Il mutamento della classificazione della società non comporta uno specifico obbligo informativo a carico del datore di lavoro

Nota a Cass. 13 febbraio 2018, n. 3459

Mariapaola Boni

Ai fini della modifica dell’inquadramento previdenziale dell’azienda, non è contemplato, a carico del datore di lavoro, un obbligo di specifica comunicazione all’INPS delle variazioni intervenute nell’attività di impresa.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (13 febbraio 2018, n. 3459) in relazione ad un caso in cui in cui l’INPS, provvedendo d’ufficio al mutamento della classificazione di una società da artigianale a industriale, aveva attribuito al provvedimento efficacia retroattiva sul presupposto che l’impresa non aveva tempestivamente comunicato gli elementi di variazione dell’attività a fondamento della modifica d’inquadramento (nella specie, il numero dei dipendenti).

I giudici, analizzando la normativa di legge, hanno precisato che nessuna disposizione prevede tale obbligo comunicativo a carico dell’impresa e che, pertanto, gli elementi per procedere al mutamento d’ufficio della classificazione vanno desunti da atti e da comunicazioni dirette ad altri fini (nel caso di specie, i modelli di comunicazione periodica DM10 e E-mens, contenenti i dati relativi al numero e alla tipologia dei dipendenti).

Nello specifico, la Corte ha rilevato che, in base all’art. 3, co. 8, L n. 335/1998,  “I provvedimenti adottati d’ufficio dall’INPS di variazione della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, con il conseguente trasferimento nel settore economico corrispondente alla effettiva attività svolta, producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro. In caso di variazione disposta a seguito di richiesta dell’azienda, gli effetti del provvedimento decorrono dal periodo di paga in corso alla data della richiesta stessa. Le variazioni di inquadramento adottate con provvedimenti aventi efficacia generale riguardanti intere categorie di datori di lavoro producono effetti, nel rispetto del principio della non retroattività, dalla data fissata dall’INPS. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo del presente comma si applicano anche ai rapporti per i quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, pendano controversie non definite con sentenza passata in giudicato”.

Tale disposizione regola “gli effetti dei provvedimenti di variazione di inquadramento previdenziale adottati dall’INPS in sede di riesame o di verifica di singole situazioni aziendali, ovvero in conseguenza di una generale variazione d’indirizzo nella classificazione”. Tuttavia, “anche a voler estendere lo stesso disposto normativo a tutti i casi in cui una variazione di classificazione segua dichiarazioni datoriali, anche successive alle prime, essa non prevede comunque un obbligo a carico del datore di lavoro di comunicare all’Inps qualsivoglia variazione a seguito del mutamento dell’attività svolta. Né in particolare prevede l’obbligo delle aziende di effettuare specifiche dichiarazioni preventive appositamente destinate al fine esclusivo di consentire all’Inps la verifica dei presupposti per la classificazione dell’impresa”.

Anche se la legge prevede l’effetto retroattivo della variazione, nelle ipotesi in cui “l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro”; e che le dichiarazioni (positive o omissive) inesatte fornite dal datore di lavoro, da cui possono conseguire gli effetti retroattivi del provvedimento di variazione, “vanno riferite ad una qualsiasi comunicazione in base alla quale sia evincibile la classificazione; sicché, in base all’art. 3, comma 8 della legge 335/1998 il datore di lavoro non deve mai fornire notizie inesatte in occasione delle sue varie comunicazioni all’INPS”. Ma la norma non prevede che “egli abbia anche l’obbligo di effettuare una dichiarazione di variazione al mutare dei dati determinanti l’inquadramento e di effettuare comunicazioni ad hoc di natura preventiva; sicché le dichiarazioni in discorso possono essere soltanto quelle desumibili da atti diretti ad altri fini”.

Anche l’ art. 2, DL n. 352/78 convertito in L 4 agosto 1978, n. 467, relativo alla cessazione, variazione o sospensione di attività (il quale prevede che “in caso di sospensione, variazione o cessazione della attività, il titolare o il leale rappresentante dell’impresa sono tenuti a farne comunicazione entro trenta giorni alla camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura e agli enti previdenziali gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie nei cui confronti è sussistito il relativo obbligo assicurativo. In caso di mancato adempimento è dovuta a ciascuno degli enti nei cui confronti si è verificata l’omissione la somma di L. 50.000 a titolo di sanzione amministrativa. Sono abrogate le precedenti disposizioni che prevedono sanzioni per la stessa materia”.), non si riferisce, secondo la Corte, “alla classificazione dell’impresa a fini previdenziali, ma impone un obbligo di comunicare la sospensione, variazione o cessazione della attività aziendale. Esso non prevede l’obbligo di comunicare un qualsiasi altro fatto, anche differente dalla variazione di attività, che funga da presupposto per la classificazione dell’impresa (come il numero dei dipendenti). Inoltre, essendo assistito da sanzione amministrativa, si tratta di precetto non estensibile per via analogica a tutti i fatti rilevanti ai fini della classificazione dell’impresa”.

Modifica dell’inquadramento previdenziale dell’azienda
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