Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 dicembre 2019, n. 32982

Demansionamento, Risarcimento del danno da mobbing,
Violazione degli obblighi di tutela della professionalità, della salute e della
personalità morale dei lavoratori

Rilevato che

 

1. la Corte d’appello di Milano, con sentenza n.
1299 pubblicata il 17.1.2017, in parziale accoglimento dell’appello di V. P. e
in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato T. s.p.a. al
risarcimento del danno da demansionamento liquidato in misura pari al 10% per
ogni anno dell’ultima retribuzione globale di fatto, a decorrere dal 2009 nei
limiti della prescrizione decennale, oltre accessori di legge; ha confermato la
decisione del Tribunale di rigetto della domanda di risarcimento del danno da
mobbing;

2. la Corte territoriale ha ritenuto provato il
demansionamento sul rilievo che il V., dopo la dichiarazione di inidoneità a
svolgere le mansioni di macchinista, non avesse mai svolto mansioni
impiegatizie, proprie del suo livello di inquadramento, come ammesso dalla
stessa società datoriale;

3. ha accertato l’esistenza di un danno non
patrimoniale da demansionamento, in via presuntiva sulla base dei seguenti
elementi: “la durata del demansionamento protrattosi per ben 13 anni (dal
1997 fino al 2010, anno del deposito del ricorso di primo grado), il tipo di
professionalità specifica colpita (macchinista di treni), la conoscibilità
all’interno e all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione,
la circostanza che durante la protratta inattività l’appellante non ha
partecipato a iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento
professionale, il tutto con conseguenti e indiscutibili effetti negativi sia
dal punto di vista occupazionale che relazionale”;

4. ha confermato la statuizione di primo grado di
rigetto della domanda di risarcimento del danno da mobbing mancando
“deduzioni ed elementi idonei a supportare la sussistenza della voce di
danno di cui si chiede il ristoro”;

5. avverso tale sentenza il V. ha proposto ricorso per
cassazione, affidato a due motivi, cui ha resistito Trenitalia s.p.a. con
controricorso e ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo;

6. Trenitalia s.p.a. ha depositato memoria, ai sensi
dell’art. 380.bis.1 c.p.c.;

 

Considerato che

 

7. col primo motivo di ricorso il V. ha censurato la
sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt.
115 e 116 c.p.c., in riferimento agli artt. 2697 e 2103 c.c.
e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360,
comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.;

8. ha sostenuto come il demansionamento costituisse
un illecito permanente e come, di conseguenza, dovesse farsi decorrere la
prescrizione dalla cessazione della permanenza;

9. ha denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione, per non aver la Corte
d’appello fornito idonea e sufficiente motivazione sulla natura dei danni e
sulla loro sussistenza, tenendo conto della intenzionalità, consapevolezza,
reiterazione e sistematicità delle condotte finalizzate all’isolamento e
all’emarginazione del lavoratore;

10. col secondo motivo il ricorrente ha dedotto
violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., nonché omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 5 c.p.c., per la mancata ammissione dei mezzi di prova,
articolati anche in appello, ai fini dell’accertamento del mobbing e del
risarcimento dei relativi danni, per motivazione omessa e contraddittoria;

11. con l’unico motivo di ricorso incidentale,
Trenitalia s.p.a. ha censurato la sentenza d’appello per violazione e falsa
applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2103, 2697 c.c.,
in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.;

12. ha affermato come il ricorso introduttivo di
primo grado non contenesse alcuna allegazione in ordine agli specifici pregiudizi
derivati dal dedotto demansionamento, su cui fondare il meccanismo di prova
presuntiva;

13. ha criticato la sentenza d’appello per aver
desunto il danno da demansionamento senza la precisa individuazione dei fatti
idonei e rilevanti a tal fine e per aver omesso di motivare su come i fattori
individuati avessero potuto generare un danno professionale nel caso specifico;

14. i motivi di ricorso principale presentano
plurimi profili di inammissibilità;

15. la censura di violazione di legge contenuta nel
primo motivo è inammissibile poiché non indica in che modo e in quale atto
processuale la questione del carattere permanente dell’illecito datoriale fosse
stata sollevata, e non trascrive le parti salienti degli atti del processo;

16. come più volte precisato da questa Corte,
qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi
sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di
evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo
di allegare l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di
indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia stato fatto,
onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la
veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della questione
(Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del
2018);

17. la seconda censura oggetto del primo motivo di
ricorso principale è inammissibile in quanto non si conforma allo schema legale
del nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.,
applicabile ratione temporis;

18. al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del
2014, hanno precisato che l’art. 360 n. 5 c.p.c.,
come riformulato a seguito dei recenti interventi, “introduce
nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo
all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire
che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”;
con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente
deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato,
testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando
tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua
decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra,
di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto
storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal
giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie”;

19. nel caso di specie, la censura investe nella
sostanza la mancata ammissione di mezzi di prova, peraltro neanche trascritti
nel ricorso in esame, e non l’omesso esame di un fatto storico come richiesto
ai fini del nuovo vizio motivazionale;

20. neppure è configurabile un vizio di carenza
assoluta di motivazione tale da integrare la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., ravvisabile, secondo le
richiamate pronunce delle Sezioni Unite, solo in caso di “anomalia
motivazionale” che “esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi
sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del
semplice difetto di “sufficienzaa” della motivazione”; nel caso di specie
la motivazione esiste e dà adeguatamente conto del percorso logico giuridico
seguito per la decisione;

