Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 dicembre 2019, n. 34727

Tributi, Accertamento intermediazione abusiva di manodopera,
Ritenute d’acconto sulle retribuzioni erogate ai dipendenti, Integrale
versamento delle ritenute da parte del soggetto interposto, Assenza di
interesse ad agire dell’Agenzia delle Entrate, Illegittimità dell’atto nei
confronti del committente, interponente

 

Rilevato che

 

1. L’Agenzia delle Entrate emetteva quattro avvisi
di accertamento nei confronti della R. Ohg, oltre ad un atto di contestazione
di sanzioni, per l’anno 2006, per Iva, Irap ed omesso versamento di ritenute
alla fonte sui compensi corrisposti ai lavoratori, ed un avviso di accertamento
nei confronti dei tre soci R. H., K. L. e R. T., per Irpef ed addizionali. In
particolare, l’Agenzia sosteneva che tra la R. Ohg (committente) e la G.B.
Costruzioni s.r.l. (appaltatrice) si fosse, in realtà, realizzata una
intermediazione abusiva di manodopera , in violazione del d.lgs. 276/2003, in quanto la seconda società era
priva di organizzazione, non aveva in servizio idoneo personale per la
direzione dei lavoratori e non era gravata da rischio di impresa, in quanto il
personale era diretto, in realtà, dalla committente (interponente). Pertanto,
si contestava alla contribuente l’indebita deduzione, ai fini Ires ed Iva, dei
relativi costi, in quanto “derivanti da reato” (intermediazione
abusiva di manodopera) ai sensi dell’art. 14, comma 4 bis, della legge
537/1993, oltre all’omesso versamento di ritenute alla fonte su redditi da
lavoro dipendente, trattandosi di prestazioni rese da lavoratori qualificabili
a tutti gli effetti quali dipendenti della ditta appaltante, e non della
appaltatrice.

2. La Commissione tributaria di primo grado di
Bolzano, pronunciando sui cinque ricorsi riuniti, tenuto conto della normativa
sopravvenuta di cui all’art. 8
d.l. 16/2012, dichiarava cessata la materia del contendere nei confronti
dei soci, in relazione all’Irpef ed alle addizionali. Inoltre, accoglieva
parzialmente i ricorsi riuniti, ritenendo legittime le pretese ai fini Iva ed
Irap, riconoscendo la sussistenza di una intermediazione abusiva di manodopera,
ma rilevava che l’omesso versamento di ritenute doveva essere determinato nella
differenza tra quelle accertate a carico della contribuente e l’importo già
versato a titolo di ritenute dalla G.B. s.r.I., in virtù del divieto di doppia
imposizione di cui all’art. 67 d.p.r.
600/1973.

3. La Commissione tributaria di II grado di Bolzano
rigettava l’appello principale della contribuente ed accoglieva l’appello
incidentale proposto dalla Agenzia delle entrate. In particolare, il giudice di
appello evidenziava che tra le parti era stata realizzata una abusiva
intermediazione di manodopera, come risultava dalla carenza di attrezzature e
di professionalità atte al coordinamento ed alla direzione dei cantieri, in capo
alla appaltatrice G.B. s.r.l. Inoltre, i corrispettivi erano erogati dalla
contribuente in relazione alle ore di lavoro effettivamente svolte e non in
base agli stati di avanzamento dei lavori, con conseguente mancata assunzione
del rischio di impresa in capo alla G.B.. I costi non potevano essere dedotti
ai sensi dell’art. 14, comma 4
bis, della legge 537/1993, in quanto attinenti ad attività qualificabili
come reati. L’iva assolta sulle fatture emesse dalla G.B. non poteva essere
portata in detrazione trattandosi di operazioni soggettivamente inesistenti.
L’obbligo di versare le ritenute d’acconto spettava alla contribuente, quale
effettivo datore di lavoro.

4. Avverso tale sentenza propongono ricorso per
cassazione la società ed i soci.

5. L’Agenzia delle entrate restava intimata.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di impugnazione la società ed
i soci deducono “violazione e/o falsa applicazione art. 42, comma 1, d.p.r. 600/1973;
violazione e/o falsa applicazione art.
56 d.p.r. 633/1972; violazione e/o falsa applicazione art. 7 legge 212/2000; violazione
art. 21 octies comma 1, legge
241/1990: tutti in relazione all’art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto il dott. I.D., capo area imprese
grandi e medie dimensioni, che ha sottoscritto l’avviso di accertamento
impugnato, nonché l’atto di contestazione delle sanzioni, non era dotato dei
poteri di sottoscrizione, essendo solo incaricato di funzioni dirigenziali, ma
non essendo dirigente, come richiesto dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 37/2015, che ha dichiarato illegittimo il d.l. 16/2012, sicchè tale nomina deve ritenersi
nulla in via retroattiva.

