Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 dicembre 2019, n. 31527

Licenziamento, Soppressione posizione organizzativa,
Redistribuzione delle relative mansioni tra altri dipendenti, Consulente
esterno, Natura ritorsiva, Mancata sottoscrizione del verbale di
conciliazione per prosecuzione riduzione complessi trattamento economico,
Reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza n.
635 del 2018, respingeva il reclamo proposto dall’Impresa B. s.r.l. avverso la
pronuncia del Giudice del lavoro del locale Tribunale che, rigettando
l’opposizione della stessa società, aveva accolto la domanda di C. B. M. G.
avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimato dalla datrice di
lavoro per giustificato motivo oggettivo e, ritenuta la natura ritorsiva del
recesso, aveva ordinato la reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro.

2. La Corte di appello premetteva che nella lettera
di licenziamento la società aveva fatto riferimento ad una più efficiente ed
economica gestione dell’ufficio del personale al quale la ricorrente era
addetta e alla decisione di sopprimere la posizione organizzativa dalla stessa
occupata con redistribuzione delle relative mansioni tra altri dipendenti, ciò al
fine di contenere i costi aziendali a causa del notevole calo del fatturato.
Tanto premesso, osservava che “ciò che pare mancare è, in particolare, la
dimostrazione della sussistenza del nesso causale tra la motivazione della
modifica organizzativa disposta dal datore (contrazione del fatturato in un
ambito di crisi) e la soppressione della posizione lavorativa” occupata
dalla ricorrente; che “a ciò si aggiunge” che dalla prova
testimoniale era emerso che alcune delle mansioni erano state assegnate non ad altri
lavoratori già in forza nell’azienda, ma ad un consulente esterno.

2.1. Ritenuta dunque l’insussistenza del
giustificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento, la Corte
osservava che vi era pure la prova dell’intento ritorsivo, il quale era
desumibile dalla circostanza che il licenziamento del 22 luglio 2016 era
intervenuto a distanza di un giorno dalla mancata sottoscrizione, da parte
della G., del verbale di conciliazione che l’azienda aveva sottoposto ai
dipendenti elencati nel verbale stesso e nel quale era prevista la prosecuzione
per ulteriori due anni della riduzione del complessi trattamento economico già
in vigore dal 1° gennaio 2015 al 30 giugno 2016, in forza del precedente
analogo verbale di conciliazione del 15 gennaio 2015.

3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha
proposto ricorso affidato a tre motivi, cui ha resistito la G. con
controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 3 legge n. 604 del 1966 e
dell’art. 41 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per
avere la sentenza ritenuto ingiustificato il licenziamento incentrando il
giudizio su un illegittimo e inammissibile sindacato nel merito delle scelte
organizzative dell’imprenditore.

In particolare, si censura la sentenza per avere
ritenuto illegittimo il licenziamento con riguardo al fatto che una parte dei
compiti prima svolti dalla G. erano stati demandati ad un consulente del
lavoro. Tuttavia, il fatto di ricorrere alle prestazioni di un professionista
esterno rientra nell’ambito della libera iniziativa economica
dell’imprenditore, costituzionalmente garantita dall’art.
41 Cost.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione
dell’art. 1418 cod. civ. e dell’art. 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per
avere la Corte di appello desunto la natura ritorsiva del licenziamento dal
rifiuto della lavoratrice di sottoscrivere un verbale di accordo per una
riduzione temporanea del suo trattamento economico, proposta che l’azienda
aveva sottoposto a tutte le maestranze.

Si deduce che la Corte territoriale aveva errato
nell’applicare l’art. 1418 cod. civ. poiché il
motivo illecito, per giurisprudenza costante, deve essere il motivo unico e
determinante del recesso e non poteva dunque dipendere dal solo indizio
costituito dalla prossimità temporale del rifiuto della lavoratrice di sottoscrivere
l’accordo, il quale peraltro si inseriva pacificamente nel conte di una
gravissima crisi economica e finanziaria dell’azienda. Al più l’insussistenza
del giustificato motivo oggettivo, ritenuta dalla Corte, avrebbe potuto
integrare un’ipotesi di licenziamento ingiustificato, ma non un’ipotesi di
licenziamento ritorsivo.

3. Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 132 n. 4 cod. proc. civ. con riferimento all’art. 18, comma 4, legge n. 300
del 1970 e all’art. 1227 cod. civ. e art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per non
avere la sentenza esaminato l’eccezione sollevata la società ricorrente fin
dalla sua costituzione in giudizio nella fase sommaria e poi successivamente
riproposta nella fase di opposizione e in sede di reclamo, volta ad ottenere la
detrazione, dal quantum risarcitorio, di quanto la lavoratrice avrebbe potuto
percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione
(aliunde percipiendum), onere probatorio di diligente attivazione che la
lavoratrice non aveva in alcun modo assolto.

4. I primi due motivi sono inammissibili, il terzo è
infondato.

5. Il primo motivo è inammissibile per carenza di
interesse. E’ tale il ricorso per cassazione con il quale si contesti
esclusivamente un argomento che, nella motivazione della sentenza, è stato speso
dal giudice di appello ad abundantiam e costituisca un mero obiter dictum, che
non ha influito sulla decisione, la cui ratio decidendi è, in realtà,
rappresentata dal rigetto già argomentato in ordine ad un profilo in sé
assorbente (cfr. in ordine agli argomenti svolti ad abundantiam dal giudice di
merito, Cass. n. 30354 del 2017, n. 22782 del 2018).

