L’errore sulla procedura giudiziale prescelta per l’introduzione di un giudizio sul recesso intimato costituisce una mera questione processuale che non incide sul diritto sostanziale del lavoratore che, nei termini, ha comunque fatto ricorso al giudice.

Nota a Corte d’Appello di Milano 21 novembre 2018

Gennaro Ilias Vigliotti

Le regole sul processo del lavoro prevedono due diverse procedure giudiziali per contestare la legittimità del licenziamento: una riservata a coloro i quali richiedano la c.d. “tutela obbligatoria”, prevista dall’art. 8 della L. n. 604/1966 o invochino le tutele predisposte dal D.LGS. n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”), l’altra riservata ai lavoratori nel c.d. “regime Fornero”, ossia destinatari delle tutele previste all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. La scelta del rito corretto è fondamentale per ottenere l’esatta tutela richiesta, ma l’eventuale errore commesso nell’inoltro del ricorso non pregiudica la pretesa dal punto di vista sostanziale, con la conseguenza che l’introduzione della domanda in forma non idonea, ma secondo i tempi dettati dalla legge, permette comunque di reiterarla nei termini e nei limiti corretti. Per l’impugnazione del licenziamento, infatti, il lavoratore, ai sensi dell’art. 6 della L. n. 604/1966, deve osservare due distinti e tassativi termini: entro 60 giorni dalla comunicazione del recesso datoriale, deve inoltrare un’impugnativa stragiudiziale e, nei successivi 180 giorni, deve presentare il ricorso. Per realizzare l’interruzione della decadenza, dunque, basta una domanda giudiziaria chiara ed inequivocabile, a prescindere dal rito prescelto.

Il principio in parola è stato di recente confermato da un’interessante pronuncia della Corte d’Appello di Milano (resa nel giudizio R.G. n. 1055/2018 e pubblicata il 21 novembre 2018) che ha rigettato integralmente l’impugnazione promossa dal datore di lavoro, il quale eccepiva l’intervenuta decorrenza del termine di decadenza di 180 giorni, previsto dall’art. 6 della L. n. 604/66, come modificato dalla L. n. 183/2010, utile al lavoratore per promuovere l’azione giudiziaria avverso il recesso da parte del datore, in quanto l’impugnazione era stata promossa da questi con il “ rito Fornero” dichiarato dal giudice di primo grado inammissibile. Occorre precisare che, sebbene il rapporto di lavoro fosse sorto nel periodo di vigenza della L. n. 23/2015, il contratto stipulato tra le parti prevedeva, in tema di licenziamento, l’applicazione dell’art. 18 Stat. Lav., come modificato dalla L. n. 92/2012, in forza di un accordo sindacale siglato dal datore di lavoro, in occasione del subentro ad un precedente contratto d’appalto.

Orbene, in virtù dell’applicazione di tale disciplina, il lavoratore aveva impugnato giudizialmente il licenziamento, entro i termini di legge, ricorrendo al “rito Fornero”. Il giorno seguente alla sentenza di inammissibilità del predetto ricorso, il lavoratore depositava un nuovo ricorso secondo le forme del rito ordinario, seppur i termini di decadenza fossero ormai ampiamente decorsi.

Detto secondo ricorso conteneva la medesima domanda formulata nel primo. In ambedue gli atti venivano, infatti, individuati il medesimo petitum nonché la stessa causa petendi. Pertanto i presupposti per promuovere l’azione erano sostanzialmente identici: oggetto dell’azione era l’impugnazione avverso l’illegittimo licenziamento per giusta causa; quanto alla “ragione del domandare”, si interpellava l’autorità giudiziaria al fine di accertare e dichiarare la risoluzione del rapporto contrattuale ed il pagamento, in favore del lavoratore, dell’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale, oltre interessi e rivalutazione monetaria, come previsto dalla L. n. 92/2012 applicabile alla fattispecie in esame per le ragioni suesposte.

La coincidenza dei presupposti giuridici necessari all’esperimento dell’azione, unitamente all’identità del petitum e della causa petendi negli atti formulati, hanno indotto i giudici a ritenere utilmente interrotto il termine di decadenza per promuovere l’azione giudiziaria da parte del lavoratore, sebbene il rito impiegato fosse errato.

Sulla scorta di tali considerazioni, il collegio giudicante conclude ritenendo l’erronea applicazione del rito quale mera questione processuale che non può incidere sugli aspetti sostanziali della vicenda giudiziaria, in quanto finirebbe col pregiudicare irrimediabilmente il diritto di difesa del lavoratore, con la conseguente impossibilità di impugnare il licenziamento, precludendo l’esercizio di un diritto fondamentale da parte del soggetto contrattualmente più debole.

 

Licenziamento illegittimo: sbagliare “rito” non fa decadere la pretesa
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: