I mezzi tecnici che riconoscono il passaggio o la presenza dei dipendenti sulla base delle loro caratteristiche biologiche o fisiche possono essere impiantati ed utilizzati sul luogo di lavoro solo a seguito di accordo sindacale o approvazione amministrativa
Nota a Garante della Privacy, 20 aprile 2017, n. 198
Gennaro Ilias Vigliotti
Con l’espressione “strumenti biometrici” ci si riferisce a quegli apparati che rilevano l’identità di una persona ricorrendo alle caratteristiche fisiche, biologiche o comportamentali del soggetto interessato. Si tratta, ad esempio, dei rilevatori di impronte digitali, dei riconoscitori di iride oculare, dei memorizzatori vocali o di movimento, etc. Questi strumenti hanno di recente “invaso” anche il mondo del lavoro, lentamente rimpiazzando gli strumenti tradizionali per la rilevazione dell’ingresso, dell’uscita o del passaggio del lavoratore in azienda, come la telecamera o il tesserino magnetico (c.d. badge).
La caratteristica dominante degli impianti biometrici utilizzati a fini lavoristici è quella di memorizzare informazioni personalissime del dipendente, con il rischio che tali dati possano essere incamerati e utilizzati dal datore di lavoro oltre i confini del diritto costituzionale alla riservatezza, tutelato anche nel luogo di lavoro.
La questione è di enorme attualità, se si pensa che, di recente, con l’art. 23, D.Lgs. n. 151/ 2015, il legislatore ha mutato il quadro normativo che disciplina i c.d. “controlli a distanza” (art. 4, L. n. 300/1970, c.d. “Statuto dei lavoratori”), ovvero i controlli esperiti dal datore di lavoro in funzione remota e tramite strumenti tecnologici, essendo quest’ultimo fisicamente e temporalmente lontano dal luogo dove i lavoratori svolgono la loro prestazione (sul punto, v. il Monotema n. 1/2016, “I controlli a distanza del datore di lavoro”, pubblicato in Soluzioni Lavoro).
In particolare, la riforma del 2015 ha diviso gli strumenti dai quali può derivare il controllo sull’attività del lavoratore in due categorie: la prima è costituita da quelle dotazioni tecniche che, pur giustificate da esigenze organizzative, produttive, di sicurezza o di tutela del patrimonio, non costituiscono strumenti di lavoro e necessitano, dunque, dell’approvazione dei sindacati presenti in azienda o di un’autorizzazione amministrativa per essere installate ed impiegate in azienda; la seconda, invece, ricomprende i mezzi utilizzati dal dipendente per rendere la prestazione lavorativa o per registrare il suo accesso o la presenza sul luogo di lavoro, i quali non richiedono alcuna approvazione, ma solo il rispetto del dovere di informativa e degli obblighi di protezione della privacy. La differenza di trattamento normativo tra i due gruppi di strumenti tecnologici è dunque notevole e condiziona il loro impiego in azienda e, conseguentemente, l’utilizzazione dei dati prelevati.
In tale quadro, è importante interrogarsi circa l’effettiva collocazione della strumentazione biometrica, soprattutto se si considera che, come detto, gli strumenti di rilevazione dell’accesso o della presenza al lavoro sono stati privati nel 2015 di ogni vincolo autorizzativo.
Di recente, è intervenuto sul punto il Garante per la Protezione dei Dati Personali con il provvedimento 20 aprile 2017, n. 198, chiamato, ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 196/2003, a effettuare una verifica preliminare di legittimità del controllo e della conservazione dei dati acquisiti tramite strumenti di rilevazione biometrica dell’accesso e della presenza al lavoro, richiesta da un’impresa campana che si occupa della lavorazione, produzione, distribuzione e commercio all’ingrosso di gioielli e preziosi. Trattandosi di impresa esposta a forti rischi di sicurezza, il Garante ha riconosciuto l’effettiva utilità della strumentazione in esame, ammettendone dunque il ricorso, ma espressamente richiedendo due condizioni: in primis, il ricorrere delle esigenze giustificative e l’esperimento della procedura autorizzativa previste dal nuovo 1° co. dell’art. 4 dello Statuto; in secundis, la conservazione dei dati prelevati tramite gli strumenti biometrici per un massimo di 30 giorni.
Secondo il Garante, dunque, gli strumenti biometrici possono essere utilizzati sul luogo di lavoro ma, alla luce della loro invasività rispetto alla sfera personale di riservatezza del lavoratore, non rientrano nel 2° co. dell’art. 4 dello Statuto, cioè tra gli strumenti che non necessitano di alcuna approvazione collettiva o amministrativa, bensì vanno inquadrati nel 1° co., con la conseguenza di essere vincolati agli stringenti requisiti causali e procedurali ivi previsti.
L’opinione dell’Autorità è condivisibile: la tecnologia biometrica, infatti, utilizzata nelle modalità appena descritte, rischia di consentire al datore di lavoro di effettuare un controllo continuo ed anelastico sull’attività svolta dal dipendente, in violazione delle garanzie normative predisposte dall’art. 4. L’introduzione di simili dispositivi in azienda, dunque, dovrà essere sorretta da ragioni produttive, organizzative, di sicurezza o di tutela del patrimonio e dovrà ricevere l’approvazione sindacale (tramite apposito accordo) o l’autorizzazione amministrativa della sede territoriale dell’Ispettorato del lavoro.