Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 dicembre 2019, n. 34124

Licenziamento,Giustificato motivo oggettivo, Nullità,
Reintegrazione nel posto, Indennità risarcitoria, Onere probatorio,
Sussistenza del motivo discriminatorio, ritorsivo e punitivo, Violazione
dell’obbligo di repechage

Fatti di causa

 

1. Con sentenza del 10 dicembre 2016 il Tribunale di
Isernia, in funzione di giudice del lavoro, dopo aver disposto il mutamento dal
rito speciale di cui alla legge n. 92 del 2012
in quello ordinario del lavoro, respingeva il ricorso di M. F. diretto alla
declaratoria dell’inefficacia, della nullità e dell’illegittimità, anche in
relazione alla sussistenza del motivo discriminatorio, ritorsivo e punitivo,
del licenziamento intimatogli con lettera del 30 settembre 2011 dalla società
A. A. A. (Italy) s.r.l. (A A A) per giustificato motivo oggettivo, e alla
conseguente reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del
1970.

2. Contro la predetta sentenza M. F. proponeva
impugnazione dinanzi alla Corte di appello di Campobasso, che, con sentenza
pubblicata il 3 gennaio 2018, accoglieva l’appello e, per l’effetto, dichiarava
nullo il licenziamento intimato al lavoratore e ordinava alla società datrice
di lavoro di reintegrare il F. nel posto di lavoro occupato all’epoca del
licenziamento, condannandola a corrispondere al medesimo lavoratore
un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto
maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva
reintegrazione, oltre accessori e contributi previdenziali e assistenziali. La
società datrice di lavoro veniva anche condannata al pagamento delle spese di
lite del doppio grado di giudizio.

3. Per quanto qui interessa la Corte di appello
molisana riteneva in primo luogo che la società datrice di lavoro non aveva
assolto l’onere, ad essa spettante, di provare le condizioni che permettono il
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, compresa l’impossibilità di
adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima
svolgeva o in posti di lavoro confacenti alle mansioni da esso svolte. In
secondo luogo la Corte territoriale riteneva raggiunta la prova della natura
ritorsiva del licenziamento intimato a M. F., che era quindi da assimilare ad
un licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 4 della legge n. 604 del 1966,
dell’art. 15 della legge n.
300 del 1970 e dell’art. 3
della legge n. 108 del 1990.

4. Avverso la sentenza della Corte di appello di
Campobasso la società A. A. A. (Italy) s.r.l. propone ricorso per cassazione
affidato a quattro motivi. M. F. resiste con controricorso assistito da
memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il ricorso è da accogliere in relazione al quarto
motivo e da rigettare per il resto.

2. Con il primo motivo la società ricorrente
denuncia la violazione e la falsa applicazione degli art. 3 e 5 della l. n. 604 del
1966 e dell’art. 2103 cod.civ. ai sensi
dell’art. 360 n. 3 cod.proc. civ. per avere la
sentenza impugnata accertato l’illegittimità del licenziamento intimato al
controricorrente per violazione dell’obbligo di repechage.

3. Con il secondo motivo la AAA si duole della
violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 604 del 1966 e
dell’art. 115 cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. per
avere la Corte territoriale ritenuto illegittimo il licenziamento del F. alla
luce della mancata produzione documentale dei contratti di lavoro e dei
report/documenti/registri di accesso/permanenza al bunker-ciclotrone;
produzione invece allegata agli atti di causa fin dal primo grado di giudizio.

4. Il primo e il secondo motivo, che censurano la
sentenza impugnata relativamente all’accertamento dell’illegittimità del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sono connessi tra di loro
perché riguardano entrambi gli obblighi in tema di repechage e possono dunque
essere esaminati congiuntamente.

5. La Corte territoriale ha impostato la questione
nei seguenti termini:

l’allegazione da parte del lavoratore della natura
ritorsiva del licenziamento non libera il datore di lavoro dall’onere di
provare, ai sensi dell’art. 5
l. n. 604 del 1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato
motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita
incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo;

sul primo punto la Corte di appello è giunta alla
conclusione che la datrice di lavoro non aveva addotto e provato tutto quanto
ad essa incombeva in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
osservando che spetta al datore di lavoro dimostrare da una parte la necessità
di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo
lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale a un
incremento del profitto, ma deve essere rivolta a fronteggiare situazioni
sfavorevoli non contingenti e, d’altra parte, l’impossibilità del repêchage, –
inoltre, con riguardo alle assunzioni di nuovo personale successivamente al
licenziamento, è necessario che il datore di lavoro, sul quale grava il
relativo onere probatorio, indichi (e dimostri) le assunzioni effettuate, il
relativo periodo, le qualifiche e le mansioni affidate ai nuovi assunti e le
ragioni per le quali tali mansioni non siano da ritenere equivalenti a quelle
svolte dal lavoratore licenziato, tenuto conto della professionalità raggiunta
dal lavoratore medesimo (Cass. n. 902 del 2014);

– la Corte di appello si concentra sul mancato
repêchage, essendo mancata la prova dell’impossibilità di ricollocare il
dipendente, prova gravante sul datore di lavoro, senza che alcun vincolo di
collaborazione possa essere posto in capo al lavoratore. Viene richiamata Cass. n. 20436 del 2016, che sottolinea come il
lavoratore non abbia modo di conoscere il quadro complessivo della realtà
aziendale e potrebbe avere delle comprensibili difficoltà derivanti dal fatto
che la propria conoscenza della realtà aziendale e sovente parziale e limitata
all’attività svolta e a quelle complementari.

6. Senza censurare direttamente l’affermazione in
diritto della sentenza impugnata secondo la quale grava sulla parte datoriale
l’onere della prova dell’impossibilità di ricollocare il dipendente la
ricorrente, premesso che sarebbe onere del lavoratore fornire elementi atti ad
individuare all’interno della compagine aziendale posti di lavoro liberi
compatibili con il suo bagaglio professionale, fa valere con il primo motivo
che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe considerato che le mansioni del
F. sarebbero state assunte da altri collaboratori della ricorrente, cioè O. H.
e il dottor V.. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta l’erroneità della
stessa sentenza laddove essa attribuisce ad omissioni documentali della società
datrice di lavoro, omissioni in tesi non esistenti, la prova dell’illegittimità
del licenziamento.

7. Il primo motivo, prospettato come denunzia di una
violazione di legge, si concentra sulla genuinità della soppressione del posto
già occupato dal lavoratore controricorrente, ed è in quanto tale
inammissibile, perché la principale ragione del decidere della sentenza
impugnata su questo punto è un’altra, cioè essere mancata la prova da parte
dell’azienda del rispetto dell’obbligo di repechage, ragione del decidere per
la quale non viene formulata specifica critica quanto alla dedotta violazione
di norme giuridiche. In quanto si voglia leggere nella doglianza una critica
implicita al principio di diritto applicato dalla sentenza impugnata sul punto
del riparto dell’onere probatorio in materia di assolvimento dell’obbligo di
repêchage, è sufficiente affermare che la giurisprudenza di questa Corte alla
quale la Corte territoriale si è richiamata, giurisprudenza che pone tale onere
a carico del datore di lavoro, è oramai consolidata (v., da ultimo, ex multis, Cass. n. 23789 del 2019) ed è condivisa da questo
Collegio. Secondo questa giurisprudenza, ai fini all’adempimento dell’obbligo
di repechage, la dimostrazione del fatto negativo costituito dall’impossibile
ricollocamento del lavoratore può essere data dal datore di lavoro con la prova
di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali
possa desumersi quel fatto negativo. La Corte territoriale ha accertato che
tale dimostrazione è mancata, e ne ha tratto le conseguenze.

8. Il secondo motivo non è esente da una certa
ambiguità, perché, pur denunciando violazione e falsa applicazione di legge,
esso è presentato ai sensi dell’art. 360, comma 1,
n. 5 cod.proc.civ. Il motivo in effetti solleva una questione di fatto,
censurando la sentenza impugnata per aver attribuito a presunte omissioni di
produzioni documentali, in realtà inesistenti secondo la ricorrente, peso
probatorio nell’accertare il mancato rispetto da parte dell’azienda
dell’obbligo di repechage. Così interpretata la doglianza, essa è
inammissibile, perché, come condivisibilmente osserva il controricorrente,
vengono esposte una serie di circostanze fattuali senza alcuna specificazione
di quale di esse sia decisiva e delle ragioni di tale decisività ai fini del
giudizio espresso dalla Corte territoriale, secondo la nuova versione dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., applicabile
ratione temporis.

