Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 ottobre 2019, n. 25573

Guardia giurata, Licenziamento per giusta causa, Presunto
abbandono del posto di lavoro, Sproporzione della sanzione, Reintegra

Fatti di causa

 

Con ricorso in data 29 dicembre 2011 il sig. N.B.,
premesso di aver lavorato con mansioni di guardia particolare giurata alle
dipendenze della società L.R.S.V. S.p.A. dall’11 marzo 1997, impugnava il
licenziamento per giusta causa intimatogli con lettera del 23 marzo 2011 dalla
datrice di lavoro, perché presentatosi in servizio con circa mezz’ora di
ritardo rispetto all’orario stabilito e perché alle ore 6:15 del giorno 7 marzo
2011 era stata riscontrata la sua assenza nella postazione di servizio
assegnata, essendo stato invece trovato mentre stava dormendo su di un divano.
Il lavoratore deduceva di aver avvertito la direzione del ritardo per cui era
stato autorizzato a prendere servizio alle ore 00.30 del 7 marzo anziché alle
24:00 del giorno precedente. Inoltre, aveva dedotto la sproporzione della
sanzione comminatagli, non rientrando la condotta contestata tra le ipotesi
previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro quale giusta causa di
licenziamento, escludendo in particolare che il fatto addebitatogli integrasse
la fattispecie dell’abbandono del posto di lavoro. L’adito giudice del lavoro
di Verona con sentenza n. 434 pubblicata il 4 dicembre 2014, previa istruzione
con l’espletamento di prova per testi, dichiarava l’illegittimità
dell’impugnato licenziamento e condannava la convenuta società alla reintegra
dell’attore nel posto di lavoro e al risarcimento del danno, liquidato
nell’importo complessivo pari al numero di mensilità della retribuzione globale
di fatto, maturate dalla data di licenziamento sino alla reintegra effettiva, oltre
accessori di legge, detratto l’aliunde perceptum, con addebito inoltre delle
spese di lite. Il giudicante riteneva provato quanto affermato dal ricorrente
in ordine al giustificato ritardo nel presentarsi al lavoro rispetto all’orario
stabilito ed escludeva, inoltre, l’abbandono del posto di lavoro, poiché il
comportamento posto in essere dal dipendente andava configurato come
addormentamento in servizio, fattispecie che ai sensi del C.C.N.L. vigilanza privata era punita con la
sanzione conservativa della sospensione del della retribuzione dal servizio da
1 a 6 giorni, risultando altresì sproporzionata la sanzione espulsiva comminata
rispetto all’infrazione commessa, tenuto pure conto della mancanza di
precedenti disciplinari, valutato il contesto fattuale per cui il padiglione da
vigilare risultava avere le porte chiuse nonché presidiato da altre due guardie
giurate addette ad altrettanti stand.

La sentenza di primo grado era appellata da parte
datoriale con ricorso in data 4 giugno 2015, impugnazione che tuttavia veniva
respinta dalla Corte d’Appello di Venezia mediante la sentenza n. 33 in data 26
gennaio – 27 giugno 2017, con la condanna inoltre dell’appellante al rimborso
delle ulteriori spese di lite (dando peraltro atto in motivazione anche della
sussistenza dei presupposti di cui all’articolo 13 comma uno quater d.P.R. n.
115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato).

Secondo la Corte territoriale, in base al contesto
nel quale si erano svolti i fatti contestati all’incolpato non sussisteva quel
totale distacco dal bene da proteggere richiesto dalla giurisprudenza per poter
configurare l’abbandono del posto di lavoro. In particolare, sotto il profilo
oggettivo il contesto ambientale non era tale da far temere un potenziale
pregiudizio per lo stand da sorvegliare, che si trovava all’interno di un
padiglione, le cui porte di accesso erano chiuse ed era presidiato all’interno
da altre due guardie giurate addette ad altrettanti stands e da una terza
addetta alla sorveglianza dell’intero padiglione. Dal punto di vista
soggettivo, il fatto che il B. si trovava all’interno del padiglione in uno
stand adiacente, dal quale era possibile vedere lo stand da sorvegliare,
escludeva che si potesse inequivocabilmente configurare una sua coscienza e
volontà di non svolgere il proprio lavoro. Parte appellante aveva sostenuto che
il lavoratore si era allontanato con il preciso intento di dormire senza essere
disturbato, ma non aveva neppure offerto di provare tale assunto, assunto che
non poteva essere dedotto in via presuntiva, come invece auspicato dalla
società, in base al mero fatto che il lavoratore era stato trovato addormentato
su di un divano piuttosto che su una sedia, poiché una cosa era l’abbandono del
posto di lavoro, altra cosa era l’addormentamento, come riconosciuto anche
dalla contrattazione collettiva, che sanzionava diversamente le due
fattispecie.

La Corte veneziana, inoltre, disattendeva anche il
secondo motivo di gravame, con il quale era stato censurato il ritenuto difetto
di proporzionalità tra condotta contestata e reazione disciplinare, assumendo
che il deliberato e consapevole allontanamento dalla propria postazione al fine
di reperire un luogo appartato dove poter dormire senza essere disturbato era
dotato di una sua intrinseca e ontologica gravità, condotta che
indipendentemente dalla sua formale qualificazione come abbandono del posto di
lavoro era certamente idonea a giustificare la massima sanzione espulsiva per
giusta causa. Anche questa doglianza veniva respinta, poiché non risultava
provato neppure in via presuntiva che il B. si fosse allontanato dallo stand
che doveva sorvegliare con la chiara intenzione di dormire senza essere
disturbato, non potendo l’intenzione soggettiva del lavoratore essere dedotta
dal solo fatto che il medesimo era stato trovato addormentato su di un divano
in uno stand vicino. La Corte di merito, inoltre, pur non dubitando,
verosimilmente, della veridicità di quanto sostenuto da parte datoriale circa
la violazione delle direttive appositamente impartite al dipendente, di
rimanere per tutta la durata del suo turno all’interno dello stand
assegnatogli, osservava che ad ogni modo non risultava dimostrato, né
documentalmente e nemmeno tramite testi, che il B. avesse ricevuto specifiche
consegne sulle modalità di svolgimento del proprio turno di lavoro, sicché
poteva anche ammettersi una certa elasticità nella sua esecuzione, essendo il
dipendente comunque rimasto sempre nelle vicinanze dello stand. Ciò che rendeva
all’evidenza meno “macroscopica” la dedotta lesione del vincolo
fiduciario, con riguardo alla legittima aspettativa di parte datoriale di un
corretto adempimento della prestazione futura.

Inoltre, la Corte distrettuale, avuto riguardo
all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto
dalle mansioni svolte dal dipendente, come sopra valutati, alla durata di 14
anni del rapporto in questione, pure senza precedenti sanzioni disciplinari,
riteneva, al pari del giudice di primo grado, palesemente sproporzionato il
licenziamento rispetto all’infrazione commessa, per entrambi i dedotti profili.

La pronuncia d’appello è stata quindi impugnata
dalla S.p.a. L.R.S.V., con sede in Verona, con ricorso per cassazione
notificato tramite p.e.c. il 27 dicembre 2017, affidato a tre motivi, cui ha
resistito il sig. B. come da controricorso del 5-2-2018.

La ricorrente ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo – formulato ex articolo 360 comma primo n. 5 c.p.c. – la società
ricorrente ha denunciato omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio: uno
dei pilastri su cui la Corte d’Appello aveva escluso la configurabilità
dell’abbandono del luogo di lavoro risiedeva nella erronea convinzione che non
sarebbe stato provato che il B. abbia ricevuto specifiche consegne sulle
modalità di svolgimento del lavoro trattandosi di un’affermazione priva di
alcun riscontro fattuale, risultando sul punto sufficiente la deposizione
rilasciata all’udienza del 6 dicembre 2012 dal teste M., oltre che le
dichiarazioni rese dai testi S. e T.. Era dunque pacifico che il B. avesse a
suo tempo ricevuto dalla società uno specifico incarico di vigilanza reso
necessario dalla presenza all’interno dello stand assegnatogli di un prototipo
non ancora in commercio.