5.1. Nel caso in esame, la sentenza si fonda sul
rilievo della mancata dimostrazione, da parte datoriale, che ne aveva l’onere,
del nesso causale tra la addotta crisi economica e la necessità di sopprimere
la posizione occupata dalla odierna resistente. Tale ratio decidendi, su cui la
sentenza si fonda, non è stata in alcun modo presa in esame dalla odierna
ricorrente, in quanto il succinto primo motivo di ricorso è volto a censurare
esclusivamente l’argomento, meramente aggiuntivo e privo di decisività, secondo
cui una parte delle mansioni già espletate dalla G., ossia la gestione dei
rapporti con il sindacato, aveva costituito oggetto dell’affidamento ad un
consulente esterno.

6. Anche il secondo motivo è inammissibile. Occorre
premettere che, come chiarito da questa Corte, il licenziamento per ritorsione
costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del
lavoratore colpito con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo
ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia
fornito prova, anche con presunzioni (cfr. tra le altre, Cass. 17087 del 2011, 6282
del 2011 e tra le più recenti Cass. n. 9468
del 2019). Nel caso in esame, la Corte di appello ha fatto ricorso alla
prova per presunzioni onde risalire, dalla sequenza dei fatti accertati, all’accertamento
del fatto ignoto, costituito dal motivo ritorsivo come l’unico determinante del
recesso.

6.1. E’ ben vero che il non corretto utilizzo della
prova per presunzioni può essere oggetto di censura in termini di violazione o
falsa applicazione di norma di legge (art. 2729
cod. civ. in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 3 cod. proc. civ.). Come questa Corte ha precisato, in tema di
presunzioni, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre
caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza)
fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo
ragionamento è censurabile in base all’art. 360, n.
3, cod. proc. civ. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione,
nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 cod. civ., oltre ad essere applicata
esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il
profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino
ascrivibili alla fattispecie astratta (Cass. n. 19485 del 2017, n. 29635 del
2018).

6.2. Tuttavia, la censura svolta nel secondo motivo
di ricorso non presenta connotati di una valida censura di diritto riguardante
la correttezza del ragionamento presuntivo, ove si consideri che con il ricorso
per cassazione ci si duole che la Corte di appello abbia assunto come elemento
decisivo la contiguità temporale del licenziamento al rifiuto opposto dalla
lavoratrice di sottoscrivere l’accordo sulla riduzione temporanea del
trattamento economico, “senza però inserire questo indizio nel generale
contesto della complessiva situazione aziendale e della posizione della
lavoratrice stessa e senza considerare il complessivo risultato della ricca
attività istruttoria e probatoria espletata dal tribunale”.

6.3. Ebbene, dall’argomentare del ricorso, emerge
che in esso non si svolge alcuna critica alla motivazione della sentenza
impugnata ragionando e spiegando perché essa avrebbe violato nei sensi indicati
dalla sopra ricordata giurisprudenza il paradigma dell’art. 2729 cod. civ. Ed anzi si svolgono
argomentazioni che sono dirette a criticare la ricostruzione di dati fattuali
fatta dal giudice di appello, in sostanza formulando una censura di merito che
non trova neppure legittimazione nel paradigma del nuovo n. 5 dell’art. 360 e nei limiti del controllo della
motivazione sulla quaestio facti indicati da Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014.

7. Il terzo motivo è invece infondato. Va ribadito
in questa sede il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui
il datore di lavoro che affermi la detraibilità dall’indennità risarcitoria
prevista dal nuovo testo dell’art. 18, comma 4, Stat. lav., a titolo di aliunde
percipiendum, di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi alla
ricerca di una nuova occupazione, ha l’onere di allegare le circostanze
specifiche riguardanti la situazione del mercato del lavoro in relazione alla
professionalità del danneggiato, da cui desumere, anche con ragionamento
presuntivo, l’utilizzabilità di tale professionalità per il conseguimento di
nuovi guadagni e la riduzione del danno (Cass. n. 17683 del 2018), dovendosi
escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una
circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva
del danno patito (Cass. n. 9616 del 2015 e n. 23226 del 2010).

7.1. Nel caso in esame, l’elemento che si assume
trascurato dalla Corte di appello sarebbe costituto dall’assenza di prova che,
secondo l’assunto di parte ricorrente, la lavoratrice avrebbe dovuto fornire di
essersi attivata nella ricerca di una nuova occupazione. Si assume che la
stessa non aveva neppure provato di essersi iscritta nelle liste del collocamento
dopo il licenziamento.

E’ evidente che il terzo motivo di ricorso muove da
un ribaltamento degli oneri probatori, contravvenendo ai principi espressi in
argomento dalla giurisprudenza di questa Corte.

8. In conclusione, il ricorso va rigettato, con
condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e
compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento
del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

9. Va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali (nella specie, il rigetto del ricorso) per il versamento, da parte
della società ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13
(v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna l’Impresa B. s.r.l. al
pagamento delle spese, che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro
5.000,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art.13 comma 1 -quater del d.P.R.
n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma l-bis, dello stesso articolo
13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 dicembre 2019, n. 31527
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