Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 dicembre 2019, n. 34132

Guardia giurata, Licenziamento per sopravvenuta inidoneità
fisica, Violazione dell’obbligo di repechage, Postazioni compatibili con lo
stato di salute, Onere della prova

 

Fatti di causa

 

1. Con ricorso ai sensi della l. n. 92 del 2012 L.F. adiva il Tribunale di Nola
impugnando il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica intimatogli in
data 4.2.2016 dalla società V.S.P. s.r.l., alle cui dipendenze aveva lavorato
in qualità di guardia giurata dal mese di agosto 2004. Il Tribunale accoglieva
il ricorso a conclusione della fase sommaria.

L’opposizione della società veniva rigettata con
sentenza pubblicata il 20.12.2017, con la quale il Tribunale confermava
l’illegittimità del recesso datoriale per violazione dell’obbligo di repechage.

2. Avverso la detta sentenza, la società datrice di
lavoro proponeva reclamo dinanzi alla Corte di appello di Napoli. Il lavoratore
si costituiva per resistere all’impugnazione.

3. Con sentenza pubblicata il 4.5.2018 la Corte di
appello di Napoli rigettava il reclamo, confermava la sentenza impugnata e
condannava la società reclamante al pagamento delle spese del grado.

4. la Corte non accoglieva la tesi della società reclamante,
secondo la quale essa aveva dato piena prova dell’impossibilità di repechage
del F. nella propria organizzazione aziendale attraverso la produzione
dell’organigramma aziendale dal quale risultava che tutte le postazioni di
lavoro presso i vari clienti dell’Istituto di vigilanza erano stabilmente
occupate, ossia che non vi erano postazioni vacanti in cui ricollocare il
dipendente. Secondo la Corte di appello, considerata la perfetta omogeneità e
fungibilità delle mansioni svolte dai vari dipendenti della società, vi sarebbe
stata la possibilità, da parte della società, di adibire il ricorrente a
“postazioni compatibili con il suo stato di salute senza alcuna alterazione
dell’assetto aziendale stabilito dalla stessa”. Osservando che il lavoratore non
era stato considerato assolutamente inidoneo alle mansioni di pertinenza di
guardia giurata, ma presentava solo delle limitazioni, e poiché la sua
posizione di lavoro non era stata soppressa, “nulla impediva all’azienda di
reperire all’interno della sua organizzazione delle postazioni di lavoro
compatibili con il nuovo stato di salute, magari spostando qualche dipendente
da una posizione lavorativa all’altra, attesa la piena fungibilità cd
omogeneità delle mansioni, ovvero facendo turnare il reclamato con altri
dipendenti impegnati solo in turni diurni e in postazioni più congrue con il
suo stato di salute” Non si sarebbe trattato, secondo la Corte territoriale, di
modificare l’assetto organizzativo dell’azienda, ossia di creare una posizione
lavorativa ad hoc per il F., ma di individuare tra le posizioni esistenti
quella compatibile con le sue condizioni di lavoro facendolo lavorare solo nel
turno diurno ed in postazioni non richiedenti prolungate posizioni in piedi e
non presso le banche dove più alto è il rischio di rapine.

5. Avverso la sentenza della Corte territoriale la
società V.S.P. s.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a un unico
complesso motivo illustrato da memoria. L.F. resiste con controricorso.
L’Ufficio del Procuratore Generale ha depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto, come
in appresso precisato.

2. Con l’unico motivo la società ricorrente si duole
della violazione o falsa applicazione degli art. 3 e 5 della legge n. 604 del
1966 nonché dell’art. 1463 cod.civ., in
relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.
La V.S.P. lamenta l’erroneità in diritto della sentenza impugnata, che ha
considerato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per
insussistenza del giustificato motivo oggettivo invocato dall’impresa. In
particolare, si sostiene che, nel quadro dell’obbligo di repêchage a carico del
datore di lavoro, il principio di diritto applicabile è quello secondo cui
spetta al datore di lavoro di provare l’inesistenza di posizioni lavorative
libere e compatibili con lo stato di salute residuale del lavoratore. Non
spetta invece al datore di lavoro dare la prova dell’inesistenza di
“prestazioni” lavorative nell’ambito dell’impresa compatibili con le residue
capacità lavorative, come è stato affermato dalla Corte territoriale.

