Esprimere giudizi negativi sul proprio datore di lavoro, postandoli sulla propria pagina facebook, non legittima il licenziamento
Nota a Cass. 31 maggio 2017 n. 13799
Francesco Belmonte
Le critiche al proprio datore di lavoro espresse sui social network non sempre comportano il licenziamento del dipendente. E’ questo il caso di una lavoratrice che aveva postato sulla pagine facebook frasi considerate (dal Tribunale di Cosenza 13 gennaio 2015) tali da legittimare il licenziamento, in quanto concretizzanti una forma di “gratuita ed esorbitante denigrazione”, caratterizzata dalla “precisa intenzione di ledere, con l’attribuzione di un fatto oggettivamente diffamatorio, la reputazione del proprio datore di lavoro”; frasi successivamente ritenute inidonee a giustificare il recesso dalla Corte di Appello di Catanzaro (30 luglio 2015), confermata dalla Corte di Cassazione 31 maggio 2017, n.13799.
Come noto, in seguito alle modifiche introdotte dalla c.d. riforma del mercato del lavoro (L. 28 giugno 2012, n. 92), l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300) prevede che il licenziamento c.d. per colpa del lavoratore intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo è illegittimo se irrogato per fatto insussistente (art. 18, co.4), ossia quando non ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo perché il fatto contestato non sussiste o è pretestuoso.
Per tale ipotesi (c.d. ingiustificatezza qualificata del licenziamento), la legge prevede la reintegrazione (tutela reale) del lavoratore nel posto di lavoro, con effetti risarcitori “limitati” nel massimo di 12 mensilità (dell’ultima retribuzione globale di fatto) con pagamento dei contributi e con deduzione dell’aliunde perceptum (equivalente a quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività lavorative nel periodo di estromissione) e dell’aliunde percipiendum (ossia di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione) (art. 18, co. 4).
Secondo la Cassazione (n. 13799/2017), il fatto contestato insussistente (comportante la reintegrazione) equivale al fatto pur sussistente ma non illecito. Nello specifico, l’insussistenza del fatto contestato “comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché (anche) in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità” (v. anche Cass. n. 20540/15); “la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd. reale (così, Cass. n. 18418/16).
Ciò, “non potendo ammettersi che per tale via possa essere sempre soggetto alla sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti (pur sussistenti, ma) di rilievo disciplinare nullo o sostanzialmente inapprezzabile”.
(Per precedenti, v. Trib. Parma 16 maggio 2016, n 1263, con nota di commento, Licenziamento del lavoratore che su Facebook manifesta disprezzo per “i padroni” e Trib. Brescia 13 giugno 2016, n. 782, con nota di G. PIGLIALARMI, Rapporto di lavoro e social network: ancora un caso di licenziamento per violazione dell’obbligo di diligenza e buona fede, pubblicate in Soluzioni Lavoro)