Il tempo-tuta svolto dal lavoratore rientra nell’orario e va retribuito soltanto quando è assoggettato al potere conformativo del datore di lavoro.

Nota a Cass., ord., 11 gennaio 2019, n. 505

Fabrizio Girolami

Il tempo necessario per indossare e dismettere la divisa da lavoro (cd. “tempo-tuta”) “rientra nell’orario di lavoro soltanto se è assoggettato al potere conformativo del datore di lavoro”. Tale principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con ordinanza 11 gennaio 2019, n. 505.

Nel caso di specie, sei lavoratori adibiti a mansioni di saldocarpentieri avevano convenuto in giudizio il proprio datore di lavoro dinanzi al Tribunale di Palermo, lamentando la mancata remunerazione del periodo di tempo (di 30 minuti giornalieri) utilizzato per indossare e dismettere la tuta di lavoro, nonché per fare la doccia.

Perso il primo grado di giudizio, i lavoratori avevano proposto impugnazione al giudice di appello, ottenendo una nuova pronuncia sfavorevole. In particolare, la Corte di Appello di Palermo – nel confermare integralmente la sentenza del giudice di primo grado – aveva rilevato che i lavoratori non avevano fornito la prova della sussistenza di un potere del datore di lavoro – anche soltanto indiretto – di conformare la prestazione accessoria né avevano in alcun modo allegato la circostanza che i lavoratori fossero tenuti ad anticipare il loro arrivo nell’ambiente di lavoro e ad utilizzare gli spogliatoi aziendali, potendo liberamente svolgere tali attività preparatorie all’espletamento della prestazione lavorativa anche presso le rispettive abitazioni.

La Corte di Cassazione, investita della questione, ha dichiarato la inammissibilità del ricorso dei lavoratori, rilevando che la sentenza appellata “è immune da errori di diritto” in quanto il principio applicato è conforme a quello enunciato dalla consolidata giurisprudenza delle Corte medesima, secondo cui nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario per la vestizione e la svestizione della divisa da lavoro rientra nell’orario di lavoro soltanto se è assoggettato al potere conformativo del datore di lavoro (cd. eterodirezione), elemento che può derivare o dalla esplicita disciplina di impresa o, implicitamente, dalla natura degli indumenti o dalla funzione che essi devono assolvere, tali da determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro (cfr., tra le altre, Cass. 28 marzo 2018, n. 7738, in questo sito, con nota di F. GIROLAMI, La computabilità del c.d. “tempo-tuta” nell’orario di lavoro; Cass. 2 dicembre 2016, n. 24684; Cass. 13 aprile 2015, nn. 7396 e 7397; Cass. 7 febbraio 2014, n. 2837; Cass. 16 gennaio 2014, n. 801; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15734).

Nel caso di specie – come emerso dalle risultanze istruttorie – il datore di lavoro non aveva impartito l’ordine espresso che la divisa aziendale dovesse essere indossata soltanto in servizio, usando a tal fine gli appositi spogliatoi aziendali (muniti di docce, di panche ed armadietti individuali numerati), avendo i lavoratori la facoltà di scegliere di indossare la divisa medesima anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro.

Secondo la Cassazione, infatti, laddove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e, come tale, non deve essere retribuita.

Computabilità del “tempo-tuta” nell’orario di lavoro: la Cassazione ribadisce i “paletti” per la relativa retribuzione
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