Con il secondo motivo di ricorso è stata dedotta la
violazione o falsa applicazione di norme del contratto collettivo nazionale di
lavoro ex articolo 360, co. 1 n. 3 c.p.c.,
nonché dell’articolo 1362 del codice civile,
con riferimento in particolare all’articolo 140 del c.c.n.I. per i
dipendenti di istituti di vigilanza privata, secondo cui il licenziamento
per giusta causa si applica nei confronti del lavoratore che commetta una
mancanza che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di
lavoro. A titolo indicativo rientravano tra le mancanze di cui sopra
l’abbandono del posto di lavoro. Nonostante la univocità della previsione
negoziale e la chiarezza degli obblighi contrattuali da osservare, la Corte
veneziana con un evidente violazione della lettera della richiamata norma
collettiva, aveva escluso la riconducibilità del caso in esame alla fattispecie
dell’abbandono del posto di lavoro, ritenendo viceversa configurabile la meno
grave ipotesi dell’addormentamento in servizio di cui all’articolo 101 lettera c) dello
stesso contratto collettivo, che al riguardo prevedeva la sanzione conservativa
della sospensione della retribuzione e dal servizio da uno a sei giorni (per il
lavoratore che esegua con negligenza grave il lavoro affidatogli, ometta
parzialmente di eseguire la prestazione richiesta, arrechi danno alle cose
ricevute in dotazione o in uso con responsabilità, si assenti per un giorno dal
lavoro senza valida giustificazione, non avverta subito superiori diretti di
eventuali irregolarità nell’adempimento di servizio, si presenti in servizio
prestato di manifesta ubriachezza e nell’ipotesi in cui <<SI ADDORMENTI
in SERVIZIO>>).

La Corte territoriale, pur muovendo il suo
ragionamento da una recente pronuncia di Cassazione, nella sua parte motiva con
la sentenza impugnata finiva di fatto per discostarsene, operando una parziale
e limitata applicazione del richiamato principio di diritto. Infatti, partendo
dal profilo oggettivo era pacifico che la notte tra il sei e il 7 marzo 2011 il
sig. B. era stato addetto al piantonamento del padiglione otto, in particolare
presso lo stand IML motori, che conteneva un prototipo non ancora presentato al
pubblico, prototipo che necessitava come da specifica richiesta del cliente di
un presidio particolare con una guardia nella fascia notturna; alle ore 6:15 il
suddetto dipendente era sorpreso dai signori M., S. e T. a dormire
profondamente, sdraiato su uno dei divani posti su di un soppalco di un diverso
stand, distante circa 10 metri da quello assegnato al predetto, in un luogo
quindi chiaramente al di fuori del suo raggio di azione, non rientrando nella
zona sottoposta la sua attività di vigilanza. Da tale soppalco non era
possibile, infatti, controllare lo stand cui era stato adibito il lavoratore,
essendo aperto solo da un lato ed essendoci una balaustra alta oltre un metro e
mezzo, che impediva la visuale specie di chi fosse seduto o sdraiato sul
divano. Il B. non aveva avvisato nessuno dei suoi colleghi presenti nel
medesimo sito di avere necessità di allontanarsi e riposare, lasciando del
tutto incustodito lo stand cui era stato addetto.