3. Secondo la ricorrente la sentenza impugnata
porrebbe erroneamente a carico del datore di lavoro un onere probatorio
relativamente a un fatto per il quale, secondo la legge, non è previsto il
sindacato del giudice, cioè la modifica dell’organizzazione aziendale per mano
giudiziaria. Si sostiene nel ricorso che il principio applicabile in materia di
repêchage è quello per cui il diritto del lavoratore licenziando ad essere
collocato in altra posizione aziendale sussiste per le mansioni equipollenti e,
pure, con il suo consenso, mansioni inferiori, ma solo ove tali mansioni
risultino scoperte nell’organigramma. La ricorrente insiste sul principio
secondo cui non incombe sul datore di lavoro l’obbligo di mantenere il
lavoratore in servizio attribuendogli mansioni compatibili con le residue –
ovviamente inferiori – capacità lavorative, quando ciò comporti una
modificazione dell’assetto organizzativo dell’impresa. La ricorrente pone poi
in rilievo che, come osservato anche dalla sentenza impugnata, il lavoratore
non ha contestato l’organigramma aziendale riportato in ricorso, documento dal quale
non si ravvisava alcuna posizione “vacante” su cui poterlo ricollocare.

4. La fattispecie in esame si colloca, ratione
temporis, nell’ambito di applicazione dell’art. 3, comma 3 bis del d.lgs. n. 216
del 2003 come integrato dal d.l. n. 76 del
2013 (convertito con modificazioni in legge n.
99 del 2013), disposizione tesa a recepire l’art. 5 della direttiva n.
78/2000/CE DEL 27.11.2000 in materia di “accomodamenti ragionevoli” per
garantire il principio del rispetto della parità di trattamento dei disabili
sul luogo di lavoro.

5. L’art.
3, comma 3 bis, citato è stato preso in considerazione dalla giurisprudenza
di questa Corte, in particolare con le sentenze n.
6798 e n. 27243 del 2018.

6. Con la prima la Corte ha affermato che, in tema
di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante
da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a
carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi
ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, obbligo
che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte ratione temporis
all’applicazione dell’art. 3, comma
3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva
2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme
agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

7. Con la seconda, si è statuito che, sempre in tema
di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante
da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a
carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei
luoghi di lavoro – purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle
dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa e nel rispetto delle condizioni
di lavoro dei colleghi dell’invalido – ai fini della legittimità del recesso,
in applicazione dell’art. 3, comma 3
bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva
2000/78/CE, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e
conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

8. Quest’ultima sentenza ha ricostruito come segue
il quadro normativo. L’art.
5 della Direttiva stabilisce che: “Per garantire il rispetto del
principio della parità di trattamento dei disabili, sono previsti accomodamenti
ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti
appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per
consentire alle persone con disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o
di aver una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che
tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere
finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché
l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della
politica dello Stato membro a favore delle persone con disabilità”.

9. L’art.
3, comma 3-bis recita: “Al fine di garantire il rispetto del principio
della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro
pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come
definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con
disabilità, del 13 dicembre 2006, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro,
per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri
lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del
presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le
risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
La citata Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 (art. 2) considera quale
accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed
appropriati che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo, ove ve ne
sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità
il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i
diritti umani e delle libertà fondamentali”.

10. La suddetta disposizione è stata introdotta a
seguito della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (causa
C-312/11, Commissione contro Repubblica Italiana) che ha condannato lo Stato
italiano per inadempimento all’obbligo di recepire, in maniera integrale, la
direttiva citata. In particolare, i giudici di Lussemburgo hanno respinto la
tesi prospettata dalla difesa del Governo italiano secondo cui l’applicazione
dell’art. 5 della Direttiva
non poteva basarsi su un’unica modalità, fondata sugli obblighi imposti ai
datori di lavoro, ma doveva avvenire anche mediante la predisposizione di un
sistema pubblico – privato atto ad affiancare il datore e le persone con
disabilità (un sistema di promozione dell’inclusione che sarebbe già in parte
previsto dalla legge n. 68 del 1999, dalla legge n. 104 del 1992, dal T.U. n. 81 del 2008 e dalla normativa su
cooperative e imprese sociali). Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione
europea per trasporre correttamente l’art. 5 della Direttiva,
letto alla luce dei considerando 20 e 21, non è sufficiente disporre misure
pubbliche di incentivo e sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a
tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e
pratici, in funzione delle esigenze concrete, a favore di tutte le persone con
disabilità, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle
condizioni di lavoro e che consentano ad essi di accedere ad un lavoro, di
svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. In
particolare, il considerando 21 del Preambolo della Direttiva citata prevede
che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri
finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi
finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle
risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di
ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”. La Corte di Giustizia, in
conformità dell’art. 2, comma 4, della Convenzione dell’ONU, ha definito gli
“accomodamenti ragionevoli” come “le modifiche e gli adattamenti
necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo,
adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle
persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con
gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (CGUE, 4
luglio 2013, Commissione c. Italia, punto 58).

In tale decisione la Corte, dopo aver esaminato la
legislazione italiana vigente in materia di protezione dei disabili (in specie,
la legge n. 104 del 1992, la legge n. 381 del 1991, la legge n. 68 del 1999, il d.lgs. n. 81 del 2008), ha sottolineato che, dal
testo dell’articolo 5 della
Direttiva 78/2000, letto in combinato disposto con i considerando 20 e 21,
risulta che gli Stati membri devono stabilire nella loro legislazione un
obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè
provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le
attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle
esigenze delle situazioni concrete, riducendo l’orario di lavoro, per consentire
ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o
di ricevere una formazione, con il solo limite di imporre al datore di lavoro
un onere sproporzionato.

11. Successivamente, la Corte di Giustizia europea è
intervenuta con riguardo alla normativa danese (sentenza 11 aprile 2013, cause C-335/11 e C-337/11) in ordine alla compatibilità
dell’ambiente lavorativo con le funzionalità del disabile e ha rilevato che l’art. 5 della Direttiva 78/2000
deve essere interpretato nel senso che la riduzione dell’orario di lavoro può
costituire uno dei provvedimenti di adattamento di cui a tale articolo,
competendo al giudice nazionale valutare se la riduzione dell’orario di lavoro
rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.

12. L’Ufficio del Procuratore Generale presso questa
Corte ha chiesto il rigetto del ricorso. Sia nella memoria sia nel suo
intervento orale, il Pubblico Ministero ha osservato che, pur essendo mancata
ogni indagine da parte della sentenza impugnata in ordine alla disciplina di
cui al citato art. 3, comma 3 bis,
la soluzione della Corte distrettuale doveva ritenersi in linea con tale
disciplina, quale essa deve intendersi una volta convenientemente interpretata.

13. A questo proposito il Pubblico Ministero ha
sottoposto a vaglio critico la giurisprudenza di questa Corte in tema di
“accomodamenti ragionevoli”, in particolare le citate sentenze n. 6798 del 2018 e n. 27243 del 2018.

14. Ad avviso del Pubblico Ministero questa
giurisprudenza, letta nel senso che gli obblighi del datore di lavoro sarebbero
comunque da ricostruire nell’ambito di una sostanziale intangibilità
dell’organizzazione del lavoro impressa dall’imprenditore, che la necessità di
rispettare il mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa andrebbe
intesa nel senso di escludere misure implicanti oneri di spesa e che resterebbe
rigidamente fermo il diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle
mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza
e la professionalità acquisita, affermazioni queste che non terrebbero conto
del diverso presupposto normativo che oggi arricchisce la tutela delle persone
disabili di nuovi, più penetranti mezzi di tutela, sposerebbe
un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice della novella, che viceversa
negherebbe l’assolutezza del divieto, affidando al giudice la verifica di volta
in volta dell’adempimento dell’obbligo (ovvero l’inesistenza o impraticabilità
di idonei “accomodamenti”) o invece la sua violazione (come si ricava dalle
decisioni n. 6798 del 2018, citata, e n. 13649 del 2019).

15. Non ritiene il Collegio che la precedente
giurisprudenza di questa Corte sugli “accomodamenti ragionevoli” debba essere
letta nel senso assolutamente restrittivo inteso dal Pubblico Ministero.

16. In ogni caso il motivo di ricorso, nel lamentare
che la soluzione assunta dalla sentenza impugnata imporrebbe la modifica
dell’organizzazione aziendale per mano giudiziaria, contrariamente ai principi
costantemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte (p.es., Cass. n. 8419 del 2018), mette a nudo la carenza
della decisione della Corte distrettuale, che non ha svolto alcuna indagine sui
limiti nei quali il citato art. 3, comma 3 bis in relazione alle misure di
accomodamento divisate dalla stessa decisione, impone di incidere sulla vita
dell’azienda, nel raggiungimento del delicato punto di equilibrio – richiesto
dalla corretta applicazione della norma come interpretata dalla giurisprudenza
di questa Corte – tra il diritto del disabile a non essere discriminato, quello
dell’imprenditore ad organizzare l’azienda secondo le proprie insindacabili
scelte e quello degli altri lavoratori. Ciò che ridonda sulle norme invocate in
ricorso.

17. Tale indagine va svolta alla stregua dei
parametri individuati dalla citata norma, che fa rinvio all’art. 2, pure
citato, della Convenzione di New York del 2006, che, come si è detto, considera
quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed
appropriati che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo [corsivo
aggiunto], ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle
persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con
gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (art.
2).

18. Ciò che è mancata nell’analisi della sentenza
impugnata è la valutazione della proporzionalità e della non eccessività delle
misure di adattamento in essa indicate sia rispetto all’organizzazione
aziendale sia con riguardo agli altri lavoratori. A tale valutazione dovrà
provvedere il giudice di rinvio.

19. La sentenza impugnata va pertanto cassata, con
rinvio alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà
ai principi già indicati e provvederà anche sulle spese del giudizio di
legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e
rinvia alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le
spese.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 dicembre 2019, n. 34132
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