Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 gennaio 2020, n. 148

CCNL Dirigenti Aziende Industriale, Licenziamento,
Impugnazione, Tempestività, Pagamento dell’indennità supplementare

Fatti di causa

1. L’ing. P. S., già dirigente della N.G.I. s.p.a.,
licenziato il 29 agosto 2012, agiva per il riconoscimento della
“ingiustificatezza” del recesso intimatogli dalla datrice di lavoro e
per il pagamento dell’indennità supplementare ex art. 19 CCNL Dirigenti Aziende
Industriale, unitamente ad altre connesse pretese (differenze
dell’indennità di preavviso e premio di produzione), che in questa sede più non
rilevano, essendosi formato il giudicato interno sulle relative statuizioni di
rigetto.

2. Sull’impugnativa del licenziamento, il Giudice
del lavoro del Tribunale di Velletri rilevava l’intervenuta decadenza di cui
all’art. 32, comma 1, I. n.
183/2010, non avendo il lavoratore provveduto ad impugnare il recesso nei
termini previsti dalla citata norma.

3. L’appello proposto dal dirigente veniva accolto
dalla Corte d’appello di Roma che, con sentenza n. 3977/2016, riformando sul
punto la pronuncia di primo grado, dichiarava tempestiva l’impugnativa e privo
di giustificatezza il licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro,
che veniva condannata al pagamento dell’indennità supplementare di cui all’art. 19 CCNL pro-tempore vigente
nella misura di euro 196.109,82, oltre accessori.

3.1. Quanto al regime della decadenza, prevista nei
termini di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e di
ulteriori 180 giorni per la proposizione di ricorso giurisdizionale, la Corte
di appello, pur rilevando che l’art.
32, comma 2, I. n. 183/2010 aveva esteso il relativo regime a tutti i casi
di invalidità del licenziamento e che tale estensione riguardava anche i
dirigenti, come affermato da Cass. n. 22627/2015,
osservava tuttavia che l’istituto non poteva che riguardare i soli casi di
difformità del licenziamento dal modello legale, in quanto la patologia
dell’invalidità comprende i licenziamenti nulli perché contrastanti con
specifici divieti di legge, inefficaci perché verbali (in violazione dell’art. 2 comma 1, I. n. 604/66),
privi di giusta causa o di giustificato motivo o anche soltanto viziati dal
mancato rispetto delle regole procedimentali di cui all’art. 7 Stat. lav.; in tutti
questi casi si tratta sempre di ipotesi in cui l’atto espulsivo datoriale, al
di là delle tutele offerte dall’ordinamento, più o meno intense, (dalla
reintegrazione ad indennizzi monetari variamente graduati, tutele peraltro nel
tempo più volte rivisitate), si pone in contrasto con norme di legge, sia essa
la legge n. 604/66, siano fonti ad essa
successive. In nessun caso può invece qualificarsi come invalido il
licenziamento del dirigente privo di “giustificatezza” a norma dei
contratti collettivi di settore (nel caso in esame, dall’art. 22 del CCNL Dirigenti Imprese
industriali), poiché in questo caso l’illecito è solo convenzionale e l’atto
che lo riflette integra soltanto un inadempimento contrattuale, così come di
esclusiva regolamentazione contrattuale è la tutela in tal caso apprestata.

3.2. La Corte di appello concludeva che la decadenza
ex artt. 6 I. 604/66 e 32, comma 2, n. 183/10 non opera
in questa evenienza, essendo l’istituto di stretta interpretazione,
insuscettibile di applicazione estensiva.

3.3. Esaminando nel merito la domanda proposta dal
dirigente, osservava che non risultava dimostrata in giudizio, quanto meno
nella parte specificamente riferita alla funzione aziendale di cui era
responsabile il ricorrente, la prospettata ristrutturazione aziendale, che la
società aveva addotto per far fronte alla drastica modifica dello scenario
economico di riferimento e all’inversione del trend di crescita dell’intero
gruppo, leader mondiale del comparto dell’elettronica per la difesa. Osservava
che la prospettata revisione organizzativa della funzione Program Management,
la cui posizione apicale era occupata dal S. e che sarebbe stata in esubero,
non aveva trovato riscontro in giudizio, alla stregua dell’esame degli
organigrammi aziendali e in assenza di documentazione ulteriore, non offerta
dall’azienda, sulla quale gravava il relativo onere probatorio.

3.4. In conclusione al dirigente spettava
l’indennità supplementare, determinabile in quindici mensilità, aumentata a
diciotto mensilità per l’età anagrafica.