Gli anzidetti elementi, del tutto pacifici anche al
resto dell’attività istruttoria svolta in primo grado, rappresentavano senz’altro
il substrato oggettivo della fattispecie disciplinare contestata al lavoratore
e fondante il recesso. Malgrado ciò, la Corte di merito si era limitata a
rilevare che il contesto ambientale non era tale da far temere un potenziale
pregiudizio per lo stand da sorvegliare, affermazione però integrante il vizio
di violazione del suddetto articolo
140. L’esclusione della più grave fattispecie dell’abbandono del posto di
lavoro veniva in pratica fatta discendere dal solo profilo, alquanto soggettivo
e personale, della verosimile assenza di un pericolo per i beni da proteggere,
piuttosto che dalla verifica oggettiva di tutte le anzidette richiamate
circostanze di fatto, che sicuramente rappresentavano elementi costitutivi
della suddetta fattispecie.

Ugualmente parziale ed erronea risultava la
valutazione del profilo soggettivo della contestata condotta, poiché anche su
questo versante la decisione impugnata si rivelava del tutto distonica rispetto
alle coordinate interpretative della giurisprudenza di legittimità, nella
misura in cui ometteva di considerare che il luogo dove era stato sorpreso il
dipendente a dormire era pacificamente estraneo e al di fuori della zona cui
egli era stato addetto. Era innegabile che il lavoratore avesse deliberatamente
scelto di allontanarsi dallo stand, cui era stato assegnato, e che si era
diretto presso uno stand vicino, dove era andato alla ricerca di un posto
appartato per poter riposare, non a caso un soppalco dove c’era un divano non
visibile dal basso. L’omesso esame di tali pacifiche circostanze nell’ambito
del giudizio di accertamento della condotta di cui all’articolo 140 C.C.N.L., quale
abbandono del posto di lavoro, integrava una palese violazione della
disposizione negoziale, essendo nel ragionamento del giudice del tutto carente
l’indagine sull’indefettibile requisito della coscienza e volontà della
condotta di abbandono. In realtà, la Corte distrettuale aveva omesso, anche per
tale profilo, di contestualizzare il comportamento, errore che non consentiva
quindi al collegio di cogliere la gravità della condotta di chi, preposto ad un
luogo di vigilanza di un intero stand aziendale, volontariamente e senza avvisare
nessuno lascia il proprio posto di lavoro per addormentarsi in un luogo
appartato e per un tempo non preventivabile ex ante, accettando implicitamente
il rischio di mettere a repentaglio la sicurezza dei luoghi di lavoro che si
era impegnato contrattualmente a custodire e vigilare. Dunque, il lavoratore
che non si adoperava per assicurare il regolare svolgimento del servizio con la
propria condotta determinava un gravissimo inadempimento idoneo a ledere il
vincolo fiduciario. In tal sensi si era pronunciata da tempo la giurisprudenza
di legittimità, richiamandosi sul punto il principio affermato da Cass. 4
giugno 2002 n. 8107.

Infine, con il terzo motivo è stata lamentata la
violazione o falsa applicazione degli artt. 2016
e 2119 c.c., laddove l’impugnata sentenza,
sull’erroneo inquadramento della vicenda fattuale come addormentamento in
servizio, punito dal c.c.n.I. con una sanzione conservativa, era giunta alla
conclusione dell’illegittimità del licenziamento per difetto del requisito di
proporzionalità, in quanto, a parte il già rilevato erroneo punto di partenza,
essendo invece pacifico che l’appellato avesse deliberatamente e scientemente
abbandonato la sua postazione al fine di rintracciare un luogo appartato dove
poter dormire, in ogni caso la condotta posta in essere risultava connotata da
una sua intrinseca e ontologica gravità, che, anche a prescindere dalla sua
formale qualificazione come abbandono del posto di lavoro, era certamente
idonea a giustificare la massima sanzione espulsiva. La Corte di merito,
secondo parte ricorrente, non aveva adeguatamente valutato la portata oggettiva
e soggettiva dei fatti addebitati e la loro ripercussione sull’elemento
fiduciario. La sentenza impugnata aveva omesso totalmente di effettuare proprio
quella rilevazione degli elementi di contesto del fatto addebitato, che
scaturivano dalle concrete circostanze in cui la condotta si era realizzata.
Tale omissione non aveva consentito alla Corte distrettuale di valutare e
apprezzare, nel comportamento osservato dal dipendente, la grave negazione
degli elementi essenziali del rapporto, in relazione alla delicatezza delle
mansioni assegnate, in vista delle peculiari esigenze di prevenzione e
repressione che il servizio di vigilanza deve soddisfare. Non poteva accettarsi
l’approccio riduttivo e minimalista della Corte territoriale, che aveva
qualificato siffatto comportamento come non meritevole di una sanzione
espulsiva. La guardia giurata, che intenzionalmente abbandonava il proprio
posto di lavoro appartatosi in un altro stand a dormire profondamente su di un
divano, veniva meno ai doveri fondamentali oggetto della propria prestazione di
lavoro e tale mancanza, nel caso di specie, aveva un peso disciplinare
elevatissimo, consentendo di affermare che all’esito dell’operazione di
sussunzione della complessiva vicenda fattuale entro le coordinate della
disciplina codicistica, ex articolo 2119 c.c.,
nel caso di specie ricorrevano i requisiti della giusta causa di licenziamento,
ed ancora che, sul piano della proporzionalità ex articolo
2106 c.c., il provvedimento espulsivo doveva ritenersi certamente
commisurato alla gravità della condotta così come emersa nel corso del
giudizio.