9. Il primo e secondo motivo sono quindi
complessivamente da rigettare.

10. Con il terzo motivo la AAA denuncia la
violazione e falsa applicazione degli art. 1345
cod.civ., 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ., per
avere la sentenza impugnata ritenuto il licenziamento del lavoratore
controricorrente di natura ritorsiva pur in presenza di un valido motivo
oggettivo quale quello della soppressione del posto di lavoro di ciclotronista,
cui lo stesso era addetto.

11. Con questa doglianza la ricorrente torna sulla
questione della genuinità della soppressione del posto del F.. Secondo la AAA
solo la dimostrazione dell’insussistenza del motivo addotto come ragione del
licenziamento, cioè la soppressione del posto di lavoro, avrebbe potuto
costituire la base di un’indagine diretta alla ricostruzione di un’eventuale
natura ritorsiva del recesso. La sentenza impugnata sarebbe anche in contrasto
con il principio secondo il quale solo l’unicità del motivo illecito qualifica
il licenziamento ritorsivo. In altre parole, l’intento di rappresaglia deve
possedere efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro
(Cass. n. 17329 del 2012).

12. In effetti la sentenza impugnata non ha
accertato, come invece prospetta la società ricorrente, la genuinità della
soppressione del posto di lavoro del F., ma si è concentrata sulla violazione
dell’obbligo di repêchage, in un’ottica di economia processuale, lasciando
quindi impregiudicata la questione.

13. In ogni caso, la Corte territoriale si diffonde
sulle ragioni per le quali il motivo ritorsivo addotto dal lavoratore
sussisteva ed era anche esclusivo, cioè l’unico che aveva determinato il
recesso. La Corte molisana ricostruisce la vicenda con riferimento agli scontri
tra il lavoratore e i suoi superiori e a varie circostanze di fatto, come il
procedimento disciplinare iniziato e poi di fatto abbandonato dall’azienda
prima di procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

14. Nessun errore di diritto della sentenza
impugnata viene individuato da questa doglianza, che quindi si deve ritenere
infondata.

15. Con il quarto e ultimo motivo la società
ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma 4, cod.proc.civ. in relazione all’art. 112 cod.proc.civ. per omessa pronuncia
sull’eccezione dell’aliunde perceptum perché la Corte di appello di Campobasso
non avrebbe tenuto in nessun conto l’eccezione sull’applicazione dell’aliunde
perceptum pur in presenza di specifica allegazione da parte del lavoratore in
ordine ai contratti di lavoro e alle retribuzioni percepite presso altri datori
di lavoro successivamente al suo licenziamento dalla AAA.

16. Come detto, questa doglianza è fondata e il
motivo di ricorso deve essere accolto.

17. In base a consolidati e condivisi orientamenti
di questa Corte i principi applicabili in materia possono essere ricostruiti
come segue (Cass. n. 23430 del 2017):

a) l’eccezione con la quale il datore di lavoro
deduca che il dipendente illegittimamente estromesso dall’azienda ha percepito
un altro reddito per effetto di una nuova occupazione (aliunde perceptum)
ovvero deduca la colpevole astensione del lavoratore da comportamenti idonei ad
evitare l’aggravamento del danno (aliunde perceptum) non fa valere alcun
diritto sostanziale di impugnazione, né l’eccezione stessa è identificabile
come oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in
favore della parte, sicché, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei
fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per
effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne
d’ufficio – anche nel silenzio della parte interessata ed anche se
l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte – tutte
le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno
lamentato dal dipendente (vedi, per tutte: Cass.
S.U. n. 1099 del 1998 e successiva giurisprudenza conforme);

b) tuttavia, ai fini della sottrazione dell’aliunde
perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore, è necessario che risulti la
prova, il cui onere grava sul datore di lavoro, non solo del fatto che il
lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma
anche di quanto percepito, essendo questo il fatto che riduce l’entità del
danno presunto e non potendo il datore di lavoro limitarsi a richiedere al
giudice l’ordine di esibizione documentale nei confronti del lavoratore per
verificarne eventuali diversi redditi percepiti, in quanto allegazione e
richiesta di prova non possono essere avanzate in via meramente esplorativa (Cass. n. 2499 del 2017; Cass. n. 21919 del 2010;
Cass. n. 11795 del 2012; Cass. n. 5676 del 2012;
Cass. n. 6668 del 2004);

c) la suddetta prova può essere fornita anche con
l’ausilio di presunzioni semplici, ma ne è onerato il datore di lavoro, a nulla
rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del
dipendente estromesso dall’azienda in quanto deve escludersi che il lavoratore
abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale una nuova
assunzione, riduttiva del danno patito (vedi, per tutte: Cass. n. 9616 del 2015; Cass. n. 23226 del 2010);

