Lo svolgimento di mansioni non indicate nel patto di prova può costituire valida ragione per la richiesta del lavoratore di esecuzione del patto ovvero di risarcimento del danno.

Nota a Cass. 3 dicembre 2018, n. 31159

Paolo Pizzuti

Nell’assunzione in prova, datore di lavoro e prestatore “sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova” (art. 2096, co. 2 c.c.); “durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità”, salvo che la prova non sia stata stabilita per un tempo minimo necessario (co. 3); “compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva” (co. 4). La disciplina del codice civile è integrata dall’art. 10, L. 15 luglio 1966, n. 604, che prevede l’applicabilità della normativa limitativa dei licenziamenti ai lavoratori in prova la cui assunzione sia divenuta definitiva e, comunque, decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.

Dalla formula legislativa emerge che: la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando, il primo, le capacità del lavoratore e il secondo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 8934/2015 e Cass. n. 17767/2009); inoltre, il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione, diversamente da quel che accade nel licenziamento assoggettato alla L. n. 604/1966 (tra molte, v. Cass. n. 21586/2008).

Qualora le modalità dell’esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore, non è pertanto configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso. Il che si verifica, ad es., nell’ipotesi di esiguità del periodo in cui il lavoratore è sottoposto alla prova (v. Cass. n. 2228/1999 e Cass. n. 2631/1996) ovvero laddove il prestatore espleti mansioni diverse da quelle per le quali era pattuita la prova (v. fra le tante, Cass. n. 10618/2015 e Cass. n. 25301/2007), in quanto, in tal caso, non viene consentita quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato.

Di conseguenza, in queste ipotesi, il lavoratore può efficacemente contestare la legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro (così come può dimostrare il positivo superamento dell’esperimento e l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito, eccependo in sede giurisdizionale la nullità del recesso (v. Corte Cost. n. 189/1980; nonché, con riguardo a soggetti appartenenti a categorie protette, avviati con il collocamento obbligatorio, n. 255/1989; e, relativamente alla donna in gravidanza o puerperio, n. 172/1996).

In sintesi, secondo la giurisprudenza:

– “nel periodo di prova non c’è un mero regime di libera recedibilità dal rapporto, essendo comunque consentito, entro ben definiti limiti, un sindacato sulle ragioni del recesso che diventa più incisivo ove insorgano speciali ragioni di tutela del lavoratore”;

– il prestatore può sempre dimostrare il positivo superamento della prova in quanto la valutazione datoriale in ordine all’esito della prova è ampiamente discrezionale. Tuttavia, “la prova da parte del lavoratore dell’esito positivo dell’esperimento non è di per sé sufficiente ad invalidare il recesso, assumendo rilievo tale circostanza se ed in quanto manifesti che esso è stato determinato da motivi diversi” (v. Cass. n. 1180/2017; Cass. n. 9797/1996; e Cass. n. 4669/1993);

– l’onere della prova della suddetta dimostrazione è a carico del lavoratore (v. Cass. nn. 22396/2018; 26679/2018 e 21784/2009) e può essere assolto anche attraverso presunzioni purché “gravi, precise e concordanti” (Cass. n. 14753/2000);

– dal momento che il licenziamento deve essere coerente con la causa, di reciproco esperimento, del patto di prova, l’attribuzione di mansioni estranee all’esperimento lavorativo è idonea ad inficiare il recesso (v. Cass. n. 402/1998) laddove le modalità dell’esperimento non siano adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore, con conseguente violazione del patto stesso.

Tali principi vengono ribaditi dalla Corte di Cassazione (3 dicembre 2018, n. 31159) chiamata a decidere circa la questione se l’assegnazione di mansioni semplicemente non coincidenti con quelle pattuite, e non radicalmente diverse, possa dare luogo all’applicazione della reintegra nel posto di lavoro, oppure semplicemente alla prosecuzione della prova o al risarcimento del danno.