Le anzidette censure vanno disattese in forza delle
seguenti considerazioni.

Invero, preliminarmente e segnatamente con
riferimento al primo motivo ex art. 360 n. 5 c.p.c.,
va osservato che nella specie i fatti di causa devono ritenersi –
incensurabilmente in questa sede di legittimità – accertati come da motivate
pronunce di merito, che vanno di conseguenza lette congiuntamente, integrandosi
le stesse reciprocamente (n. 434/04 – 12-2014 in primo grado, confermata in
secondo grado con il rigetto del ricorso d’appello in data 4 giugno 2015
mediante la qui impugnata pronuncia n. 33/26 gennaio – 27 giugno 2017 r.g. n.
411/2015), sicché la c.d. doppia conforme preclude ogni diversa valutazione rispetto
a quanto appurato e di conseguenza apprezzato nonché deciso, prima dal giudice
del lavoro di Verona e poi dalla Corte di Venezia, operando nella specie
l’ultimo comma dell’art. 348-ter c.p.c.,
ratione temporis applicabile in virtù del regime transitorio stabilito dall’art. 54, comma 2, del d.l. 22 giugno
2012, n. 83, conv. in I. 7 agosto 2012, n. 134
(cfr. sul punto, inoltre, Cass. I civ. n. 26774 del 22/12/2016: nell’ipotesi di
“doppia conforme”, prevista dall’art.
348-ter, comma 5, c.p.c. – applicabile ai giudizi d’appello introdotti con
ricorso depositato 0 con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione
dal giorno 11 settembre 2012 – il ricorrente in cassazione – per evitare
l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360,
n. 5, c.p.c. – nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83
cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012 –
deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della
decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando
che esse sono tra loro diverse. Conforme tra le altre Cass. II civ. n. 5528 del
10/03/2014. V. quindi anche Cass. VI civ. – 3, n. 26097 in data 11/12/2014,
secondo cui in ipotesi di cosiddetta “doppia conforme” in fatto a
cognizione sommaria, ex art. 348 ter, quarto comma
– alla cui disciplina rimanda il quinto e ultimo comma dello stesso art. 348-ter riguardo al ricorso per cassazione
avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado – cod.
proc. civ., è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai
giudici di merito, sicché il sindacato di legittimità del provvedimento di
primo grado è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da
vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o
argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o
obiettivamente incomprensibili.

A tale ultimo riguardo, tuttavia, va ancora
precisato, come puntualizzato da Cass. VI civ. – 3 con l’ordinanza n. 22598 del
25/09/2018, che in seguito alla riformulazione dell’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012,
conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012,
non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di
sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono
all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo
civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c..
Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o
meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla
funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione e, in tal caso, si
concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c..

