Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 dicembre 2019, n. 31843

Società in liquidazione, Provvedimenti di licenziamento,
Illegittimità, Reintegra, Risarcimento del danno, Tutela post-fallimentare
del proprio credito

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Messina, con sentenza n.
1299/2016, pronunciando sugli appelli proposti da D.G. e da T. s.r.l. in
liquidazione e sull’appello incidentale proposto dal Fallimento di T. s.r.l.
avverso la sentenza n. 2010/2015 del Giudice del lavoro del Tribunale di
Messina, dichiarava la nullità della sentenza stessa e, ritenuto che non si
verteva in un’ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., pronunciava nel merito della
domanda del G. e dichiarava l’illegittimità dei due provvedimenti di
licenziamento intimati in data 14.1.2010 e 24.4.2010; per l’effetto, ordinava
la reintegra del G. nel posto di lavoro e condannava il Fallimento T. e la T.
s.r.l. in liquidazione al pagamento dell’indennità di cui all’art. 18 stat. lav. (nel testo
anteriore alle modifiche apportate dalla legge n.
92 del 2012) in misura pari alla retribuzione globale di fatto dalla data
del licenziamento alla effettiva reintegra in servizio, oltre al versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali.

2. La Corte di appello premetteva:

– che il G. aveva proposto il gravame nel termine di
tre mesi dal momento in cui aveva avuto notizia dell’evento interruttivo
costituito dal fallimento, intervenuto nelle more del giudizio di primo grado
ma non notificato né informalmente comunicato, con la conseguenza che la
sentenza era stata emessa nei confronti della T. in liquidazione e tale pronuncia,
recante la declaratoria di illegittimità dei licenziamenti, l’ordine di
reintegra e la condanna al risarcimento, non era opponibile al Fallimento,
rimasto estraneo al giudizio di primo grado;

– che il Fallimento della T. s.r.l. si era
costituito proponendo, a sua volta, appello incidentale per ottenere una
declaratoria di nullità della sentenza di primo grado e chiedendo che, in caso
di pronuncia nel merito, fosse dichiarata la legittimità di entrambi i
licenziamenti;

– che anche la T. s.r.l. in liquidazione, in persona
del suo liquidatore, aveva proposto appello, rappresentando di avere interesse
a esercitare la propria difesa e chiedendo che alla declaratoria di nullità
della sentenza di primo grado conseguisse la rimessione al primo giudice ex art. 354 cod. proc. civ..

2.1. Tanto premesso, osservava:

– che il Fallimento della T., intervenuto nel corso
del giudizio di primo grado, aveva comportato, a norma dell’art. 43, comma 3, Legge
Fallimentare, come modificato dal d.lgs. 5 del
2006, e dell’art. 299 cod. proc. civ.,
l’interruzione automatica del processo con conseguente nullità di tutti gli
atti successivi a tale evento e della stessa sentenza impugnata.

– che, quanto agli effetti della declaratoria di
nullità, non poteva essere accolta la tesi della rimessione degli atti al primo
giudice ex art. 354 cod. proc. civ., in quanto
il contraddittorio in primo grado era stato correttamente instaurato, seppure
nella contumacia del convenuto, e la fattispecie non rientrava tra le ipotesi
di cui al citato art. 354 cod. proc. civ..;

– che, dunque, occorreva pronunciare nel merito
della domanda;

– che la mancata costituzione della T. s.r.l. nel
giudizio di primo grado a norma dell’art. 416 cod.
proc. civ. aveva precluso alla stessa di addurre mezzi istruttori, dovendo
le richieste in tal senso formulate con l’appello incidentale essere ritenute
tardive;

– che il primo licenziamento, intimato per
giustificato motivo oggettivo, era illegittimo per violazione dell’obbligo di
repechage, mentre il secondo, di natura disciplinare, non era stato preceduto
da alcuna preventiva contestazione, ex art. 7 stat. lav..