4. Per la cassazione di tale sentenza la N.G.I.
s.p.a. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, cui ha resistito con
controricorso il dott. S..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli articoli 1362 e seguenti
cod. civ., dell’art. 6 I.
n. 604/66, dell’art. 32,
comma 2, I. n. 183/10 (art. 360, primo comma,
n. 3 cod. proc. civ.) per avere la sentenza errato, da un lato, nell’interpretazione
del ricorso introduttivo laddove il dirigente aveva allegato anche la natura
ritorsiva o discriminatoria del licenziamento chiedendo l’accertamento della
sua nullità, dall’altro, nell’interpretazione della portata applicativa della
fattispecie della decadenza, essendosi la Corte di appello discostata dai
principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 22627 del 2015), il cui orientamento
consente di superare la questione relativa alla applicabilità o meno
dell’istituto a seconda delle ragioni poste a fondamento dell’illegittimità del
recesso, siano esse la nullità, l’invalidità o la mera ingiustificatezza del
recesso.

1.1. Si osserva che sui concetti di invalidità e
giustificatezza la Corte d’appello non aveva tenuto conto di quanto osservato
dalla società resistente in primo grado e precisamente che l’ingiustificatezza
è un concetto di creazione giurisprudenziale e quindi come tale non può
costituire una categoria giuridica a sé stante; che trattandosi di ipotesi
patologica di illegittimità del licenziamento, essa non può che essere
ricondotta nell’ambito della categoria giuridica della invalidità; che la
questione poi se l’impugnativa del licenziamento debba essere attuata nel
termine di decadenza legale solo nel caso in cui l’illegittimità dell’atto
incida o meno sulla continuità del rapporto di lavoro, trattasi di questione
ormai superata dalla luce del nuovo testo dell’art. 18 I. n. 300/70 e delle
ulteriori modifiche al sistema di tutela dei lavoratori introdotte con il c.d.
Jobs Act, secondo cui la regola del sistema di tutela del lavoratore è prima di
tutto quella indennitaria e solo in casi particolari quella reale della
reintegrazione nel posto di lavoro; che, in altri termini, la distinzione tra
invalidità e giustificatezza, oggi, alla luce delle modifiche attuate dall’art. 18, deve ritenersi
venuta meno, tanto più che costituirebbe una disparità di trattamento
ingiustificata ritenere che il lavoratore di livello inferiore al dirigente
debba impugnare il licenziamento nel termine previsto anche quando invoca la
tutela indennitaria, mentre non debba farlo il dirigente.

2. Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza
per manifesta e/o irriducibile contraddittorietà e o mera apparenza della
motivazione (art. 360,  primo comma, n. 4 cod. proc. civ.) nella
parte in cui, dopo avere correttamente osservato che la patologia
dell’invalidità comprende i licenziamenti nulli, era giunta alla conclusione
illogica e contraddittoria della inapplicabilità della decadenza ex art. 6 I. n. 604/66 e art. 32, comma 2, I. n. 183/10.

3. Il terzo motivo denuncia omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.) per
non avere la sentenza tenuto conto della dettagliata descrizione della
riorganizzazione aziendale contenuta nella memoria difensiva di primo grado,
riportato in ricorso (da pagina 13 a pagina 22)..

Si sostiene che i giudici di secondo grado, se
avessero tenuto conto delle allegazioni svolte in tale memoria difensiva in
ordine alla riorganizzazione aziendale, avrebbero dovuto affermare che
licenziamento intimato al ricorrente era legittimo e giustificato perché
connesso ad un’operazione di riorganizzazione effettiva e non pretestuosa, che
aveva visto depotenziare l’ufficio diretto dal dott. S. con riduzione totale
della funzione gestoria apicale prima ritenuta necessaria, con l’eliminazione
della postazione lavorativa del ricorrente.

4. Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.

5. Con riguardo al primo motivo, attinente alla
estensibilità al licenziamento del dirigente affetto da ingiustificatezza del
termine decadenziale introdotto dall’art. 32 del Collegato Lavoro,
valgono le osservazioni che seguono.

5.1. L’art. 6 della legge n. 604/1966,
nel testo antecedente alla novella ex art. 32, comma 1, I. n. 183/2010,
disponeva che il licenziamento dovesse essere impugnato, a pena di decadenza,
anche in sede extragiudiziale, entro 60 giorni dalla  ricezione della sua comunicazione. Tale
regime era pacificamente ritenuto inapplicabile ai dirigenti che agissero per
la condanna datoriale al pagamento dell’indennità supplementare prevista dal
contratto collettivo, in quanto si trattava di categoria di prestatori
sottratta alle norme limitative dei licenziamenti individuali poste dalla legge n. 604/1966 (cfr. ex multis, Cass. n.
1641/1995, n. 20763 del 2012).