La Corte sottolinea come in questa circostanza “non si verte in una ipotesi di nullità genetica del patto accidentale contenuto nel contratto individuale di lavoro, come può essere il caso della mancata stipula del patto di prova per iscritto in epoca anteriore o almeno contestuale all’inizio del rapporto di lavoro (Cass. n. 21758/2010 e Cass. n. 5591/2001) oppure il caso della mancata specificazione delle mansioni da espletarsi” (v., per tutte, Cass. n. 17045/2005). Allo stesso modo, si è fuori dall’ipotesi del recesso dal patto di prova determinato da motivo illecito o, in caso di successione di contratti, dal venir meno della causa apposta al secondo contratto e conseguente nullità dello stesso (Cass. n. 15059/2015 e Cass. n. 10440/2012).

In questi casi, in cui il patto di prova non è validamente apposto, “la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla disciplina limitativa dei licenziamenti” (Cass. n. 17921/2016, in questo sito, con nota di F. BELMONTE, Nullità del patto di prova e disciplina del licenziamento e Cass. n. 16214/2016, in questo sito, con nota di N. MASTROVITO, Scadenza del periodo di prova, mancata proroga ed illegittimità del licenziamento). Ciò, poiché, come osserva la Corte, vi è una distinzione fra l’ipotesi del licenziamento determinato dalla illegittima apposizione del patto di prova al contratto di lavoro e quella del recesso intimato in regime di lavoro in prova laddove la clausola recante il patto di prova sia legittima: “nel primo caso c’è la “conversione” (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario (in realtà c’è la nullità parziale della clausola contenente il patto di prova, che non ridonda in nullità del contratto di lavoro) e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale (v. Cass. n. 14539/1999 e Cass. n. 5811/1995); nel secondo caso (e solo in questo), c’è, invece, lo speciale regime del recesso in periodo di prova, frutto soprattutto di elaborazione giurisprudenziale, che per più versi si discosta dalla disciplina ordinaria del licenziamento individuale” (su tale distinzione v. Cass. n. 14950/2000, in motivaz.).

Pertanto, quando non vi sia un difetto genetico del patto di prova bensì un vizio funzionale rappresentato, come nella specie, dalla non coincidenza delle mansioni espletate in concreto rispetto a quelle indicate nel patto di prova, secondo l’orientamento giurisprudenziale risalente, ma consolidato, si applicheranno i principi civilistici di diritto comune. Il lavoratore avrà perciò esclusivamente diritto al ristoro del pregiudizio sofferto; sicché una volta accertata l’illegittimità del recesso stesso consegue, non l’applicazione della L. n. 604/66 o dell’art. 18 L. n. 300/70, ma “unicamente la prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato oppure il risarcimento del danno, non comportando la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito” (v. Cass. n. 2228/1999 e Cass. n. 15432 del 2001, che ha ritenuto “non … sostenibile che qualsiasi difformità rispetto alle pattuizioni integri un inadempimento del patto di prova”, ma “sostanzialmente mutato l’oggetto complessivo della prestazione lavorativa” in ragione del rilievo quali-quantitativo delle mansioni ulteriori attribuite al lavoratore).

In sintesi, concludono i giudici, in costanza di un valido patto di prova, la mancata corretta esecuzione dello stesso, svolge i suoi effetti sul piano dell’inadempimento senza generare una nullità non prevista e, pertanto, non determina automaticamente la “conversione” in un rapporto a tempo indeterminato bensì, come ogni altro inadempimento, la richiesta del creditore di esecuzione del patto – ove possibile – ovvero di risarcimento del danno. “Eventualmente, la circostanza fattuale dell’adibizione a mansioni diverse da quelle previste dalla prova può costituire, unitamente ad altri elementi, il sintomo di una ragione della risoluzione estranea all’esperimento, ma in tal caso dovrà essere il lavoratore ad allegare e provare il motivo illecito ed avanzare la specifica domanda, senza che la stessa possa dirsi proposta per la mera denuncia di difformità delle mansioni svolte rispetto a quelle oggetto dell’esperimento”.

Patto di prova e mansioni estranee all’esperimento
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