2.2. Dichiarava quindi l’illegittimità di entrambi i
licenziamenti; ordinava la reintegra del ricorrente e condannava “il
Fallimento T. s.r.l. in liquidazione e la T. s.r.l. in liquidazione” al
risarcimento del danno ex licenziamento alla effettiva riassunzione in
servizio, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

2.3. Osservava che non era stata riproposta in
appello la domanda, rigettata dal primo giudice, avente ad oggetto le
differenze retributive rivendicate per asserito svolgimento di mansioni
superiori e per lavoro straordinario.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso la T. s.r.l. in liquidazione sulla base di due motivi. Ha resistito con
controricorso D.G.. Il Fallimento di T., al quale il ricorso è stato
regolarmente notificato, è rimasto intimato.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo la società ricorrente
denuncia violazione dell’art.
43, comma 3, l.f., degli artt. 299, 303 e 354 cod. proc.
civ. e nullità del procedimento (art. 360,
primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) per avere errato la Corte di appello
che, dichiarata la nullità della sentenza, non aveva rimesso la causa al primo
giudice ex art. 354 cod. proc. civ..

Rappresenta che la ratio della riforma introdotta
dal d.lgs. n. 5 del 2006, il cui l’art. 43, comma 3, cit. detta
“l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”, è
quella di ascrivere la dichiarazione di fallimento fra le ipotesi di
interruzione automatica previste dall’art. 299 cod. proc. civ. anche nel caso
in cui la parte fallita sia contumace.

2. Con il secondo motivo, denunciando violazione e
falsa applicazione degli art.
42, comma 1 e 43, comma 1, art.
52, comma 2 e 93 l.f. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.), la
società si duole, in via subordinata, dell’erroneità della sentenza nella parte
in cui ha emesso due statuizioni di condanna sia nei confronti della Curatela,
sia nei confronti della T. in liquidazione.

3. Il primo motivo è infondato, mentre merita
accoglimento il secondo.

4. Quanto alla prima censura, osserva innanzitutto
il Collegio che la dichiarazione di fallimento ha, tra i suoi effetti, quello
di privare il fallito della legittimazione ad agire o resistere in giudizio.
Questo principio è sancito dal R.D.
16 marzo 1942, n. 267, art. 43, comma 1, ai sensi del quale “nelle
controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del
fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore”. La ragione per la
quale il fallito non può domandare in prima persona l’adempimento delle
obbligazioni di cui sia creditore, ne’ essere convenuto per l’adempimento di
quelle di cui sia debitore, risiede nel fatto che l’esito di questi giudizi
incide sul patrimonio del fallito, e quindi influisce sulla formazione
dell’attivo e sulla soddisfazione dei creditori ammessi al concorso.

4.1. La dichiarazione di fallimento, pur non
sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel
fallimento, comporta la perdita della capacità di stare in giudizio nelle
relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente
al curatore; a questa regola, enunciata dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 43,
fanno eccezione soltanto l’ipotesi in cui il fallito agisca per la tutela di
diritti strettamente personali e quella in cui, pur trattandosi di rapporti
patrimoniali, l’amministrazione fallimentare sia rimasta inerte, manifestando
indifferenza nei confronti del giudizio (cfr. ex plurimis, Cass., n. 7448 del
2012, n. 10146 del 1998). L’esigenza di evitare che le determinazioni personali
del fallito si sovrappongano alle deliberazioni di competenza
dell’amministrazione fallimentare è destinata a ripercuotersi anche sul regime
processuale del difetto di legittimazione, il quale è rilevabile anche
d’ufficio in presenza della predetta valutazione, mentre ordinariamente può
essere eccepito soltanto dal curatore (cfr. Cass.,
Sez. Un., 24 dicembre 2009, n. 27346; Cass.,
Sez. 5, 9 marzo 2011, n. 5571).

4.2. Anche recentemente questa Corte ha ribadito che
il fallito è privo della capacità di stare in giudizio nelle controversie
concernenti i rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, ad eccezione delle
ipotesi in cui egli agisca per la tutela di diritti strettamente personali o
l’amministrazione fallimentare sia rimasta inerte con riferimento ai suddetti
rapporti patrimoniali manifestando indifferenza nei confronti del processo
(Cass. n. 31313 del 2018 con cui è stato ritenuto inammissibile il ricorso per
cassazione del fallito). Pertanto, quando il curatore è in giudizio, il fallito
non può conservare per il medesimo rapporto la legittimazione processuale ad
impugnare ed il difetto di legittimazione processuale del fallito a impugnare
una sentenza è rilevabile, anche di ufficio, dal giudice dell’impugnazione (v.
pure Cass. 11117 del 2013, nel senso della
inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dal fallito avverso una
sentenza sfavorevole al fallimento, emessa in giudizio nei confronti del curatore
e da questo non impugnata).

4.3. Nel caso in esame, una volta proposto appello
incidentale da parte del Curatore del fallimento, la società fallita aveva
perso la legittimazione processuale c.d. suppletiva; ciò a prescindere dalla
sua mancata estromissione dal giudizio e a nulla rilevando il fatto che le
difese del fallimento nel giudizio potessero (in ipotesi) non essere conformi
alle valutazioni e agli interessi del fallito.

4.4. Tanto è sufficiente a far ritenere
inammissibile il primo motivo di ricorso, non potendo la società fallita
impugnare, in luogo del Curatore del Fallimento, in questa sede rimasto
intimato, il capo della sentenza con il quale il giudice di appello ebbe a
rigettare la richiesta di rimessione al primo giudice ex art. 354 cod. proc. civ. per difetto di integrità
del contraddittorio in primo grado a seguito dell’intervenuto fallimento della
società. Su tale capo si è difatti formato il giudicato interno, poiché non
impugnato dal solo soggetto legittimato a farlo, ossia dal Fallimento.

5. Venendo al secondo motivo, va premesso che con
tale mezzo di impugnazione è stato censurato il capo della sentenza di appello
recante la condanna pronunciata – anche e direttamente – nei confronti della T.
s.r.l., nonostante il suo status di società fallita, e che non possono avere
rilievo in questa sede eventuali successive vicende, intervenute nelle more
giudizio di legittimità, che possano avere interessato il Fallimento o la
società fallita.

6. La società in liquidazione, in quanto condannata
(anche) in proprio, è legittimata a proporre il ricorso per cassazione avverso
le statuizioni che la riguardano. Essa si duole che la Corte di appello abbia
emesso per lo stesso titolo due distinte condanne, l’una nei confronti della
Curatela del fallimento e l’altra nei confronti di essa ricorrente, società
“in liquidazione”, per il pagamento della indennità dovute al
lavoratore ex art. 18 Stat. lav., delle spese processuali e di ogni altra
conseguente statuizione, poiché soccombente nel giudizio di impugnativa dei
licenziamenti.

7. Come si è accennato in precedenza, se la
legittimazione del fallito è trasferita ope legis al curatore al fine di
salvaguardare gli interessi dei creditori, di tale trasferimento non vi sarà
bisogno per tutte quelle azioni insuscettibili di nuocere al ceto creditorio.

7.1. Questo principio viene espresso con la
tradizionale formula secondo cui la perdita di legittimazione processuale in
capo al fallito, per effetto della dichiarazione di fallimento, non è assoluta
ma relativa, e non comprende:

(a) dal punto di vista oggettivo, i diritti e le
azioni esclusi dal fallimento;

(b) dal punto di vista soggettivo, i diritti e le
azioni proposti da creditori che, in luogo di partecipare al concorso, abbiano scelto
di soddisfarsi sull’eventuale patrimonio che residuerà alla distribuzione
dell’attivo (c.d. tutela postfallimentare) (v. in tal senso, da ultimo Cass. n.
2608 del 2014, in motivazione). I principi appena esposti sono incontrastati
nella giurisprudenza di legittimità, e prevalenti in dottrina.

7.2. In applicazione di essi si è ammesso che il
creditore del fallito possa convenirlo in giudizio in proprio, chiedendo
espressamente una condanna da intendersi eseguibile solo nell’ipotesi in cui
questi dovesse ritornare in bonis (Cass. sent. cit. e le altre ivi citate). Ai
fini di una condanna della società in proprio, occorre che il creditore
dichiari espressamente di voler titolo, dopo la chiusura del fallimento, per
agire esecutivamente nei confronti del debitore ritornato in bonis (cfr. Cass.
n. 28481 del 2005, n. 17035 del 2011, n 10640
del 2012).

7.3. Dalla sentenza impugnata non risulta alcun
accertamento circa l’eventuale esercizio, da parte del G., della facoltà di optare
– nel senso or ora accennato – per la c.d. tutela post-fallimentare del proprio
credito.

8. Ai principi sopra esposti non si è dunque
attenuta la Corte di appello nell’emettere la sentenza di condanna nei
confronti della odierna ricorrente e per tale ragione la sentenza va cassata in
parte qua, relativamente alla statuizione che reca la condanna della società T.
s.r.l. in liquidazione.

9. Si designa quale giudice di rinvio, per il
riesame del merito alla stregua dei principi sopra riportati, la Corte di
appello di Catania, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di
legittimità.

 

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo; rigetta il primo. Cassa
la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le
spese, alla Corte di appello di Catania.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 dicembre 2019, n. 31843
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