21. le censure di violazione degli artt. 115, 116 c.p.c.e 2697 c.c.,
oltre che inammissibili in quanto formulate in modo non conforme ai criteri di
specificità (cfr. Cass. n. 287 del 2016; n. 23847 del 2017), sono infondate;

22. come più volte precisato da questa Corte (cfr.
Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), le
violazioni suddette presuppongono il mancato rispetto delle regole di
formazione della prova e sono rinvenibili nelle ipotesi in cui il giudice
utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115
c.p.c.) o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato
dall’art. 116 c.p.c., cioè una prova legale
secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile
come prova legale, oppure inverta gli oneri probatori (art. 2697 c.c.); nessuna di queste situazioni è
rappresentata nel motivo di ricorso in esame ove è unicamente dedotto che il
giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, censura
consentita solo ai sensi dell’art. 360, primo comma,
n. 5, c.p.c., nei ristretti limiti sopra riportati;

23. il ricorso incidentale appare, anzitutto,
inammissibile, in quanto denuncia la mancata allegazione nel ricorso
introduttivo di primo grado degli elementi necessari a fondare la prova
presuntiva del danno non patrimoniale, e tuttavia non trascrive il ricorso del
lavoratore nelle parti a tal fine rilevanti;

24. la censura di violazione di legge è, comunque,
infondata;

25. questa Corte (cfr. Cass.,
S.U. 6572 del 2006; Cass., S.U., n. 26972 del
2008), data la peculiarità del rapporto di lavoro cui ineriscono gli
obblighi posti dagli artt. 2103 e 2087 c.c., ha qualificato come inadempimento
contrattuale la violazione degli obblighi di tutela della professionalità,
della salute e della personalità morale dei lavoratori, ed ha precisato (cfr.
anche Cass. 25743 del 2018; n. 1327 del 2015; n.
19785 del 2010) come dall’inadempimento datoriale non derivi
automaticamente l’esistenza del danno, non potendosi quest’ultimo ravvisare
immancabilmente a causa della potenzialità lesiva dell’alto illegittimo. E’
stata quindi più volte ribadita la distinzione tra “inadempimento” e
“danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di cui
agli artt. 1218 e 1223
c.c., cioè tra il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 c.c.
e quello della produzione del pregiudizio, nei differenti aspetti che lo stesso
può assumere. Ciò proprio in ragione del fatto che dall’inadempimento datoriale
possono derivare, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il
lavoratore (danno professionale in senso patrimoniale, nonché danno biologico,
danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno
non patrimoniale), che possono anche coesistere l’una con l’altra, con
conseguente necessità di specifica allegazione e prova da parte di chi assume
di essere stato danneggiato;

26. è costante l’affermazione per cui la prova del
danno da demansionamento e dequalificazione professionale può essere data dal
lavoratore anche ai sensi dell’art. 2729 c.c.,
attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti,
potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività
lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la
durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta
dopo la prospettata dequalificazione (Cass. n.
25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n.
29832 del 2008);

27. deve, tuttavia, rilevarsi come l’onere del
lavoratore di specifica allegazione dei fatti che il giudice può valutare al
fine di ritenere integrata la prova presuntiva, nella specie del danno non
patrimoniale, risulti necessariamente alleggerito laddove, a causa
dell’inadempimento datoriale, il dipendente sia stato lasciato in condizione di
totale inattività, senza attribuzione di mansioni e assegnazione di compiti;
specie ove tale condizione di inattività, in assoluto contrasto con l’art. 2103 c.c., si sia protratta, come nel caso in
esame, per molto tempo;

28. inoltre, risponde ai canoni di legittimità della
prova presuntiva, come ampiamente delineati nella giurisprudenza di legittimità
cfr. Cass. n. 6899 del 2004; n. 12802 del 2006;
n. 16993 del 2007), desumere l’esistenza del danno non patrimoniale dal fatto
noto e accertato del demansionamento ove quest’ultimo sia consistito nel
lasciare nella totale inattività il dipendente divenuto inidoneo alle mansioni,
senza coinvolgerlo in programmi di formazione e riqualificazione professionale,
senza adibirlo a mansioni anche inferiori, senza metterlo in qualche modo in
condizione di poter esercitare il proprio diritto-dovere di lavoratore;
difatti, il danno sofferto dal lavoratore | costituisce, in ipotesi di totale
inattività, specie ove protratta per un lungo periodo, conseguenza
ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità;

29. al riguardo, si è rilevato come (Cass. n. 7963 del 2012) il comportamento del
datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo
viola l’art. 2103 cod. civ., ma è al tempo
stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo
di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine
e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal
mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza;
tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza,
qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di
manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e
tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque)
rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali
del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via
equitativa. A tal fine, il giudice deve tenere conto dell’insieme dei pregiudizi
sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio
l’autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo, provvedere all’integrale
riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso
ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto,
pur nell’ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e
soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle
particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, (cfr. anche Cass. n. 8709 del 2016; n. 9901 del 2018);

30. la sentenza impugnata non si è discostata dai
principi di diritto enunciati da questa Corte, e che qui si ribadiscono, e si
sottrae pertanto alle censure di violazione di legge come articolate;

31. per le considerazioni svolte, il ricorso
incidentale deve essere respinto;

32. in ragione della reciproca soccombenza, si
compensano le spese del giudizio di legittimità;

33. ricorrono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30
maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24
dicembre 2012 n. 228.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso principale;
rigetta il ricorso incidentale.

Compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30
maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24
dicembre 2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso principale ed incidentale, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 dicembre 2019, n. 32982
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: