Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 dicembre 2019, n. 32702

Lavoro subordinato a tempo indeterminato, Licenziamento,
Reintegra, Distinti rapporti di lavoro, Rapporto lavorativo solo formalmente
precario

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del
16.3.2018, respingeva il reclamo avverso la decisione del Tribunale della
stessa città, che aveva rigettato il ricorso in opposizione di M.M.D.I.L.,
confermando l’ordinanza emessa il 23.6.2017 a seguito della fase sommaria ex lege
92/2012. L’ordinanza aveva accertato la sussistenza tra le parti di un rapporto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 15.10.2013, dichiarando
illegittimo il licenziamento impugnato da P.A.E.M. ed aveva condannato la
società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, nonché al pagamento di
un’indennità risarcitoria dalla data del licenziamento fino alla reintegra.

2. La Corte milanese osservava che dai dati
documentali acquisiti risultavano due distinti rapporti di lavoro tra le parti,
il primo dei quali, avente inizio dal 14 ottobre 2013, era ricondotto dalle
parti ad un contratto di lavoro accessorio ed il secondo, intervenuto alla
scadenza del primo, con inizio dal 20.12.2013, a contratto di apprendistato
professionalizzante della durata di 36 mesi, con allegato piano formativo
individuale.

3. Premesso che il primo dei contratti costituiva
uno strumento finalizzato a regolarizzare attività lavorative non riconducibili
a tipologie contrattuali tipiche del lavoro subordinato, autonomo o ad attività
professionali, ma a mere prestazioni di lavoro alle quali assicurare le tutele
minime previdenziali ed assicurative, allo scopo di contrastare forme di lavoro
irregolare, la Corte osservava che nella specie il lavoratore era stato sempre
inserito nei turni di lavoro predisposti dalla società ed assegnato ai diversi
reparti del negozio di Assago, al pari di colleghi stabilmente assunti.

4. Aggiungeva che vi era stata per tutta la durata
dei successivi e consecutivi rapporti una soggezione ad orari indicati dalla
società ed alle direttive impartite dalla stessa in persona dei suoi
responsabili, per cui non era rinvenibile una ragione effettiva per distinguere
tra due diverse tipologie contrattuali, non essendo scontato che il lavoratore
avesse avuto nemmeno per il successivo rapporto di apprendistato una reale
formazione.

5. Rilevava che la prova orale orientava nel senso
di ritenere che si era fatto ricorso ad una utilizzazione da parte della
società di due forme contrattuali al fine di coprire mansioni relativamente
semplici nell’ambito di un unico e prolungato rapporto precario, secondo uno
schema del tutto favorevole alla società.

6. Evidenziava che il limite quantitativo fissato
dall’art. 70 d. Igs. 276/2003
(quello di € 2000,00) riferito ai compensi percepiti per prestazioni accessorie
in favore di un singolo committente nel corso dell’anno solare dovesse essere
interpretato come compenso lordo e non netto, e che, poiché il valore del
voucher era pari a 10,00 €, i 2000,000 € di compenso massimo corrispondevano a
200 vouchers e quindi a 200 ore che il lavoratore poteva prestare nei confronti
del singolo committente nel corso di un anno solare.

7. Avendo il lavoratore prestato
incontrovertibilmente 231 ore di lavoro accessorio, per un reddito imponibile
di € 2310,00, il limite era stato nella specie superato, con la conseguente
trasformazione del rapporto di lavoro accessorio in rapporto di lavoro
subordinato.

8. La Corte riteneva che, sulla base di invalsa consuetudine
espressiva, per compenso doveva intendersi la retribuzione per il lavoro
eseguito e che, dal confronto tra i due commi dell’art. 72 (uno riferito al
compenso, l’altro alle spettanze corrisposte dal datore), il compenso doveva
essere inteso come valore nominale del voucher, ossia quale somma lorda
rappresentata dallo stesso, in quanto, a giudicare diversamente, il limite di
liceità per il ricorso al lavoro accessorio sarebbe stato di 2666,66 ore.

9. La disposizione, per la sua finalità antielusiva,
doveva essere interpretata in modo semplice, ossia in modo conforme alla
consuetudine anche lessicale seguita, e non come somma di danaro concretamente
riscossa dal lavoratore pari al 75% del valore nominale del voucher.

10. Di tale decisione domanda la cassazione la
società, affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso,
il lavoratore.

11. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai
sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, la società ricorrente
denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 70 e 72 del d. Igs. 276/2003, per
avere la sentenza impugnata riconosciuto la sussistenza di un rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato fra essa società ed A.E.M. ritenendo
le modalità delle prestazioni svolte durante il rapporto di lavoro accessorio
rivelatrici di tale natura, in tal modo ponendosi in violazione della
disciplina sul lavoro accessorio, in quanto la valutazione dei requisiti di
legittimità era assorbita dai parametri numerici previsti dalla disciplina in
esame, non indicando il legislatore ulteriori condizioni per ricorrere a detta
forma di lavoro flessibile.

