Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2019, n. 26029

Licenziamento, Requisiti per l’assunzione sul collocamento
obbligatorio, Sussistenza

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza
pubblicata il 14 dicembre 2017, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia
di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato
in data 27 agosto 2013 dalla C.P.L. Spa nei confronti di D.I., ordinando la
reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di una indennità risarcitoria
pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

2. I giudici d’appello, premesso che era
incontestata la sussistenza in capo al lavoratore dei requisiti per
l’assunzione ai sensi della normativa sul collocamento obbligatorio, hanno
condiviso l’assunto del primo giudice secondo cui risultava violato l’art. 10, co. 4, I. n. 68 del 1999
perché, al momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti
lavoratori occupati obbligatoriamente era inferiore alla quota di riserva
prevista all’articolo 3 di
detta legge.

Per la Corte territoriale l’affermazione contenuta
nella sentenza di primo grado secondo cui la società non aveva assolto
all’onere probatorio sul fatto che, a seguito del licenziamento dello I., non
fosse stata violata detta quota di riserva, “non ha trovato smentita nelle
risultanze processuali e può ritenersi circostanza pacifica su cui si è formato
oramai giudicato interno”.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso la soccombente con un unico articolato motivo, cui ha resistito D.I.
con controricorso.

Entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il mezzo di ricorso si denuncia
“violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, I. n. 300/1970
in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”;
si deduce che “nella fattispecie l’imprenditore non ha selezionato il
soggetto invalido per esodarlo, ma ha applicato una clausola della convenzione
sindacale del 26/07/2012 che prevede l’esternalizzazione del reparto cui era
addetto D. I.”; si invoca “analogia tra il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo ed il licenziamento ex artt. 4 e 24 I. n. 223 del 1991”;
si lamenta che la società aveva offerto al lavoratore “la ricollocazione
nello stesso sito produttivo e nelle stesse mansioni già espletate, alle
dipendenze della società appaltatrice del reparto, offerta rifiutata”.

2. Il motivo di doglianza non può trovare
accoglimento in quanto la Corte territoriale si è correttamente uniformata al
principio di diritto stabilito da Cass. n. 12911
del 2017 con cui la ricorrente neanche si confronta, pur essendo stato
posto a fondamento della sentenza impugnata (v. pag. 5), trascurando così di
offrire elementi per mutare il citato orientamento così come prescritto dall’art. 360 bis c.p.c..

Invero l’art. 10, co. 4, I. n. 68 del 1999,
espressamente prevede: “Il recesso di cui all’articolo 4, comma 9, della legge
23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale
o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore
occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della
cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati
obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della presente
legge”.

La ratio della norma, nel quadro delle azioni di
“promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone
disabili nel mondo del lavoro” di cui alle finalità espresse dall’art. 1, co. 1, I. n. 68/99, è
quella di evitare che, in occasione di licenziamenti individuali o collettivi
motivati da ragioni economiche, l’imprenditore possa superare i limiti imposti
alla presenza percentuale nella sua azienda di personale appartenente alle
categorie protette, originariamente assunti in conformità ad un obbligo di
legge. Il divieto è in parte compensato dalla sospensione degli obblighi di
assunzione per le aziende che usufruiscano dei benefici di integrazione
salariale ovvero per la durata delle procedure di mobilità previste dalla legge n. 223 del 1991, così come disposto dall’art. 3, co. 5, I. n. 223 del 1991,
sicché in caso di crisi l’impresa è esonerata dall’assumere nuovi invalidi, ma
non può coinvolgere quelli già assunti in recessi connessi a ragioni di riduzione
del personale, ove ciò venga ad incidere sulle quote di riserva.

La disposizione è stata costantemente interpretata
da questa Corte nel senso che essa riguarda solo il licenziamento di cui all’art. 4, co. 9. L. n. 223 del 1991,
ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo
oggettivo, e non anche gli altri tipi di recesso datoriale (Cass. n. 15873 del 2012; Cass. n. 28426 del 2013; per l’esclusione del
licenziamento disciplinare v. Cass. n. 3931 del
2015; per l’esclusione del licenziamento per superamento del periodo di
comporto v. Cass. n. 21377 del 2016).

I giudici del merito hanno concordemente ritenuto
che fosse incontestata la sussistenza in capo allo I. dei requisiti per
l’assunzione ai sensi della normativa sul collocamento obbligatorio e che, con
il suo licenziamento, fosse stata violata la quota di riserva: tali risultanze
di fatto non possono essere riesaminate in sede di legittimità e sono
sufficienti a sorreggere il decisum. Circa l’apparato sanzionatorio, a fronte
della “annullabilità” del recesso prevista dall’art. 10, co. 4, I. n. 68 del 1999,
occorre verificare quale esso sia in seguito alla graduazione delle tutele
introdotta dalla I. n. 92 del 2012, vigente
nel caso di specie, in caso di licenziamento illegittimo.

Non trova diretta applicazione il comma 7 dell’art. 18 della l.n. 300 del 1970,
come novellato dalla l.n. 92 del 2012, secondo
cui “il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del
presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del
licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo
1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o
psichica del lavoratore”, perché non viene richiamata l’ipotesi di cui al
comma 4 dell’art. 10 della I. n.
68 del 1999 relativa al licenziamento annullabile per violazione della
quota riservata ai disabili. Il mancato rinvio potrebbe essere spiegato, da un
punto di vista sistematico, per il fatto che in tale ultima ipotesi il recesso
non è direttamente connesso alla condizione di inidoneità fisica o psichica del
lavoratore, bensì a motivazioni di carattere economico che coinvolgono l’intera
impresa.

Comunque, nel caso di licenziamento collettivo come
nella specie non vi è lacuna normativa, perché la tutela applicabile può essere
rinvenuta in quella prevista in generale nel comma 3 dell’art. 5 della I. n. 223 del 1991,
come sostituito dall’art. 1, co.
46., I n. 92 del 2012, in base al quale: “Qualora il licenziamento sia
intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime
sanzionatorio di cui all’articolo
18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive
modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, si
applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18. In caso di
violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di
cui al quarto comma del medesimo articolo 18”.

Trascurando l’ipotesi che qui non interessa del
licenziamento “intimato senza l’osservanza della forma scritta”,
questa Corte (Cass. n. 12095 del 2016) ha già
operato la distinzione del “caso di violazione delle procedure richiamate
all’articolo 4, comma 12” dal “caso di violazione dei criteri di
scelta previsti dal comma 1”.

Nel primo caso “si applica il regime di cui al
terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18”; secondo il
terzo periodo di tale settimo comma “nelle altre ipotesi in cui accerta
che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice
applica la disciplina di cui al quinto comma”; il rinvio ulteriore a detto
quinto comma fa sì che il giudice, in tali ipotesi, “dichiara risolto il
rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il
datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva
determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto”. Nel secondo caso –
“violazione di criteri di scelta” – “si applica il regime di cui
al quarto comma del medesimo articolo
18”; quindi il giudice “annulla il licenziamento e condanna il
datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma
e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima
retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello
dell’effettiva reintegrazione”, in una misura non superiore alle dodici
mensilità.

Può essere agevolmente escluso che il caso in
contesa possa rientrare nella tutela meramente indennitaria prevista in
“caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12”, L. n.
223/91, sia perché la quota di riserva non ha a che fare con gli oneri
formali di procedura previsti dalla legge testé citata, sia perché la mera
risoluzione del rapporto di lavoro disposta dal giudice nel caso di tutela
indennitaria tra 12 e 24 mensilità confliggerebbe con  la previsione espressa dell’art. 10, co. 3, l. n. 68/99, in
base alla quale il recesso va annullato.

Conformemente a Cass.
n. 12911/2017 cit., dunque, il caso concreto va ascritto inevitabilmente
alla tutela di tipo reintegratorio conseguente all’annullamento del recesso
prevista dalla fattispecie astratta di “violazione dei criteri di
scelta” che sussiste, secondo questa Corte (Cass.
n. 12095/2016 cit.), “allorquando i criteri di scelta siano, ad
esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente
applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o
collettive”. In una scelta che viola la legge incorre, infatti, il datore
di lavoro che seleziona tra i licenziandi un lavoratore occupato
obbligatoriamente superando il limite della quota di riserva.

Tale opzione interpretativa, oltre ad essere
rispettosa del dettato normativo, appare conforme ad una ratio della disciplina
finalizzata a garantire il rispetto delle quote di riserva e degli obblighi di
assunzione del disabile che solo una tutela di tipo ripristinatorio della
posizione lavorativa del licenziato può garantire.

Il legislatore, esplicitamente, nel bilanciare
l’interesse dell’imprenditore al ridimensionamento dell’organico in una situazione
di crisi economica con l’interesse dell’assunto obbligatoriamente alla
conservazione del posto di lavoro, privilegia quest’ultimo, con una speciale
protezione del disabile e con un sacrificio ragionevole imposto al datore di
lavoro, nell’ambito di una disciplina da interpretare coerentemente con le
fonti sovranazionali in materia ampiamente esaminate in precedenza, in modo
tale da evitare alla persona con disabilità “barriere di diversa natura
(che) possano ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella
società su base di uguaglianza con gli altri” (art. 1, co. 2, convenzione
ONU).”

Ciò posto va altresì osservato che nel caso
all’attenzione del Collegio non viene neppure adeguatamente censurato l’assunto
della Corte territoriale secondo cui sulla violazione della quota di riserva si
sarebbe formato un “giudicato interno”; si tratta di affermazione
che, prescindere dalla sua fondatezza, è idonea a sostenere il decisum ed a
rendere inammissibile ogni ulteriore doglianza che non rimuova detto assunto.
Palesemente inconferente, infine, la circostanza che lo I. avrebbe rifiutato la
ricollocazione presso diversa società cui era stato esternalizzato il servizio
cui il medesimo era addetto, atteso che di un obbligo di repechage in un caso
di licenziamento ex lege n. 223 del 1991 non è
dato parlare.

3. Conclusivamente il ricorso deve esser respinto,
con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti
di cui all’art. 13, co. 1 quater,
d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2019, n. 26029
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