Il comportamento del datore di lavoro che abbia rivolto ripetuti epiteti offensivi relativi alla presunta omosessualità di un dirigente è sanzionato con il risarcimento del danno non patrimoniale dimostrabile anche mediante il ricorso alle presunzioni.

Nota a Cass. ord. 19 febbraio 2019, n. 4815

Francesco Belmonte

La condotta vessatoria posta in essere dal legale rappresentante di una società che offenda ripetutamente un dirigente per la sua presunta omosessualità reca un grave pregiudizio alla dignità e alla reputazione del lavoratore e giustifica il risarcimento dei danni non patrimoniali subìti dal dirigente in questione.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione (19 febbraio 2019, n. 4815), la quale, in linea con i precedenti gradi di giudizio, ha confermato la condanna di una società al risarcimento danni cagionato ad un dipendente dalle ripetute offese (collocate nel periodo 2001-2007) provenienti dal legale rappresentante della società medesima, il quale si era rivolto al lavoratore apostrofandolo con il termine “finocchio”.

Nella specie, per i giudici di legittimità, la Corte d’Appello di Venezia ha correttamente escluso che il comportamento del legale rappresentante “fosse solo espressione di un clima scherzoso nell’ambiente di lavoro, avendo al contrario rilevato che la condotta medesima, in quanto ripetutamente posta in essere dal titolare della società nei confronti di un dipendente che, sebbene avente qualifica dirigenziale, era comunque in una condizione di inferiorità gerarchica (e, di fatti, mai aveva reagito alle altrui offese), esprimesse un atteggiamento di grave mancanza di rispetto e quindi di lesione della personalità morale del lavoratore”.

Difatti, tale comportamento datoriale aveva cagionato, a causa della diffusione degli epiteti in ambito aziendale, uno stato di ansia e stress ed un pregiudizio alla vita di relazione, nonché alla dignità e professionalità; provati in giudizio dal lavoratore, ai fini della loro risarcibilità, in via presuntiva.

In merito la Cassazione, sulla scorta di alcuni precedenti in materia (Cass. n. 11269/2018 e Cass. n. 7471/2012), ha correttamente ritenuto provato il danno non patrimoniale subìto dal dirigente, poiché simile pregiudizio, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma deve essere “debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici”.

Tale danno, scaturente dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. – (anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali), a tre condizioni: “a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.” (Così, Cass. S. U. n. 26972/2008).

Nella fattispecie in esame, la Corte territoriale ha correttamente desunto il danno non patrimoniale subito dal lavoratore “dagli elementi probatori raccolti sul contenuto delle offese, sulla reiterazione, sulle modalità e contesti in cui le stesse venivano arrecate, sulla difficoltà di reazione per essere il destinatario lavoratore subordinato”; ed ha ritenuto, inoltre,  che le offese, ripetute nel tempo, avessero arrecato, tra l’altro, “concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, per il fatto che gli epiteti spregiativi erano ripetuti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle quali il destinatario non era in condizioni di reagire”.

Pertanto, la sentenza d’appello si pone in linea con la giurisprudenza di legittimità che considera “veicolato dall’art. 2087 c.c. l’obbligo di tutela, nel contratto di lavoro, di interessi non patrimoniali presidiati da diritti inviolabili della persona, come appunto la salute e la personalità morale, con conseguente obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale ove l’inadempimento datoriale abbia provocato la lesione dei medesimi.” (cfr. per tutte Cass. S. U. n. 26972/2008, cit.).

Offese alla sessualità
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