Grava sul datore di lavoro l’onere della prova circa l’adozione delle misure necessarie a tutela l’integrità psico-fisica del lavoratore

Nota a Cass. 12 giugno 2017, n. 14566

Mariapaola Boni

“L’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 cod. civ. impone all’imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità dei rischi connessi tanto all’impiego di attrezzi e macchinari, quanto all’ambiente di lavoro”.
Inoltre, la responsabilità del datore di lavoro per un infortunio sul luogo di lavoro (ex art. 2087 c. c.) è di natura contrattuale. Ne consegue che “ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo”.

In questi termini, si è espressa la Corte di Cassazione 12 giugno 2017, n. 14566 (conformi, Cass. n. 3788/2009, n. 2209/2016; Cass. n. 14468/2013), cassando la decisione della Corte di Appello di Palermo (n. 160/2011) sul presupposto che la stessa aveva determinato un’inversione dell’onere della prova poiché aveva affermato, erroneamente, che, in tema di violazione delle disposizioni di cui all’art. 2087 c. c., la parte (nella specie, il lavoratore) che subisce l’inadempimento ha l’onere di allegare, quindi di dimostrare, che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Nella fattispecie, un infermiere era stato aggredito da un paziente mentre veniva trasportato in barella alla sala visite. Il giudice di merito aveva rilevato che l’aggressione era avvenuta dopo dieci minuti dalla registrazione e, pertanto, sull’episodio non aveva inciso l’inadeguatezza dell’organico che può costringere a lunghe attese. Doveva poi ritenersi “ininfluente l’assenza del carabiniere di servizio presso il posto fisso (comunque non addebitabile all’Azienda, nella cui disponibilità non rientra la predisposizione della forza pubblica) o di un servizio di sorveglianza privata che, a meno di ipotizzare un irragionevole obbligo di vigilanza interna durante le visite dei pazienti, poteva solo essere esterna al luogo dell’aggressione”.
Inoltre, anche se un episodio del genere non era occasionale, era “pressoché inattuabile la predisposizione di mezzi di tutela di portata oggettivamente idonea ad elidere o anche solo a ridurre il rischio di aggressione fisica al personale infermieristico in servizio presso il Pronto Soccorso, tenuto conto della specificità del lavoro che, implicando necessariamente il contatto fisico con i pazienti finalizzato a prestare le cure urgenti, non consente di frapporre, tra il lavoratore (nel caso di specie, infermiere) e l’utenza, barriere protettive, e della natura del comportamento di aggressione che, manifestandosi all’improvviso e consumandosi in breve arco temporale, è difficilmente prevedibile e prevenibile”. Né il lavoratore aveva indicato “misure concretamente idonee ad impedire l’evento”.

Aggressione fisica nei confronti di un infermiere e misure di sicurezza
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