1.1.Tale motivo è inammissibile perchè nuovo.

Invero, la doglianza di cui primo motivo di
impugnazione, relativa alla mancanza, in capo dal Capo Area, della qualifica di
dirigente per poter sottoscrivere gli avvisi di accertamento e gli atti di
contestazione delle sanzioni, è stata sollevata per la prima volta in sede di
legittimità, sicchè è inammissibile perchè nuova.

2. Con il secondo motivo di impugnazione i
ricorrenti lamentano la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 167 della direttiva n. 2006/112;
violazione degli articoli 19 e 21 del d.p.r. 633/1972; violazione
dell’art. 2697 c.c.: tutti in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto il
giudice di appello ha trascurato di applicare il principio giurisprudenziale
per cui, in presenza di fatture emesse per operazioni soggettivamente
inesistenti, per poter disconoscere il diritto alla detrazione Iva da parte del
soggetto cessionario occorre che l’Amministrazione fornisca la prova che il
meccanismo fraudolento era conosciuto dal contribuente o, comunque, era da
questo conoscibile secondo l’ordinaria diligenza.

3. Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti
deducono “violazione e/o falsa applicazione art.
1655 c.c.; violazione e/o falsa applicazione artt. 18, 29 e 84 d.lgs. 10-9-2003, n. 276;
violazione art. 2729 c.c.: tutti in relazione
all’art. 360, comma 1, n. 3 del c.p.c.”,
in quanto la distinzione tra appalto genuino di cui all’art. 1655 c.c. e somministrazione vietata di
manodopera si individua dalla presenza dei seguenti requisiti (per la
sussistenza dell’appalto genuino):organizzazione dei mezzi necessari da parte
dell’appaltatore, con la precisazione, però, che l’organizzazione
dell’appaltatore può anche essere minima, con prevalenza dell’apporto di
personale specializzato da parte dell’appaltatore; l’esercizio del potere
organizzativo e direttivo nei confronti dei lavori utilizzati, da parte
dell’appaltatore; l’assunzione da parte dell’appaltatore del rischio di
impresa. Mancando tali requisiti si è in presenza di una somministrazione
vietata di manodopera, sicchè i lavoratori sono considerati alle dirette
dipendenze dell’imprenditore appaltante. Nella specie, l’Ufficio del lavoro non
ha emesso alcun atto di contestazione ed il giudice penale ha disposizione
l’archiviazione del procedimento instaurato nei confronti del legale
rappresentante della società contribuente. Inoltre, la carenza di attrezzature
in capo alla appaltatrice G.B. era irrilevante, potendo sussistere un contratto
di appalto anche nel caso in cui l’appaltatore non ha propri mezzi ma,
comunque, esercita il potere direttivo ed organizzativo. Nella specie,
trattavasi di mere prestazioni di muratura e carpenteria, con necessità quindi
solo di un piccolo apporto di materiale. Inoltre, la G.B. aveva un proprio
direttore tecnico dei lavori, individuato in A. S.. Sono state depositate anche
apposite dichiarazioni di terzo. La G.B., poi, provvedeva alla concessione
delle ferie ai lavoratori, agli aumenti retributivi ed alla ripartizione delle
ore di lavoro.

4. Con il quarto motivo di impugnazione i ricorrenti
si dolgono della “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14, comma 4 bis, legge
24-12-1993, n. 537; violazione e/o falsa applicazione art. 8, comma 3, d.l. 2-3-2012, n.
16: tutti in relazione all’art. 360, comma 1,
n. 3 c.p.c.”, in quanto il giudice di appello non ha tenuto conto
dell’art. 8 del d.l. 16/2012
che, con portata retroattiva, non ammette la deduzione dei costi soltanto nel
caso in cui i costi e le spese dei beni siano direttamente utilizzati per il
compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il
quale il pubblico ministero abbia esercitato

4.1. I motivi secondo, terzo e quarto, che vanno
esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

4.1. Anzitutto, si rileva che la sentenza di appello
è stata depositata il 19-1- 2015 e che l’appello è stato depositato l’1-8-2013,
sicchè, da un lato trova applicazione il vizio di censura della motivazione di
cui all’art. 360 comma 1 n.  5 c.p.c., come modificato dal d.l. 83/2012, in vigore per le sentenze
pubblicate a decorrere dall’11-9-2012, e dall’altro, che sussiste il divieto di
impugnare la decisione di appello per vizio di motivazione, in presenza di
“doppia conforme” di cui all’art. 348
ter c.p.c., applicabile agli appelli depositati a decorrere dall’11-9-2012.