5.2. Deve ricordarsi che, fino al 2010, la
disciplina contemplata nella I. n. 604/1966
(fatto salvo quanto previsto dall’art. 2, co. 4) non è stata
applicata ai dirigenti, sulla base di quanto stabilito dall’art. 10 della medesima
normativa. In forza di tale esclusione ex lege, per questa categoria di
lavoratori non è mai sussistito l’obbligo di impugnare il recesso secondo il
regime decadenziale previsto ex art.
6, I. n. 604/1966. Di conseguenza, si è attestata l’uniforme e pacifica
interpretazione dei giudici di merito e di legittimità: le tutele della prima
legge sui licenziamenti individuali sono state estese ed applicate soltanto ai
cc.dd. pseudo-dirigenti.

5.3. L’art.
32 della legge n. 183 citata, al comma 1, ha sostituito l’art. 6 della legge n. 604 e,
nel ribadire il termine di decadenza di 60 giorni per  l’impugnazione extragiudiziale del
licenziamento, prevede ora il termine ulteriore di 180 giorni per la
proposizione del ricorso giurisdizionale. Al comma 2 del predetto art. 32 è previsto che le
disposizioni di cui al citato art.
6 della legge 604 si applicano “anche a tutti i casi di invalidità del
licenziamento”.

5.4. Dunque, il Collegato Lavoro, all’art 32, comma 2, ha previsto
l’estensione della decadenza in tema di licenziamento anche a tutti i casi di
invalidità. Il termine invalidità ha un significato preciso, che presuppone che
l’atto sia inficiato nella sua validità per un vizio intrinseco derivante dal
discostamento dal modello legale o per effetto di una previsione legale che
colleghi alla mancanza di requisiti che devono caratterizzare l’atto la
conseguenza della invalidità (come per il licenziamento: art. 2119 c.c.). La legge
183/2010 ha così inteso ricomprendere nell’ambito del regime caducatorio
disciplinato ex novo rispetto all’art 6 I. 604/1966 casi di
nullità e, in generale, di invalidità esterni alla legge
604/1966.

6. Il licenziamento del dirigente originariamente
era tutelato dal divieto del licenziamento discriminatorio e ritorsivo (colpito
da nullità: artt. 2 e 4 della
legge n. 604/1966 cit.), lasciando la normativa immutato il regime di
libera recedibilità come criterio generale, salva sempre la possibilità per la
contrattazione collettiva di introdurre un regime di controllo delle ragioni
del licenziamento individuale.

6.1. Ai limiti di tutela ha posto, quindi, in
qualche misura, rimedio la contrattazione collettiva col prevedere,
generalmente, che nei casi in cui non sussista la giustificatezza del
licenziamento, ferma la validità e l’efficacia del recesso, al dirigente spetta
una speciale indennità supplementare di carattere risarcitorio.

6.2. Soltanto con la legge
92 del 2012, nella nuova formulazione dell’art. 18, comma 1, i dirigenti
sono stati per la prima volta destinatari di una tutela piena per le ipotesi
anche ad essi applicabili di nullità del licenziamento perché discriminatorio
ai sensi dell’articolo 3 della legge
11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai
sensi dell’articolo 35 del
codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in
violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del
testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno
della maternità e della paternità, di cui al decreto
legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero
perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o
determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile.

7. Con la sentenza
22627/2015, questa Corte ha affermato che “i suddetti termini di
decadenza e di inefficacia dell’impugnazione devono trovare applicazione quando
si deduce l’invalidità del licenziamento, come nella specie, prospettandone la
nullità in quanto discriminatorio, non assumendo rilievo la categoria legale di
appartenenza del lavoratore”. A questa decisione la Corte di Cassazione è
pervenuta rilevando che “la ratio della disciplina introdotta dall’art. 6 della legge n. 604/1966,
in combinato disposto con l’art.
32, comma 2, della legge n. 183 del 2010, si rinviene nell’esigenza di
garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di
decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza e non in
contrasto con l’art. 111 Cost. Il legislatore
ha così operato, facendo riferimento ad un criterio oggettivo, un non
irragionevole bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della
certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del
lavoratore”.

