In caso di licenziamento disciplinare del lavoratore, irrogato ai sensi dell’art. 3, co. 2, D.Lgs.  n. 23/2015, permane sempre in capo al datore di lavoro l’onere di provare in giudizio la sussistenza del fatto materiale posto a fondamento del recesso.

Nota a App. Roma 9 aprile 2019, n. 877

Arturo Serra

Con la tutela prevista dall’art. 3, co.2 del D.LGS. n. 23/2015, nella parte in cui prevede che l’insussistenza del fatto contestato sia «direttamente dimostrata in giudizio», il legislatore non ha inteso trasferire in capo al lavoratore l’onere di provare quanto da lui affermato in sede di impugnazione al licenziamento, in deroga dunque al principio di legge codificato dall’art. 5, L. n. 604/1966, che invece affida tale onere probatorio al datore di lavoro, atteso che non può di certo ritenersi che con l’avverbio “direttamente” si sia voluto ribaltare la norma generale sul riparto dell’onere della prova.

È quanto ribadito dalla Corte d’Appello di Roma nella sentenza 9 aprile 2019, n. 877 in cui il Collegio giudicante aderisce pienamente al principio per cui spetta al datore di lavoro l’onere di provare in giudizio le ragioni poste a fondamento del licenziamento disciplinare, con la conseguenza che il difetto di prova della sussistenza del fatto contestato cade in danno del datore di lavoro e conduce all’accertamento giudiziale di illegittimità del recesso.

Pertanto, ciò che l’art. 3 co.2 del D.LGS. n. 23/2015 introduce non è l’inversione dell’onere della prova (circa le motivazioni poste a fondamento del licenziamento disciplinare) in capo al lavoratore, bensì un differente grado di tutela per quest’ultimo che, laddove riesca a dimostrare l’insussistenza del fatto addebitato, potrebbe beneficiare della maggior tutela reale della reintegrazione nel posto di lavoro.

Nel caso di specie i Giudici di seconde cure, ribaltando la prima pronuncia di merito, hanno dichiarato l’illegittimità del licenziamento irrogato dalla società per la presunta mancata consegna di due pacchi da parte del facchino, senza aver assolto al proprio onere di provare la sussistenza effettiva delle ragioni poste a fondamento del recesso disciplinare (poi risultate assolutamente infondate). Conseguentemente, la Corte ha disposto la tutela reale della reintegra del lavoratore nel posto di lavoro precedentemente occupato, oltre al pagamento di ulteriori somme a titolo risarcitorio, attribuendo al facchino un maggior grado di tutela, senza sovvertire il principio cardine dell’onere probatorio in capo al datore, sancito dall’art. 5, L. n. 604/1966.

Onere della prova in capo al datore di lavoro circa la sussistenza delle ragioni poste a fondamento del licenziamento disciplinare
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