Pertanto, i motivi di ricorso sono inammissibili,
nella parte in cui chiedono una rivalutazione di tutti gli elementi di fatto,
già compiuta dai giudici di primo e secondo grado, non più censurabile in
questa sede, soprattutto in presenza di una doppia decisione nel merito
conforme alla tesi sostenuta dalla Agenzia delle entrate, in relazione alla
sussistenza di un illegittimo appalto di manodopera.

4.2. Ai sensi dell’art. 1, commi 1 e 2, della legge
1369/1960 ” è vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in
subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative,
l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera
assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la
natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono è altresì
vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti,
terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da
prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari”.

Al comma 3 si prevede che “è considerato
appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche
per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali,
macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso
venga corrisposto un compenso al appaltante”.

Il comma 5 dispone che “i prestatori di lavoro,
occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono
considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che
effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”.

4.3. La normativa è stata profondamente modificata
dal d.Ig.s. 276 del 2003 che, da un lato
consente e disciplina l’appalto di manodopera, ma, dall’altro, stabilisce le
ipotesi in cui tale tipologia di appalto è illegittima, prevedendone le
conseguenze, che, comunque, non prevedono più la costituzione del rapporto ex
lege in capo alla committente, con effetto retroattivo, come stabiliva il comma
5 dell’art. 1 della legge 1369
del 1960.

L’ art. 20 del d.lgs. 267 del 2003 (ndr: art. 20 del d.lgs. 276 del 2003)
(condizioni di liceità), infatti, prevede che “il contratto di
somministrazione di lavoro può essere concluso da ogni soggetto, di seguito
denominato utilizzatore, che si rivolga ad altro soggetto, di seguito
denominato somministratore, a ciò autorizzato ai sensi delle disposizioni di
cui agli articoli 4 e 5”.
Al comma 2 si chiarisce che “per tutta la durata della missione i
lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto la
direzione e il controllo dell’utilizzatore”.

L’art. 21 del d.lgs. 267/2002 (ndr: art. 20 del d.lgs. 276 del 2003)
disciplina la forma del contratto di somministrazione, per cui ” il
contratto di somministrazione di manodopera è stipulato in forma scritta e
contiene i seguenti elementi:

a) gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al
somministratore;

b) il numero dei lavoratori da somministrare;

c) i casi e le ragioni di carattere tecnico,
produttivo organizzativo o sostitutivo di cui al comma 3 dell’articolo 20 (lettera modificata
con dl. 34/2014);

d) l’indicazione della presenza di eventuali rischi
per l’integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione
adottate;

e) La data di inizio e la durata prevista del
contratto di somministrazione”.

Ai sensi dell’art. 21 comma 4 “in mancanza
di forma scritta, con indicazione

degli elementi di cui alle lettere a), b), c), d) ed
e) del comma 1, il contratto di somministrazione è nullo e i lavoratori sono
considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”
(articolo abrogato dall’art. 55
comma 1, lettera d, del d.lgs. 15-6-2015, n. 81).

Ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. 267/2003, (ndr:
art. 27 del d.lgs. 276/2003)
poi, all’epoca vigente, “quando la somministrazione di lavoro avvenga al
di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21, comma 1,
lettere a), b), c), d) ed e), il lavoratore può chiedere, mediante ricorso
giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di
procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha
utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle
dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della
somministrazione”.

Al comma 2 si stabilisce che “nelle ipotesi di
cui al comma 1 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo
retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto
che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente
fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti
dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il
periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come
compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”.

L’art. 29 comma 1 d.Ig.s 267/2003 (ndr: art. 29 comma 1 d.lgs. 276/2003)
(appalto), prevede che “ai fini dell’applicazione delle norme contenute
nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai
sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si
distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi
necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle
esigenze dell’opera o del servizio dedotte in contratto, dall’esercizio del
potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati
nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, il
rischio d’impresa”. Al comma 2 si dispone che “in caso di appalto di
opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato
in solido con l’appaltatore…. a corrispondere ai lavoratori i trattamenti
retributivi.., nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti
in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto… .il
committente che ha eseguito il pagamento è tenuto, ove previsto, ad assolvere gli
obblighi del sostituto d’imposta…”

Il comma 3 bis dell’art. 29, però, prevede che
“quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto
disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso
giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di
procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha
utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze
di quest’ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell’articolo 27, comma
2”.

4.4.Per questa Corte, ai sensi dell’art. 1 comma 5 della legge 1369
del 1960, secondo cui i lavoratori sono considerati alle dipendenze
dell’appaltatore che ha utilizzato effettivamente la forza lavoro e le relative
prestazioni, solo sull’appaltante (o interponente) gravano tutti gli obblighi,
anche fiscali, scaturenti dal rapporto di lavoro; sicché, quanto all’Iva, non è
certo configurabile un’operazione resa al committente avente ad oggetto le
prestazioni lavorative dei “propri” dipendenti. Inoltre, quanto
all’Irap, ed alla deducibilità dei relativi costi, vi è nullità del titolo
giuridico dal quale scaturiscono i costi dedotti dal relativo imponibile (Cass., 5 ottobre 2018, n. 24457; Cass., 2 agosto
2017, n. 19206; Cass. 26 luglio 2017, n. 18476;
da ultimo Cass., 7 dicembre 2018, n. 31720).