7.1. Secondo la Corte “la ratio della
disciplina introdotta dall’art.
6 della legge n. 604 del 1966, in combinato disposto con l’art. 32, comma 2, della legge n.183
del 2010, è coerente con l’ottica di tutela del datore di lavoro in
relazione all’esigenza di conoscere in un tempo sufficientemente breve i rischi
economici ed organizzativi connessi alla lite ed all’esigenza di garantire la
speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed
inefficacia prima non previsti in consonanza con il principi dell’art. 111 Cost”.

7.2. Alla luce delle considerazioni espresse da Cass. 22627/15, una volta che l’art. 32, comma 2, ha previsto un
onere di impugnativa a pena di decadenza per ogni recesso datoriale invalido –
con un metro che per sua natura è indipendente dalla categoria legale di
appartenenza del lavoratore – è ragionevole ritenere che la norma regoli
“anche” il caso del licenziamento vietato o nullo del dirigente,
identico nella disciplina (sostanziale e sanzionatoria) al corrispondente
licenziamento di un impiegato o di un operaio.

7.3. Ciò comporta che solo in virtù di tale
estensione la disciplina della decadenza per i casi di “invalidità” è
stata resa applicabile ai recessi intimati ai dirigenti, una volta ritenuto che
l’ambito soggettivo di applicabilità del regime decadenziale comprenda anche
tale categoria.

7.4. L’estensione dei termini di decadenza ed
inefficacia dell’impugnazione del licenziamento, disposta dall’art. 32, comma 2, della legge n. 183
del 2010 è ritenuta operare, in conclusione, con riguardo al dato oggettivo
costituito dalla invalidità del licenziamento e al di fuori della limitazione
posta dal citato art. 10 della
legge n. 604 del 1966 con riguardo alla posizione lavorativa
dell’interessato.

8. Più problematica è la questione, oggetto del
presente giudizio, dell’applicabilità della decadenza al licenziamento del
dirigente in ipotesi non riconducibile ad invalidità dell’atto, ma a
fattispecie di mera ingiustificatezza del licenziamento, per le quali è
dibattuto se possano operare le decadenze di legge.

8.1. Secondo l’opinione largamente prevalente, il
vecchio art. 6 della I. n.
604/1966 si applicava ai soli recessi “interni” al sistema della
stessa I. n. 604/1966: rimanevano, pertanto,
escluse le fattispecie assoggettate a discipline particolari, quali quelle dei
licenziamenti intimati a lavoratori in prova o a dirigenti (il licenziamento
del dirigente privato), o posti in essere in violazione delle norme a tutela
delle lavoratrici madri e che contraggono matrimonio, o quelli intimati in
violazione dell’art. 2112 cod. civ. e delle
discipline del comporto.

8.2. L’art.
32, co. 2, I. n. 183/2010 – come già detto – ha esteso l’applicazione della
nuova disciplina «anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento», e,
dunque, anche a fattispecie “esterne” alla disciplina della I. n. 604/1966 e sue modifiche. Il Collegato
Lavoro non ha previsto alcuna estensione ai dirigenti delle ipotesi di nullità
del licenziamento esterne alla I. 604/66,
essendo tale estensione avvenuta soltanto con la previsione dell’art. 18, comma 1, dello Statuto
dei Lavoratori, come modificato dall’art. 42 della I. 92/2012, ciò che consente di ritenere che solo
con tale normativa l’espressione “anche a tutti i casi di invalidità del
licenziamento”, riferita alla disciplina della decadenza, possa essere
riempita di significato anche per la categoria dei dirigenti. L’art. 32, co. 2, del Collegato
Lavoro non poteva, dunque, riferirsi, quanto alla previsione di decadenze, ai
dirigenti, se non per le ipotesi di nullità già previste per gli stessi dalla I. 604/66 (artt. 2 e 4, quest’ultimo come
modificato dall’art. 3 I. 108/90,
che ne ha disposto espressamente l’applicabilità anche ai dirigenti) e solo con
la legge 92 del 2012, che ha previsto ipotesi
di nullità dei licenziamenti cui consegue di diritto la tutela reintegratoria
anche per i dirigenti (testo novellato dell’art. 18, comma 1, St. Lav.),
risultano per questi ultimi ipotizzabili fattispecie di invalidità esterne alla
I. 604/66, con conseguente estensibilità anche
ad essi del regime della decadenza di cui all’art. 32, co 2 del Collegato
Lavoro. Questo induce a ritenere che la disciplina sulla decadenza del
Collegato Lavoro non potesse nelle intenzioni del legislatore  riferirsi anche alle ipotesi di mera
ingiustificatezza del licenziamento dei dirigenti, se per questi ultimi non era
ancora stata prevista alcuna tutela rafforzata propria di un regime di
invalidità, riguardante casi esterni alla legge
604/66, che giustificasse il regime decadenziale introdotto, ispirato ad
esigenze di certezza e di celerità nella stabilizzazione di conseguenze
reintegratorie previste a carico del datore di lavoro.

