lavoratore ad una società… con svolgimento di attività di coordinamento e progettazione di lavori e la denuncia di redditi di lavoro autonomo per un triennio”. Sul punto, V. TENORE, Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego dopo la riforma Brunetta, Milano, 2010, 65-66. Si veda, anche, Cass. 14 ottobre 2009, n. 21795, in FI, Rep., 2009, voce Lavoro (rapporto), n. 1089, la quale precisa che il principio in questione “non vieta al datore di lavoro di considerare fatti non contestati e collocatisi a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell’imprenditore”).
Più recentemente, la Cassazione (2 novembre 2016, n. 22127) ha affermato che “In tema di licenziamento disciplinare, la violazione del principio di immutabilità della contestazione non può essere ravvisata in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, ma solo nel caso in cui tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore, per essere intervenuta una sostanziale immutazione del fatto addebitato che si realizza quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa”.
Nella fattispecie, a seguito di un’assenza dal lavoro protrattasi per due giorni e motivata da vessazioni che il dipendente assumeva di aver subìto, la società aveva intimato al lavoratore di rendere le proprie giustificazioni e di riprendere il lavoro senza indugio. Ciononostante, il lavoratore, ribadendo le ragioni della propria assenza, aveva continuato a non presentarsi al lavoro, costringendo il datore ad operare il licenziamento. Il dipendente lamentava, quindi, la mancata cristallizzazione del fatto sanzionabile ai soli due giorni di assenza, contestati con lettera di incolpazione, ritenendo che la contestazione estesa anche ai giorni successivi configurava una modificazione dell’addebito disciplinare.
La Cassazione rigettava il ricorso del lavoratore, confermando quanto sancito dal giudice di secondo grado, che aveva rimarcato come la apparente discrasia fra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggevano il provvedimento disciplinare, non esplicasse alcun rilievo sotto il profilo della regolarità del provvedimento espulsivo, in quanto non si traduceva in una concreta violazione del diritto di difesa del lavoratore.