4.5. Con la nuova normativa di cui al d.lgs. 276/2003 resta il divieto di
intermediazione di manodopera, ove irregolare, in armonia con i principi
costituzionali volti a collegare al rapporto di lavoro subordinato, e soltanto
ad esso, una serie di posizioni di vantaggio (Cass., sez.un., 26 ottobre 2006,
n. 11910).

In caso di “appalto non genuino”, quindi,
ai sensi dell’art. 29 comma 3 bis
del d.lgs. 276/2003, si consente ai lavoratori di chiedere, in via
giudiziale, ai sensi dell’art. 414 c.p.c., la
“costituzione” di un rapporto di lavoro alle dipendenze del datore di
lavoro “effettivo”, ossia dell’interponente. Non vi è più, quindi,
l’assunzione ex lege del lavoratore presso il datore di lavoro effettivo ai
sensi dell’art. 1 comma 5 della
legge 1369 del 1960.

La previsione di cui all’art. 29 comma 3 bis d.lgs. 276/2003
comporta, comunque, la “nullità” del contratto stipulato tra
committente ed appaltatore, con conseguente nullità anche del contratto tra
lavoratore e somministratore, incidendo, in tal modo, anche ai fini dell’Iva e
dell’Irap (Cass., 28 luglio 2017, n. 18808;
Cass., 17 gennaio 2018, n. 938; Cass., 27 luglio 2018, n. 19966; Cass., 12
novembre 2018, n. 28953; di recente Cass., 7 dicembre 2018, n. 31720).

Diviene, quindi, irrilevante la richiesta del
lavoratore, ai sensi dell’art. 414 c.p.c., di
“costituire” il rapporto di lavoro alle dipendente del committente
interponente, ossia del datore di lavoro “effettivo”, quello dunque
che ha beneficiato della prestazione.

4.6. Questa Corte ha, quindi, superato il precedente
indirizzo interpretativo, secondo cui , poiché l’art. 29 comma 3 bis d.lgs. 276/2003
non prevede l’assunzione ex lege del lavoratore in capo all’imprenditore
committente interponente, la fatturazione emessa dall’appaltatore, in assenza
della domanda giudiziale del lavoratore, di “costituire” il rapporto
di lavoro con l’appaltante, è sufficiente a legittimare la detrazione dell’Iva
relativa. Per questo indirizzo, non condivisibile, anche i costi fatturati per
imposte dirette ed Irap sarebbero deducibili. Per questa tesi, dunque, la
posizione del committente-interponente e dell’impresa appaltatrice,
resterebbero distinte, in quanto , senza la richiesta del lavoratore ai sensi
dell’art. 414 c.p.c., non si costituisce il
rapporto di lavoro con l’appaltante.

4.7. Tuttavia, tale ultimo indirizzo è stata
superato da questa Corte, la quale ha ritenuto che il ricorso del lavoratore,
ai sensi dell’art. 414 c.p.c., teso a
costituire il rapporto di lavoro con l’impresa interponente, “mira a
ottenere la conversione nel contratto di lavoro con chi si è giovato delle sue
prestazioni”.

Tale “conversione” “postula la
nullità dei contratti” che ne sono oggetto, ed in particolare quello tra
interponente ed interposto, che può essere fatta valere fa chi ne abbia
interesse, quindi, anche dal fisco , nonché rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 1421 c.c. (Cass.,
7 dicembre 2018, n. 31720), con nullità “derivata” anche per il
contratto tra lavoratore e somministratore (Cass., 12 novembre 2018, n. 28953; Cass., 18808/2017).

Tra l’altro, benchè il legislatore utilizzi la
dizione di “costituzione” del rapporto con l’interponente, che può
essere chiesta dal lavoratore, ai sensi dell’art.
414 c.p.c., potendosi, dunque, ipotizzare un “annullamento” del
contratto già stipulato con l’appaltatore, tuttavia trattasi di
“nullità” del contratto, tanto che l’azione del lavoratore può essere
promossa con ricorso “anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la
prestazione” (Cass., 1 agosto 2014, n. 17540).

