Gli strumenti di videosorveglianza sull’attività dei lavoratori necessitano inderogabilmente dell’accordo sindacale o dell’autorizzazione amministrativa per essere installati, non rilevando in alcun modo il consenso prestato dai singoli dipendenti.

 

Nota a Cass. Pen., Sez. III, 8 maggio 2017, n. 22148

 

Gennaro Ilias Vigliotti

 

Con l’art. 23 del D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, il legislatore della riforma Jobs Act ha riscritto l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, dedicato alla disciplina degli strumenti da cui derivi, anche potenzialmente, il controllo sull’attività prestata dai lavoratori. La norma, pur nell’ambito di un generale riammodernamento della materia (sul punto, si v. il monotema n. 1/2016, I controlli a distanza del datore di lavoro, pubblicato in questo sito), ha sostanzialmente confermato il divieto per il datore di lavoro di svolgere controlli finalizzati esclusivamente al controllo della prestazione lavorativa, autorizzandone l’effettuazione solo se derivanti da strumenti utilizzati dai dipendenti per lavorare o, in presenza di ragioni qualificate, se parte datoriale e rappresentanze sindacali firmano uno specifico accordo. La conseguenza, con riferimento a tale ultima ipotesi, è che se l’accordo non è raggiunto, il datore di lavoro può solo rivolgersi all’Autorità amministrativa per ottenere l’autorizzazione necessaria all’impianto e all’utilizzo dello strumento. Senza il rispetto di questa procedura, il datore che disponga comunque l’installazione dei terminali di sorveglianza rischia la condanna penale per la fattispecie incriminatrice prevista dallo stesso art. 4 Stat. Lav. in relazione all’art. 38 della stessa legge e agli artt. 114 e 171 del D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196.

In tale quadro, già durante la vigenza del vecchio testo dell’art. 4 Stat. Lav., era sorto il problema della possibilità di sostituire l’accordo sindacale autorizzativo con il consenso, validamente prelevato, di tutti i lavoratori interessati dalla possibilità di controllo a distanza. La questione era stata in particolare approfondita dalla Cassazione penale, intervenuta sul punto in funzione delle sopra richiamata fattispecie incriminatrice. Con la sentenza n. 2261 del 2012, i giudici di legittimità avevano sostenuto che fosse illogico negare che un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori, e non soltanto da una loro rappresentanza sindacale, non bastasse ad autorizzare l’impianto e l’utilizzo degli strumenti di controllo a distanza. Ciò, alla luce della considerazione per cui l’art. 4 Stat. Lav. intende tutelare i lavoratori contro forme subdole di controllo della loro attività da parte del datore di lavoro e che tale rischio viene escluso – a meno di non voler dare una interpretazione eccessivamente formale e meccanicistica – in presenza di un consenso di organismo di categoria rappresentativo, cosicché, a maggior ragione, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando promani proprio da tutti i dipendenti, posto che l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare del bene protetto esclude l’integrazione dell’illecito.

La Cassazione penale è di recente tornata sul punto, significativamente cambiando il proprio precedente orientamento. Con la sentenza n. 22148 dell’8 maggio 2017, i giudici di legittimità, nel confermare la continuità del tipo di illecito tra vecchio art. 4 e nuovo testo post-Jobs Act, hanno evidenziato che “la condotta datoriale, che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all’installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, abbiano o meno, da un lato, l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenzialità di controllo a distanza, e di verificare, dall’altro, l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento alla loro installazione”.

La funzione dell’accordo sindacale, dunque, è non solo e non tanto quella di consentire l’acquisizione legale del consenso dei soggetti destinatari del controllo, quanto quella di fornire agli stessi un supporto qualificato nell’individuazione delle caratteristiche e peculiarità della tipologia di controllo esperito, consentendo loro di escludere modalità eccessivamente invasive della loro sfera di riservatezza e di dignità. L’assenso delle rappresentanze sindacali è dunque uno dei momenti essenziali della procedura prevista dall’attuale comma 1 dell’art. 4 Stat. Lav.: il datore di lavoro, quindi, non può sostituirlo con il consenso prestato dai lavoratori, sia individualmente che collettivamente, anche se prestato nelle forme consentite dall’ordinamento.

Controlli a distanza: non basta il consenso individuale per autorizzarli
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