1.1. In particolare, sostiene che non vi era il
vincolo erroneamente indicato dalla Corte territoriale, secondo cui il lavoro
accessorio non poteva essere legittimamente utilizzato per prestazioni dal
contenuto estremamente semplice e svolte con le modalità del lavoro
subordinato, potendo lo stesso essere eseguito per qualsiasi tipo di
prestazione lavorativa. Aggiunge che deponevano in tale senso giurisprudenza di
merito, orientamenti dottrinari e prassi interpretative del Ministero del
Lavoro e dell’INPS, che avevano confermato la rilevanza a fini qualificatori
unicamente del rispetto del requisito di carattere economico di 5000,00 e
2000,00 euro, non essendo consentito entrare nel merito delle modalità di
svolgimento della prestazione, con ciò vanificandosi le finalità stesse
dell’istituto.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione degli artt. 70 e 72 del D. LGS. 276/2003, in
relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere
la sentenza impugnata ritenuto che il limite massimo di € 2000,000 per i
compensi percepiti da parte di un singolo committente nell’anno solare per
prestazioni di lavoro accessorio dovesse essere riferito al valore nominale dei
buoni o vouchers pari a € 10,00 e non al compenso percepito dal lavoratore pari
ad € 7,50, adducendo che vi era stata un’interpretazione contra legem, per
essere del tutto pacifico che, per calcolare i limiti dei compensi percepiti
nell’ambito di prestazioni di lavoro accessorio, ci si dovesse riferire alle
somme “nette” percepite dal lavoratore e non, invece, al valore
nominale riportato nei vouchers con cui la prestazione era stata retribuita.

2.1 Anche per tale motivo la società ha riguardo a
giurisprudenza di merito, circolari interpretative INPS, vademecum sulla
Riforma Fornero pubblicato dal Ministero del Lavoro del 22.4.2013, indicate
come di valore, se non vincolante, sicuramente decisivo per ricostruire
l’intenzione del legislatore. Assume che questi deporrebbero per la coincidenza
dei termini compenso e spettanze, entrambi riferiti alla somma in concreto
percepita dal lavoratore per il lavoro accessorio, e quindi per un importo di €
7,50 all’ora, esente da qualsiasi imposizione fiscale, al netto di
contribuzione a favore della Gestione separata INPS, di quella in favore
dell’INAIL per l’assicurazione sugli infortuni e del compenso per il
concessionario (INPS) per la gestione del servizio, per un totale del 25% del
valore nominale del voucher.

3. Al di là dei rilievi della ricorrente sulla
natura e finalità della normativa contenente la disciplina dei rapporti di
lavoro accessorio, la motivazione della Corte è più complessa e si fonda non
solo sulle argomentazioni sottoposte a censura, ma anche sulla rilevata
mancanza di ogni ragione effettiva per fare ricorso alle due diverse tipologie
contrattuali utilizzate in relazione ad un indistinto e prolungato rapporto
lavorativo solo formalmente precario ed in tal guisa del tutto favorevole alla
società, senza alcuna giustificazione del mutamento di titolo, in mancanza
anche di una reale formazione per il successivo rapporto qualificato come
apprendistato, e sulla avvenuta utilizzazione, da parte della società, di due
forme contrattuali al fine di coprire mansioni relativamente semplici, rimaste
invariate nel corso dell’intero periodo lavorativo. Peraltro, ulteriore indice
di utilizzazione di uno schema contrattuale non corrispondente alla reale
essenza del rapporto era rinvenuto nell’esiguità del periodo di durata del
rapporto di lavoro accessorio, con utilizzo di un numero di vouchers
consistente in arco temporale ridotto.

4. Tali considerazioni consentono di escludere la
idoneità del primo motivo a scalfire la ratio decidendi che sorregge la
decisione impugnata, che, per quanto detto, si articola su un piano diverso e
più ampio, teso a valorizzare la reale consistenza della natura dell’unico
rapporto, desunta, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, non da
un’indagine del carattere della prestazione resa con riferimento al solo lavoro
qualificato come accessorio, ma dalla sostanziale uniformità della prestazione
lavorativa anche nel successivo periodo destinato alla formazione, rivelatrice
dell’adozione di uno schema formale divaricato rispetto alla sostanza del
rapporto, connotato da elementi propri della subordinazione in relazione
all’unitaria ricostruzione dello stesso.

3. Rispetto a tale ratio decidendi le ulteriori
argomentazioni rese dalla Corte territoriale, laddove affrontano la diversa
questione, quanto al lavoro accessorio, del superamento dei limiti economici
attraverso l’esame del senso da attribuirsi all’espressione
“compenso” ed a quella “spettanze”, configurano un’
autonoma ratio decidendi, ulteriore rispetto alla prima, che già in modo autonomo
sorregge la decisione.

4. Ciò consente di richiamare il principio in più
pronunzie affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale, nel
caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo
di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a
sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non
solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche
che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di
tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di
impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in
toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una
o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle
dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata
impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso
il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo
inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni
poste a base della sentenza o del capo impugnato (cfr., in tal senso, Cass. sez. lav., 18.5.2006 n. 11660; Cass.
8.8.2005 n. 16602; Cass. 8.2.2006 n. 2811; Cass. 22.2.2006 n. 3881; Cass.
20.4.2006 n. 9233; Cass. 8.5.2007 n. 10374; Cass. sez. I 14.6.2007 n. 13906,
conf. a Cass., sez. un. 16602/2005).

5. Nella specie, in applicazione dell’enunciato
principio, la reiezione del primo motivo per le ragioni indicate conduce alla
declaratoria di inammissibilità del secondo motivo per difetto di interesse.

6. Le spese del presente giudizio di legittimità
seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.

7. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del
2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il primo motivo e dichiara inammissibile il
secondo. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio
di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 5000,00 per compensi
professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese
forfetarie in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1
quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato
D.P.R., ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 dicembre 2019, n. 32702
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