Del resto, l’azione di accertamento del fisco, tesa
al rilievo della nullità dei contratti, sia quello tra
l’appaltante-interponente e l’appaltatore, sia tra il lavoratore ed il somministratore-appaltatore,
stipulati in violazione dell’art.
29 comma 3 bis d.lgs. 276 del 2003, non può dipendere dalla scelta,
individuabile ed imponderabile, del lavoratore di promuovere o meno l’azione
per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’interponente.
Non è configurabile, allora, stante la nullità dei contratti, un rapporto di
appalto tra la committente e l’interposta, con impossibilità di detrarre l’Iva
da parte della società contribuente. Il diritto di detrazione scaturisce,
invece, dalla effettiva realizzazione della prestazione di servizi; sicchè
mancando tale effettiva prestazione, non sorge il diritto alla detrazione (Corte giust. 27 giugno 2018, cause C-459-460/17,
SGI e Valeriane snc, punto 35).

Il contratto tra interponente e interposto è nullo,
non solo per difetto di forma scritta ai sensi dell’art. 21 comma 4 d.lgs. 276/2003
(“in mancanza di forma scritta, il contratto di somministrazione è nullo e
i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze
dell’utilizzatore”), ma anche se mancano gli altri elementi di cui all’art. 21 comma 1 lettera a), b),
c), d) ed e), prescritti anch’essi ad substantiam, per genericità della causale
del contratto di somministrazione (Cass., sez. L,
1 agosto 2014, n. 17540, per la quale ” se non si vertesse in ipoteso
di nullità non avrebbe senso il consentire al 
lavoratore l’azione per ottenere la costituzione del rapporto, ab
origine, alle dipendenze dell’utilizzatore).

4.8. In relazione alla detrazione Iva, dunque, è
corretta la soluzione adottata dal giudice di appello che ha ritenuto che
“anche l’Iva assolta sulle fatture emesse dalla G. srl non può essere
portata in detrazione trattandosi di operazioni soggettivamente
inesistenti”.

4.9. Infatti, la motivazione della sentenza del
giudice di appello, che ha riconosciuto sussistere una ipotesi di appalto
“non genuino”, valorizzando la carenza di attrezzature, di
professionalità atte al coordinamento ed alla direzione dei lavori dei cantieri
in capo alla G. s.r.I., oltre alle modalità di pagamento correlate alle ore di
lavoro svolto, invece che agli stati di avanzamento lavori, non può essere
aggredita per il vizio di motivazione, in presenza di doppia conforme decisione
nel merito, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c..
I ricorrenti non possono censurare tale decisione neppure come violazione di
legge ai sensi degli artt. 360 n. 3 c.p.c. e 2729 c.c., in quanto, nel caso in esame, i motivi
di ricorso non mirano a contestare la gravità delle presunzioni o la loro
precisione, ma tendono ad un rinnovato esame nel merito di tutti gli elementi
istruttori, tentando di valorizzare la presenza in loco di un direttore dei
lavori, il provvedimento di archiviazione nei confronti del legale
rappresentante della contribuente, la mancata emissione di atti di  contestazione da parte dell’Ufficio del
lavoro oppure la tipologia di attività svolta (meri lavori di muratura e
carpenteria).

Peraltro, ciò che caratterizza l’appalto “non
genuino” non è tanto la mancanza di una organizzazione, che può essere
minima (Cass., 5265/19 con riferimento anche
alla vecchia disciplina di cui alla legge 1369 del
1960; Cass., 29 settembre 2011, n. 19920;),
tanto che può essere appaltatore anche un soggetto non imprenditore, privo di
organizzazione, che adempie solo ad una prestazione “occasionale”,
per un singolo contratto di appalto (Cass., 28
luglio 2017, n. 18808), ma soprattutto l’eterodirezione, ancora prima della
assenza di rischio di impresa (Cass., 7 dicembre
2018, n. 31720; Cass., 15 luglio 2011, n.
15615; Cass., 6 giugno 2011, n. 12201, con
riferimento alla legge 1369/1960, poi abrogata
dall’art. 85, comma 1 lettera c
del d.lgs. 276/2003).

L’eterodirezione si ha quando
l’appaltante-interponente, non solo organizza, ma anche “dirige” i
dipendenti dell’appaltatore, utilizzandoli in prima persona.

Si ha eterodirezione quanto restano in capo
all’appaltatore solo i compiti di gestione amministrativa, quali la
retribuzione, la pianificazione delle ferie, senza una reale organizzazione
della prestazione, volta ad un risultato produttivo autonomo (Cass., 28 marzo 2013, n. 7820), mentre
l’interponente committente non solo organizza, ma anche dirige i dipendenti,
utilizzandoli in prima persona (Corte Giustizia 6
marzo 2014, causa C-458/12, Amatori, con riferimento al trasferimento di
azienda o di ramo di azienda).

Alla interposta, quindi, in presenza di
eterodirezione, restano solo compiti di gestione amministrativa del rapporto,
senza una reale organizzazione della prestazione lavorativa.

Il rischio di impresa resta, comunque, un requisito
essenziale dell’appalto “genuino” (Cass., 28953/2018).