d) peraltro, l’eccezione del cosiddetto aliunde
perceptum non integra un’eccezione in senso stretto e, pertanto, è rilevabile
dal giudice anche in assenza di un’eccezione di parte in tal senso, ovvero in
presenza di un’eccezione intempestiva, purché la rioccupazione del lavoratore
costituisca allegazione in fatto ritualmente acquisita al processo, anche se
per iniziativa del lavoratore e non del datore di lavoro (fra le tante: Cass.
n. 9464 del 2009; Cass. n. 18093 del 2013;

e) inoltre ad essa si applica la regola generale
secondo cui il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non solo non è
subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ma è
ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti
risultino documentati ex actis, in quanto il regime delle eccezioni si pone in
funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della
decisione, valore che resterebbe obliterato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio
fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le
eccezioni in senso stretto (Cass. S.U. n. 10531 del 2013; Cass. S.U. n. 15661
del 2005);

f) ne consegue che può tenersi conto dell’aliunde
perceptum – ove si configuri come fatto sopravvenuto – anche per la prima volta
nel giudizio di rinvio se soltanto in occasione del suo svolgimento sia stato
possibile rilevare una tale circostanza di fatto ed essa sia stata dedotta nel
primo atto difensivo utile dalla conoscenza del fatto stesso, dovendo il datore
di lavoro fornire la prova del momento di acquisizione della notizia (vedi:
Cass. n. 26828 del 2013; Cass. n. 20500 del 2008; Cass. n. 5893 del 1999);

g) in ogni caso, trattandosi di eccezione in senso
lato, nel rito del lavoro è nella facoltà del giudice, nell’esercizio dei suoi
poteri d’ufficio ex art. 421 cod. proc. civ.
ammettere la prova indispensabile per decidere la causa sul punto, con
riferimento ai fatti ritualmente allegati dalle parti ed emersi nel processo a
seguito del contraddittorio (Cass. n. 26289 del 2013; Cass. 23 maggio 2017, n.
12907 del 2017).

18. Nel presente giudizio la società ricorrente ha
ritualmente dedotto l’avvenuto svolgimento da parte dell’attuale controricorrente
di attività lavorativa, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e
presso l’Istituto Internazionale d’istruzione Giovanni Paolo II di Roma, nel
periodo preso in considerazione dalla sentenza impugnata. Tale attività
lavorativa è indicata negli atti difensivi della ricorrente, puntualmente
citati e trascritti in ricorso nelle parti pertinenti.

19. Nel controricorso non si nega tale circostanza,
ma si sostiene che non vi è stata la proposizione di alcuna formale eccezione
di aliunde perceptum. Tuttavia, come si è detto, una simile formalizzazione non
è necessaria e il giudice se, come nella specie, risultino in actis fatti
rilevanti sul punto – e ritenga che essi siano stati ritualmente allegati e
provati in conformità con i suindicati principi affermati dalla giurisprudenza
di questa Corte – può trame d’ufficio – anche nel silenzio della parte
interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento
della controparte – tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione
del danno lamentato dal dipendente, potendo far seguire all’eventuale rilievo
officioso la concessione, su istanza di parte, di un termine per controdedurre,
secondo le esigenze anche istruttorie che il rilievo officioso fa insorgere.

20. Nella sentenza attualmente impugnata non viene
affatto menzionata la suddetta circostanza dell’avvenuto svolgimento
dell’attività lavorativa da parte del F.,

e, quindi, non risultano esaminate la questione
della sua rituale allegazione e prova nonché quella del mancato esercizio dei
poteri d’ufficio ex art. 421 cod. proc. civ.,
sicché neppure sono prese in considerazione le eventuali conseguenze di tale
problematica sulla quantificazione del danno da risarcire all’interessato.

21. Ricorre dunque il denunziato vizio di omessa
pronuncia.

22. Segue alle svolte considerazioni il rigetto dei
primi tre motivi di ricorso. La sentenza impugnata deve essere cassata, in
relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del presente
giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Napoli, che si atterrà,
nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su
affermati.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i primi tre motivi di ricorso, accoglie il
quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia
alla Corte di appello di Napoli anche in ordine alle spese del giudizio di
legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 dicembre 2019, n. 34124
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