Nella specie, peraltro, la motivazione della
sentenza qui impugnata appare del tutto adeguata agli anzidetti parametri, di
modo che non può dirsi neanche violato il c.d. minimo costituzionale – v. a tal
proposito in part. Cass. sez. un. civ. nn. 8053
e 8054 del 2014, tanto più poi che neanche parte ricorrente ha prospettato un
error in procedendo sul punto, peraltro da denunciarsi ritualmente, ed
univocamente in termini di nullità, ai sensi del succitato art. 360 n. 4).

Da tanto deriva anche l’infondatezza, se non la
radicale inammissibilità, di tutte le censure svolte con il secondo ed il terzo
motivo di ricorso, tra loro evidentemente connessi e perciò congiuntamente
esaminabili, concernenti le denunciate violazioni di legge e di contrattazione
collettiva, che però presuppongono una ricostruzione in punto di fatto della
vicenda in questione diversa da quanto ritenuto in sede di merito, nella specie
quindi, come si evince dalle surriferite doglianze, essenzialmente formulate in
termini di abbandono del posto di lavoro, anziché di addormentamento, secondo
quanto invece accertato dai giudici di primo e di secondo grado. Una volta,
pertanto, acclarati i fatti di causa, secondo quanto pur motivatamente appurato
in sede di merito, le censure consentite ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. non possono prescindere
dall’accertamento compiuto dai giudici esclusivamente competenti al riguardo.
Ne consegue che le asserite violazioni di legge, ovvero di errata applicazione
del c.c.n.I., vanno esaminate esclusivamente in base a quanto in punto di fatto
già accertato dai giudici di merito, le cui corrispondenti valutazioni poi,
come è noto secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte in materia,
nemmeno sono sindacabili in sede di legittimità. Infatti, in tema di ricorso
per cassazione, la deduzione del vizio di violazione di legge, consistente
nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale
deputata a dettarne la disciplina (c.d. vizio di sussunzione), postula che
l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed
indiscusso, sicché è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni
critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente
riservata al potere del giudice di merito (in tal sensi v. tra le altre Cass.
III civ., ordinanza n. 6035 del 13/03/2018, che in motivazione così risulta, in
particolare, motivata: «…Tutto ciò rende, altresì, evidente quanto innanzi
accennato circa l’insussistenza di una effettiva denuncia di error in
iudicando.

La ricorrente, infatti, si duole non tanto
dell’erronea interpretazione delle norme che presiedono al governo della
fattispecie di diffamazione a mezzo stampa o dei principi giuridici a tal
riguardo enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, quanto della cattiva
applicazione degli stessi rispetto ai fatti allegati siccome integranti
l’ipotesi dell’anzidetto illecito … Tuttavia, una siffatta doglianza –
veicolabile in base al n. 3 del primo comma dell’art.
360 c.p.c. e da qualificarsi come “vizio di sussunzione”, in
quanto attinente all’erronea riconduzione della fattispecie materiale in quella
legale (e, dunque, del fatto alla norma che è deputata a dettarne la disciplina
e regolarne gli effetti) – non può che essere costruita se non assumendo
l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di
termine obbligato, Indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del
paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente
(ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare
nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di
cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. in tale
prospettiva, tra le altre, Cass., 23 settembre
2016, n. 18715 e Cass., 14 febbraio 2017, n. 3965). È dunque estraneo alla
denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investe la ricostruzione e
l’accertamento del fatto materiale, da cui, Invece, nella sua portata, come
giudizialmente definita, deve muovere la censura di erronea riconduzione di
esso alla norma di riferimento. Sicché, nella specie, come già posto in
risalto, ciò che viene criticato è anzitutto e proprio l’accertamento del
giudice del merito sulla realtà materiale che le risultanze di causa, secondo
la prospettiva della stessa parte ricorrente, avrebbero dimostrato come
“vera” …>>.

V. anche Cass. IlI civ. n. 3205 del 18/03/1995: il
vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di
ricorso per cassazione – n. 3 dell’art. 360 cod.
proc. civ. – ricorre quando si prospetta l’errata applicazione di una norma
ad un fatto sulla cui fissazione non c’è discussione, mentre quello di omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione – art.
360 n. 5 cod. proc. civ. – si risolve in una doglianza che investe la
ricostruzione della fattispecie concreta, addebitando a questa ricostruzione di
essere stata effettuata in una massima la cui incongruità emerge dalla
insufficiente, contraddittoria o omessa motivazione della sentenza. Pertanto,
il vizio dell’incongruità della motivazione comporta un giudizio sulla
ricostruzione del fatto, mentre quello sulla falsa applicazione della legge si
risolve in un giudizio sul fatto contemplato dalla norma di diritto applicabile
al caso concreto, in maniera tale che tra i due momenti non vi siano
giustapposizioni. Conforme id. n. 1624 del 16/02/1998. Analogamente, secondo
Cass. III civ. n. 1430 del 20/02/1999, l’espressione normativa, di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. si riferisce
all’accertamento dei punti di fatto che hanno assunto rilevanza per la
decisione e non a quelli riguardanti l’affermazione e l’applicazione dei
principi giuridici, posto che in questo secondo caso è configurabile una falsa
applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art.
360 n. 3.

Parimenti, secondo Cass. II civ. n. 6224 del
29/04/2002, non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa
applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione
“ex” art. 360, numero 3), cod. proc. civ.,
la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito, non di aver errato
nella individuazione della norma regolatrice della controversia, bensì di avere
erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la
ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie
normativamente regolata, giacché siffatta valutazione comporta, non un giudizio
di diritto, ma un giudizio di fatto, da impugnarsi, se del caso, sotto il
profilo del vizio di motivazione. Cfr. ancora Cass. I civ. n. 15499 in data
11/08/2004: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di
un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della
fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica
necessariamente un problema interpretativo della stessa, di qui la funzione di
assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di
cassazione dall’art. 65 Ord. Giud.; viceversa, l’allegazione di un’erronea
ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è
esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica
valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di
legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione – secondo il testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c. vigente all’epoca di tale
pronuncia – Conforme, tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 10313 del 5/5/2006,
secondo cui, di conseguenza, il discrimine tra Cuna e l’altra ipotesi –
violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione
dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in
ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie
concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la
prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. In
senso analogo Cass. lav. n. 7394 del 26/03/2010 e n. 16698 del 16/07/2010,
nonché Sez. 6 – 2 con ordinanza n. 24054 del 12/10/2017. V. altresì Cass. II civ. n. 6653 del 30/03/2005: non può
ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di
diritto, quale motivo di ricorso per cassazione “ex” art. 360, primo comma numero 3, cod. proc. civ.,
la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito non di aver errato
nella individuazione della norma regolatrice della controversia, bensì di avere
erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la
ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie
normativamente regolata, giacché siffatta valutazione comporta un giudizio non
già di diritto bensì di fatto, eventualmente impugnabile sotto il profilo del
vizio di motivazione – anche qui ex art. 360 n. 5
vecchio testo. Ancora, similmente v. Cass. n. 8315
del 04/04/2013: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di
un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della
fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica
necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa,
l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo
delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e
inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è
possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di
motivazione. Conformi Cass. V civ. n. 26110 del
30/12/2015 e sez. lav. n. 195 in data 11/01/2016. Ancor più recentemente
Cass. I civ. n. 24155 del 13/10/2017 ha confermato che il vizio di violazione
di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa;
l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo
delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della
norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al
sindacato di legittimità. Di conseguenza, nella specie veniva dichiarato
inammissibile il motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., con il quale era
stata proposta una lettura alternativa delle risultanze di causa rispetto a
quella fatta propria dal giudice di merito, in assenza di qualsivoglia censura
dei criteri ermeneutici asseritamene violati o di specifica indicazione di un
preciso “error in iudicando”).

Ed alla stregua, dunque, di quanto, ormai
insindacabilmente, accertato in punto di fatto dai giudici di merito, del tutto
corrette appaiono anche le conseguenti argomentazioni in diritto (v. Cass. lav. n. 15441 del 19/04 – 26/07/2016),
circa gli estremi dell’abbandono del posto di lavoro, di cui all’art. 140 del c.c.n.I. Istituti di
vigilanza, ravvisabile soltanto in presenza di una duplice connotazione,
oggettiva, per cui, dovendosi identificare l’abbandono nel totale distacco dal
bene da proteggere (o, se si vuole, nella completa dismissione della condotta
di protezione) rileva l’intensità dell’inadempimento agli obblighi di
sorveglianza, e soggettiva, consistente nella coscienza e volontà della condotta
di abbandono indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la
configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo
dell’allontanamento. In particolare, la Corte di merito ha escluso che nel caso
di specie potesse sussistere l’anzidetto elemento oggettivo, non risultando
d’altro canto provato anche il pur necessario elemento soggettivo.

Una volta, pertanto ridimensionato l’accaduto, con
esclusione dell’abbandono del posto di lavoro, sanzionato dalla contrattazione
collettiva con il licenziamento per giunta causa, i giudici di merito hanno
inoltre evidenziato una serie di circostanze tali da indurre a ritenere
comunque la sproporzione tra il riscontrato addormentamento in servizio ed il
recesso per contro intimato, non contemplato dalla stessa contrattazione per
tale ipotesi, per la quale era prevista invece la sola sanzione conservativa
della sospensione dalla retribuzione e dal servizio da uno a sei giorni. Per
quanto concerne, dunque, in particolare le doglianze esposte con il terzo
motivo di ricorso, a parte le già rilevate preclusioni riguardo ad una diversa
ricostruzione fattuale, la Corte di merito non ha comunque riscontrato una
legittima proporzione tra il fatto accertato e la sanzione di rigore applicata
da parte datoriale, ritenendo in tal modo, evidentemente, non potersi
discostare dalle previsioni in materia dettata dalla contrattazione collettiva
di settore, ratio deciderteli peraltro anch’essa del tutto legittima (cfr.
infatti Cass. lav. n. 27004 del 24/10/2018, secondo cui pur essendo la giusta
causa di licenziamento nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti –
al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo – le
previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non
precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità
delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e
lavoratore, tuttavia opera il solo limite che non può essere irrogato un
licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave
di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata
infrazione. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 6165
del 30/03/2016, il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento
disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella
prevista dal c.c.n.I. in relazione ad una determinata infrazione.

Cfr., d’altro canto, pure Cass. lav. n. 8826 del 05/04/2017, secondo cui la
valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un
lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma
del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve
essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da
parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento
addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione
ed infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza di quel
comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre
che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta
causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del
lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con
valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della “non scarsa
importanza” dettata dall’art. 1455 c.c..
V. altresì Cass. lav. n. 23602 del 28/09/2018:
in tema di licenziamento disciplinare, qualora il grave nocumento morale e
materiale è parte integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali
come giusta causa di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza, quale
elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro,
restando preclusa, in caso contrario, la sussunzione del caso concreto
nell’astratta previsione della contrattazione collettiva. Inoltre, secondo
Cass. lav. n. 26010 del 17/10/2018, in tema di licenziamento per giusta causa,
l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e
proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento
del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza
dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è
tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo
conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da
adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità).

Atteso l’esito negativo dell’impugnazione qui
proposta, la parte rimasta soccombente va condannata al rimborso delle relative
spese, risultando peraltro anche in presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n.
115/2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente
al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente in
complessivi euro #4500,00# per compensi professionali ed in euro #200,00# per
esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a.

come per legge, in relazione a questo giudizio di
legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari
a quello dovuti per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 ottobre 2019, n. 25573
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