5.Quanto all’Irap non è possibile riconoscere
neppure la deducibilità dei costi relativi alle prestazioni dei lavoratori
formalmente dipendenti della società appaltatrice G. s.r.l, e ciò neppure
facendo riferimento al richiamato art. 14, comma 4 bis, della legge
537/1993, come modificato dal d.l. 16/2012.

5.1. In effetti, sul punto il giudice di appello ha
ritenuto applicabile l’art.
14, comma 4 bis, legge 537/1993, senza tenere conto dello ius suprvenies
rappresentato dal d.l. 16/2012.

5.2. In relazione, alla deducibilità dei costi da
attività illecita, l’art. 2 comma 8
della legge 27 dicembre 2002, n. 289 ha inserito il comma 4 bis dopo il
comma 4 della legge 537/1993, in base al quale
“nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo
unico delle imposte sui redditi,…. non sono ammessi in deduzione i costi o le
spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto
salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”. Pertanto,
con la legge 289/2002 si è prevista la non
deducibilità di costi o spese riconducibili a “reati”.

5.3. L’art.
8 del d.l. 16 del 2012, sostituendo il comma 4 bis della legge 537/1993, ha, invece reso possibile, a
determinate condizioni, la deducibilità di costi collegati a reati, con
esclusione però dei costi e delle spese “direttamente utilizzati” per
il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo per il quale
il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. In particolare, il
nuovo art. 14 comma 4 bis
legge 537/1993, dopo il d.l. 16/2012,
prevede che “nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo
unico delle imposte sui redditi…, non sono ammessi in deduzione i costi e
le  spese dei beni o delle prestazioni di
servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività
qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia
esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il
decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo
424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere
ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice
fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga
una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo
530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non
luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425
dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di
estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di
non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529
del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte
versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo
precedente e dei relativi interessi”.

Al comma 2 dell’art. 8 del dL. 16/2012 si
prevede che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non
concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti
positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a
beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti
dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese e/o altri
componenti negativi”.

Sul punto, per questa Corte, in tema di imposte sui
redditi, e con riguardo ad operazioni oggettivamente inesistenti, grava sul
contribuente l’onere di provare la fittizietà di componenti positivi che, ai
sensi dell’art. 8, secondo comma,
del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, ove direttamente
afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non
effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito
oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione
delle predette spese o altri componenti negativi (Cass.,
20 novembre 2013, n. 25967).

Il comma 3 dell’art. 8 del d.l. 16/2012, poi,
detta la disciplina transitoria, con effetto retroattivo delle norme se più
favorevoli al contribuente (” le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si
applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4 bis dell’articolo 14 della legge 24
dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti
in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più
favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori
imposte dovute, salvo che provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis
previgente non si siano resi definitivi”), con rilievo anche d’ufficio da
parte del giudice (Cass., 661/2014; Cass.,
26461/2014; Cass., 19617/2018).

5.4. Pertanto, l’indeducibilità sostanziale dei
costi opera solo per i costi inerenti l’acquisto di beni e servizi direttamente
utilizzati per la commissione di delitti non colposi; sicchè non è sufficiente
per escludere la deducibilità dei costi che gli stessi afferiscano
genericamente alla commissione del reato doloso, ma è necessario che siano
stati sopportati per acquisire beni direttamente utilizzati per la commissione
di reati dolosi.

L’art.
8, comma 1, del d.l. 16/2012 non concerne i costi relativi ad operazioni in
tutto o in parte inesistenti, mentre trova applicazione per i costi relativi a
fatture soggettivamente inesistenti, in quanto in tale seconda ipotesi il costo
riportato in fattura è effettivo e , di regola, non è utilizzato per la
commissione di alcun reato.

5.5. La disciplina dell’art. 8, però, non riguarda la
disciplina Iva, sicchè con riferimento alle fatture passive soggettivamente
inesistenti, permane la indetraibilità di tale imposta ove il contribuente,
dopo che l’Amministrazione ha offerto la prova lo stesso “sapeva”
dell’accordo simulatorio o “avrebbe dovuto saperlo, utilizzando la comune
diligenza, non dimostri la sua buona fede e quindi l’estraneità alla frode nel
cui ambito tali fatture siano state emesse oltre alle condotte adottate per
verificare l’effettiva attività svolta dalle ditte fornitrici (Cass., 9851/2018).

5.6. In relazione all’Irap, dunque, anche applicando
l’art. 14 comma 4 bis legge
537 del 1993, come modificato dal d.l. 16/2012,
non è possibile la deduzione dei costi per i dipendenti formalmente assunti
dalla appaltatrice, in quanto, proprio per la nullità dei contratti da cui
scaturisce l’obbligazione patrimoniale, indipendentemente dalla richiesta dei
lavoratori di “costituire” il rapporto di lavoro con l’interponente,
non risulta sussistere il requisito della “certezza”.

La certezza sussiste, ai fini Irap, solo in base
alla correttezza ed alla veridicità dei bilanci, per il richiamo dell’art. 5 del d.lgs. 446/1997 all’art. 2425 c.c..

5.7. Il giudice di appello, dunque, pur menzionando
per errore la vecchia disciplina dell’art. 14 comma 4 bis legge
537/1993, non tenendo quindi conto delle innovazioni di cui al d.l. 16/2012, ha però correttamente rigettato
l’appello principale della contribuente sul punto, quindi è sufficiente
disporre la correzione della sentenza di secondo grado nei termini di cui in
motivazione.

6. Con il quinto motivo di impugnazione i ricorrenti
deducono “violazione e/o falsa applicazione art. 23 d.p.r. 600/1973; violazione
e/o falsa applicazione art. 67 d.p.r.
600/1973: tutti in relazione all’art. 360 comma
1 n. 3 c.p.c.”, in quanto il giudice di appello ha ritenuto
erroneamente che gli obblighi fiscali ricadessero sulla contribuente
(committente-interponente), perchè era stato dimostrato che questa era
l’effettivo datore di lavoro, da individuare come sostituto di imposta, con i
connessi obblighi fiscali. Per i ricorrenti, invece, da un lato, doveva tenersi
conto del rapporto di lavoro intercorso esclusivamente con l’appaltatrice G., e
dall’altro, che proprio quest’ultima aveva provveduto al pagamento di tutti gli
obblighi fiscali, come risultava dal rilascio del regolare Durc (documento
unico di regolarità contributiva) da parte della G. B. s.r.l. per l’anno 2006.

5.1. Tale motivo è fondato.

5.1. Invero, il precedente orientamento di legittimità,
citato dalla Commissione di II grado, in relazione all’art. 1 legge 1369 del 1960,
deve essere superato alla stregua dell’art. 29 comma 3 bis del d.lgs.
276/2003.

5.2. In precedenza, infatti, nel vigore della legge 1369 del 1960, si è affermato che, nelle
prestazioni di lavoro cui si riferiscono – prima dell’intervenuta abrogazione
ad opera dell’art. 85, comma
primo, lett. c) del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 – i primi tre commi
dell’art. 1 della legge 23
ottobre 1960, n. 1369 (divieto di intermediazione ed interposizione nelle
prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego della manodopera negli
appalti di opere e di servizi), la nullità del contratto fra committente ed
appaltatore (o intermediario) e la previsione dell’ultimo comma dello stesso
articolo – secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle
dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le
prestazioni – comportano che solo sull’appaltante (o interponente) gravano gli
obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal
rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali,
non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell’appaltatore (o
interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del
rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza
sociale degli interessi ad esso sottesi (Cass.,
sez.un., 26 ottobre 2006, n. 22910).

Pertanto, il sostituto di imposta era l’appaltante (Cass., 19 aprile 2019, n. 11053; Cass., 15 febbraio 2013, n. 3795; Cass., 31 maggio 2013, n. 13748; Cass., 16 maggio 2014, n. 10745), sicchè la
ritenuta d’acconto doveva essere da essa operata. Il sistema della ritenuta
d’acconto è diretto ad agevolare non solo la riscossione, ma anche
l’accertamento degli obblighi del percettore del reddito. Pertanto, la mancata
effettuazione della ritenuta, da parte del sostituto, non elimina il suo
obbligo di versare la somma corrispondente (“perpetuatio
obligationis”), fermo il suo diritto di rivalsa successiva (Cass., 13748/2013; Cass., 17515/02). Poteva
esservi un solo datore di lavoro, ossia l’interponente, con un solo sostituto
di imposta quale datore di lavoro “effettivo” ex art. 23 d.p.r. 600/1973.

Proprio la circostanza che il rapporto di lavoro
sorgeva ai sensi dell’art. 1
comma 5 legge 1369 del 1960 direttamente in capo all’interponente, faceva
sì che vi era un solo sostituto di imposta, che era appunto l’interponente,
ossia l’unico datore di lavoro ed unico sostituto di imposta. Non vi era
interesse ad agire per l’Agenzia delle entrate per pretendere un nuovo
versamento dall’interponente qualora il datore di lavoro interposto (apparente)
avesse già provveduto a versare le ritenute d’acconto. Infatti, il versamento
del terzo (interposto-appaltatore), consentiva la riscossione del pagamento,
con il meccanismo della ritenuta di acconto, e scongiurava l’evasione. Pur non
essendovi “doppia imposizione”, tuttavia non era  ravvisabile un interesse giuridicamente
rilevante a sostenere la pretesa di ottenere versamenti già avuti da altri.
Infatti, il terzo interposto, che non aveva alcun rapporto tributario con
l’Agenzia delle entrate, non avrebbe potuto richiedere il rimborso al Fisco per
gli importi versati quale sostituto di imposta, poiché l’unico soggetto passivo
era il datore di lavoro interponente, ai sensi dell’art. 1 comma 5 legge 1369 del 1960.
Nè poteva applicarsi la condictio indebiti di cui all’art. 2036 commi 1 e 3 c.c., in quanto non vi era
un “errore scusabile” dell’interposto, apparente datore di lavoro,
che ben sapeva che i lavoratori erano in realtà alle dipendenze
dell’interponente; anzi la condotta dell’interposto era sanzionabile, quale
corresponsabile della violazione del divieto di intermediazione, con la
contravvenzione di cui alla legge n. 1369 del 1960.

