In presenza di patologia particolarmente grave, qualora il datore di lavoro non comunichi al dipendente l’approssimarsi del termine finale del comporto, il licenziamento per superamento del periodo di comporto è illegittimo.

Nota a Trib. Santa Maria Capua Vetere 11 agosto 2019

Francesco Belmonte

Il licenziamento di un lavoratore affetto da gravi patologie è illegittimo se il datore di lavoro omette di comunicare preventivamente l’approssimarsi del termine finale del periodo di comporto.

Tale obbligo può sorgere per effetto dei principi generali di correttezza e buona fede in relazione alle caratteristiche specifiche del caso concreto, come nell’ipotesi di una patologia non “comune” la cui gravità può far presumere che il dipendente non sia in grado di prestare attenzione ai termini del comporto. In tale circostanza, il comportamento omissivo del datore contrasta con il dovere di solidarietà (art. 2 Cost.) ed assume valore oggettivamente discriminatorio in via indiretta, ai sensi del D.LGS. 9 luglio 2003, n. 216 e della Direttiva 2000/78/CE, tale da determinare la nullità del licenziamento.

A stabilirlo è il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (11 agosto 2019), il quale, pur ricordando che l’orientamento prevalente della giurisprudenza è indirizzato ad escludere in capo al datore di lavoro l’obbligo di preavvisare il lavoratore circa la scadenza del periodo di comporto, ritiene che esso possa tuttavia sorgere in peculiari ipotesi, come in quella del caso di specie concernente un lavoratore affetto da gravi patologie (“diabete mellito insulinodipendente”; “paresi del radiale sinistro con ipoplasia muscolare arto superiore sinistro”; frattura pluriframmentaria femore sinistro, con lieve riduzione del movimento di flessione del ginocchio”; “sindrome coronarica acuta”).

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti: “non esiste un dovere del datore di lavoro di avvertire il lavoratore, assente per lungo tempo, che il periodo di conservazione del posto sta per scadere; infatti, il lavoratore è in grado, anche con l’assistenza del sindacato, di effettuare la somma dei giorni di assenza per malattia e di verificare se il periodo di conservazione del posto stia per scadere” (Cass. n. 10352/2008).

Nei casi in cui il contratto collettivo nulla disponga, “la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento, in cui il dato dell’assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva; ne consegue che non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite c.d. esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell’accertamento della sua inidoneità ad adempiere l’obbligazione” (Così, Cass. n. 14891/2006; v. anche Trib. Milano, 31 agosto 2004).

In altri termini, quindi, il solo fatto del superamento del numero delle assenze contrattualmente fissate caduca il diritto alla conservazione del posto di lavoro, con la conseguenza che il datore può licenziare il dipendente “non essendo esigibile che quest’ultimo si attivi al fine di comunicare l’imminente scadenza del comporto al lavoratore, il quale in tali casi è gravato da un preciso onere di autoresposabilità”, trattandosi di eventi direttamente riconducibili alla sua sfera personale “che egli ha certamente avuto la possibilità di conoscere” (Cass. n. 23920/2010).

Tale principio, tuttavia, secondo il Tribunale, pur avendo carattere generale, non ha valenza assoluta. Vi sono, infatti, ipotesi in cui il datore è tenuto alla comunicazione in parola. E cioè quando il lavoratore, prima del licenziamento, abbia fatto istanza all’azienda di conoscere l’esatto numero dei giorni di assenza per malattia e parte datoriale sia rimasta inerte; in tal caso si può certamente configurare “un comportamento contrario ai doveri di buona fede e correttezza”, tale da poter invalidare il licenziamento (Trib. Milano 22 gennaio 2007). Può quindi sussistere un obbligo a carico dell’azienda di comunicare al dipendente i giorni di malattia dallo stesso usufruiti e i criteri di computo del comporto.

Ancora, si può determinare un obbligo di tal genere quando per la gravità delle patologie sofferte vi sia una «“minorata difesa” invocata, che connota l’intimato licenziamento del predicato della discriminazione, nella forma della discriminazione indiretta, con conseguente applicazione della tutela reale c.d. “forte”».

Per il giudice di merito, nel caso di specie la società “avrebbe dovuto comportarsi in maniera diversa e consona ai principi civilistici di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. e ai più generali principi di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., che impongono di cooperare attivamente al fine del soddisfacimento dell’interesse della propria controparte contrattuale, con il limite dell’apprezzabile sacrificio”.

In particolare, ad avviso del Tribunale, occorre distinguere i casi in cui vi sia stata una malattia per così dire “comune”, facilmente guaribile ed anche in tempi brevi, da quelli di estrema gravità, in cui le condizioni di integrità psico-fisica del prestatore siano particolarmente critiche e suscettibili di complicanze molto pericolose.

In tale ipotesi, anche in assenza di una regola espressa in ordine alla comunicazione relativa all’approssimarsi del termine del comporto, per la gravità della patologia in corso – in ragione della quale il malato non era in grado di prestare attenzione ai termini del comporto -, “un comportamento teso alla correttezza ed alla buona fede da parte della società avrebbe dovuto imporre una comunicazione, anche per informare della possibilità di utilizzare la procedura prevista contrattualmente per salvare il posto di lavoro” (nel caso di specie, l’art. 181 ccnl settore terziario prevede la possibilità di prolungare di altri 120 giorni il termine e, in caso di patologie gravi e per terapie salvavita, di ulteriore periodo di aspettativa fino alla guarigione clinica e comunque di durata non superiore a ulteriori 12 mesi) “proprio in considerazione del meccanismo richiamato, senza il quale una preventiva comunicazione in un caso grave come il presente poteva risultare inutile.”

Pertanto, anche alla luce del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. e del D.LGS. n. 216/2003 (di attuazione della Dir. 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro), secondo il Tribunale, la condotta datoriale appare idonea a discriminare il lavoratore in considerazione delle sue condizioni di salute particolarmente gravi e come tale atta a rendere nullo il licenziamento, con conseguente applicazione della tutela reale c.d. forte (reintegrazione del dipendente; pagamento di un’indennità – con tetto minimo di 5 mensilità-  con detrazione del c.d. aliunde perceptum – ossia di quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività lavorative nel periodo di estromissione -; versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione), contemplata dall’art. 18, co. 1 e 2, Stat. Lav. (come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 – c.d. Riforma Fornero).

Licenziamento per superamento del periodo di comporto
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