Negare la partecipazione ad una prova selettiva per posti di lavoro che non prevedano esercizio diretto e indiretto di poteri pubblici ai cittadini stranieri con permesso di soggiorno a lungo termine vìola i principi espressi dalle norme europee, costituendo quindi clausola discriminatoria che il Giudice del Lavoro è tenuto a disapplicare.

Nota a Trib. Roma, ord., 13 giugno 2018 (dott.ssa Cerroni, R.G. n. 11797/2018)

Gennaro Ilias Vigliotti

L’ordinamento europeo, all’art. 45 TFUE, prevede il principio della libera circolazione dei lavoratori europei sul territorio dell’Unione, al fine di evitare discriminazioni in grado di intaccare il funzionamento regolare del mercato del lavoro. Tale principio, al par. 4 del medesimo articolo, prevede l’eccezione dei dipendenti pubblici, con specifico riguardo, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, a quei posti di lavoro che “implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche” in quanto “presuppongono, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza” (cfr. CGUE 17 dicembre 1979, C 149/79; CGUE 20 settembre 2003, C 405/2001). In tale quadro, sono ad esempio stati esclusi da tale eccezione, e dunque sottoposti al principio di libera circolazione, dipendenti pubblici come i ricercatori del CNR (CGUE 16 giugno 1987, C 225/85), gli infermieri di ospedali pubblici (CGUE 3 giugno 1986, C 307/84), i dipendenti esecutivi delle amministrazioni comunali (CGUE 26 maggio 1982, C 149/79).

L’ordinamento italiano ha recepito le indicazioni provenienti da quello comunitario, allineando la propria disciplina interna ai principi appena esposti. L’art. 38, co. 1, D.LGS. n. 165/2001 (c.d. “Testo Unico del pubblico impiego”) stabilisce infatti che “i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea ed i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto e indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. Il successivo comma 3-bis stabilisce che le norme appena riportate si applichino anche “ai cittadini di Paesi di terzi che siano titolari di permesso di soggiorno UE per soggiorni di lungo periodo, o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria”.

Con apposito Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sono stati poi individuati i ruoli delle dipendenze pubbliche che, in ragione dei principi europei e delle regole interne, necessitano della cittadinanza dello Stato datore di lavoro, e, in particolare, il D.P.C.M. n. 174/1994 ha previsto che rientrino in questa categoria: i dirigenti delle amministrazioni, degli Enti Locali e delle Regioni; i dipendenti della Banca d’Italia; le carriere magistratuali, dei procuratori e degli avvocati di Stato; tutti i ruoli civili e militari delle amministrazioni statuali (Presidenza del Consiglio, Ministeri degli Esteri, Difesa, Interni Giustizia e Finanze).

Tale previsione del Decreto del 1994 è stata di recentemente posta in discussione dal Tribunale di Roma, chiamato a giudicare del bando pubblicato dal Ministero di Giustizia per l’assunzione di 250 funzionari del servizio sociale e 15 mediatori linguistici, cui aveva presentato domanda, poi respinta per ragioni di cittadinanza, anche una donna non italiana, madre di cittadina italiana e titolare di permesso di soggiorno di lungo termine. Le ragioni dell’Amministrazione risiedevano nell’interpretazione letterale del D.P.C.M. n. 174/1994, il quale, come detto, impone la nazionalità italiana a tutti i dipendenti civili del Ministero.

Il Tribunale di Roma però, con ordinanza 13 giugno 2018, resa all’esito di procedimento cautelare d’urgenza introdotto con ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., ha affermato che, per appurare la legittimità di tale diniego di partecipazione, è necessario valutare in concreto se il posto messo a concorso costituisca o meno esercizio di poteri pubblici, previsto dall’art. 38, D.LGS. n. 165/2001, come requisito per imporre la cittadinanza italiana. Ebbene, secondo il giudice della fase cautelare, le funzioni messe a concorso, quelle di assistente sociale e mediatore linguistico del Ministero di Giustizia, rappresentano funzioni che, anche in base alle declaratorie del ccnl di comparto, non implicano l’adozione di scelte amministrative di alto profilo, connesse alla cura di interessi collettivi di spiccata rilevanza, bensì comportano mansioni di tipo “ancillare”, poiché vincolate alle direttive ed alle istruzioni prese dai responsabili degli uffici, di livello dirigenziale.

In tale quadro, la clausola del bando ministeriale che vietava l’accesso ai candidati sprovvisti di cittadinanza italiana, ma parenti di italiani o titolari di permessi di soggiorno a lungo termine, è da considerarsi illegittima poiché discriminatoria sulla base della nazionalità, in violazione dei principi comunitari (art. 45 TFUE), costituzionali (art. 3 Cost.) ed interni (art. 38 D.LGS. n. 165/2001) e conseguentemente meritevole di disapplicazione da parte del Giudice del lavoro, competente in materia di diritti assoluti posti in discussione da provvedimenti amministrativi. Per l’effetto, la ricorrente ha potuto prendere parte alle procedure concorsuali presso il Ministero, al momento ancora in fase di svolgimento.

Il bando pubblico che vieti il concorso agli stranieri muniti di permesso di soggiorno è discriminatorio
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