Nè trovava applicazione l’art. 37 ultimo comma d.p.r. 600/1973,
che attribuisce il diritto di rimborso alle persone “interposte” che
dimostrino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente
imputati ad altro contribuente.

Nella specie, infatti, il titolare del reddito non
era l’interponente, ma il lavoratore.

Occorreva, quindi, accertare in quale misure
l’interposto, che non poteva, come detto, chiedere il rimborso di quanto
pagato, avesse versato le ritenute d’acconto.

5.3.Dopo la modifica normativa di cui all’art. 29 comma 3 bis d.lgs. 276/2003,
però, nessun rapporto di lavoro, in caso di appalto “non genuino”
sorge in capo all’interponente-committente. Infatti, il rapporto di lavoro con
l’interponente può sorgere soltanto nel caso in cui il lavoratore presenti il
ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c., anche
soltanto nei confronti dell’utilizzatore effettivo (ossia l’interponente). In
mancanza di tale iniziativa nessun rapporto di lavoro può sorgere, in caso di
appalto non genuino, con l’interponente che, di conseguenza, non ha alcun
obbligo di ritenuta (Cass., 11 dicembre 2015, n.
25014; Cass., 11053/2019). Nel caso in cui
i lavoratori avessero presentato ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c. per la costituzione del rapporto
di lavoro alle dipendenze dell’interponente, sarebbe stato, comunque necessario
accertare che non vi fossero stati pagamenti da parte dell’impresa interposta,
ai sensi dell’art. 27 comma 2
d.lgs. 276 del 2003, richiamato dall’art. 29 comma 3 bis.

Sul punto, invece, il giudice di appello ha
applicato il precedente orientamento formatosi sulla legge
1369 del 1960, quindi non ha valutato né se vi fossero state richieste dei
lavoratori di costituzione del rapporto di lavoro alle dipendente della
interponente-contribuente, né, in caso positivo, se la G. s.r.l. avesse già
provveduto in qualche misura al versamento delle ritenute operate, soprattutto
in relazione al documento di regolarità contributiva rilasciato alla G. s.r.l.
per l’anno 2006.

6.La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata
in relazione all’accoglimento del quinto motivo, con rinvio alla Commissione
tributaria di II grado di Bolzano, in diversa composizione, che si atterrà al
seguente principio di diritto: “in caso di violazione del divieto di
intermediazione di manodopera, ai sensi della legge
n. 1369 del 1960, va escluso l’interesse ad agire dell’Agenzia a richiedere
il pagamento delle ritenute d’acconto al datore di lavoro interponente, qualora
quello interposto le abbia già versate, giacché tale versamento non è
suscettibile di rimborso o di ripetizione; nel regime successivo all’entrata in
vigore del d.lgs. n. 276/2003, invece, poiché
l’obbligo di ritenuta sui redditi di lavoro dipendente postula, da un lato,
l’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore, e dall’altro,
i mancati pagamenti del suo somministratore, l’omessa costituzione del rapporto
di lavoro su iniziativa dei lavoratori, nei casi prescritti dall’art. 27 del suddetto decreto,
richiamato dal successivo art. 29,
impedisce comunque l’insorgenza in capo all’interponente dell’obbligo di
operare le ritenute. In caso di avvenuta costituzione del rapporto di lavoro
con l’interponente, a seguito di ricorso giudiziale ex art. 414 c.p.c., deve tenersi conto degli importi
già versati a titolo di ritenute dall’interposto ai sensi dell’art. 27 comma 2 d.lgs. 276/03,
richiamato dall’art. 29 comma
3 bis dello stesso decreto legislativo”. Il giudice del rinvio provvederà
anche sulle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il quinto motivo; dichiara inammissibile il
primo motivo; rigetta i motivi secondo, terzo e quarto; cassa la sentenza
impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione
tributaria di II grado di Bolzano, cui demanda anche di provvedere sulle spese
del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 dicembre 2019, n. 34727
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