8.3. Le considerazioni che precedono inducono ad
escludere l’estensione del regime decadenziale, che dipende dal significato che
si attribuisce al termine “invalidità”, a casi che rientrano nel più
ampio concetto di illegittimità, ciò che condurrebbe a ritenere la nuova
disciplina applicabile all’impugnazione di qualsiasi licenziamento. Corollario
delle stesse è, al contrario, l’attribuzione al termine invalidità del
significato suo proprio, cui consegue l’affermazione che la norma opera solo
quando il vizio sia suscettibile di determinare la demolizione del negozio e
dei suoi effetti solutori.

8.4. Secondo questo Collegio, l’espressione
“invalidità” deve essere inteso in senso restrittivo, avendo riguardo
ai confini della categoria di tale vizio propriamente inteso, in relazione alla
rilevata incapacità di un atto privato contrario ad una norma di produrre
effetti conformi alla sua funzione economico sociale. La nozione generalmente
accolta di invalidità presuppone, pertanto, un atto inidoneo ad acquisire pieno
ed inattaccabile valore giuridico.

8.5. L’estensione della disciplina della decadenza
al di là dei casi di invalidità comporterebbe del resto un’inammissibile
applicazione analogica di una norma eccezionale, che, in quanto contemplante
decadenze, deve essere interpretata nell’ambito della stretta previsione
normativa e non al di là dei casi considerati, diversamente privandosi la
previsione specifica della invalidità di ogni portata precettiva. In altri
termini, stante il principio di stretta interpretazione delle norme in materia
di decadenza, non è possibile pervenire ad un ampliamento della portata
“oggettiva” della norma in esame tale da includervi ogni ipotesi di
“patologia” del licenziamento, neanche considerando la specialità
della materia relativa all’impugnazione dei licenziamenti rispetto ai principi
di diritto comune.

8.6. Dunque, nel concetto di invalidità non può
ricondursi l’ipotesi della “ingiustificatezza” di fonte
convenzionale, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità
supplementare. Quest’ultima si collega ad un atto incontestatamente e pacificamente
valido, che incide in termini solutori sul rapporto di lavoro.

8.7. A ciò consegue che l’ambito di applicabilità
oggettiva dell’art. 32, secondo
comma, legge n. 183 del 2010 non può che riferirsi alle ipotesi di stretta
invalidità (rectius, nullità) menzionate dall’art. 18, comma 1, St. Lav.
come modificato, essendo tale opzione interpretativa maggiormente coerente con
la descritta evoluzione normativa e con i canoni interpretativi previsti dall’art. 12 Preleggi.

9. A ciò aggiungasi che la nozione di
“ingiustificatezza”, quale elaborata dalla giurisprudenza di questa
Corte è rimasta, a tutt’oggi, invariata.

9.1. Trattandosi di nozione contrattuale, il suo
contenuto deve essere enucleato attraverso l’accertamento, con indagine
interpretativa della clausola collettiva, con riguardo ai motivi che possono
dare luogo alla giustificatezza del licenziamento del dirigente (cfr., tra e
altre, Cass. 19.6.1999 n. 6169, Cass. 5.10.2002 n. 14310, 1.6.2005 n. 11691, da ultimo, Cass.
22.2.2019  n. 5372 (par. 6 delle
considerazioni in diritto).

10. In senso rafforzativo dell’interpretazione qui
accolta deve considerarsi la giurisprudenza che afferma l’autonomia delle due
azioni, l’una avente ad oggetto la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 St. Lav. in caso di
nullità e l’altra diretta ad ottenere l’indennità supplementare, occorrendo,
caso per caso, valutare la prospettazione della domanda giudiziale. E’ stato
statuito da questa Corte che “In materia di rapporto di lavoro del
dirigente, poiché ai fini della giustificatezza del licenziamento rileva
qualsiasi motivo che escluda l’arbitrarietà del licenziamento, la domanda
avente ad oggetto l’accertamento della illegittimità del recesso per non
giustificatezza del licenziamento con condanna del datore di lavoro alla
corresponsione dell’indennità supplementare è diversa da quella avente ad
oggetto l’accertamento della illegittimità del licenziamento comminato in
tronco per giusta causa e la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva
del preavviso; pertanto, accolta quest’ultima per insussistenza della giusta
causa, il relativo giudicato non preclude la proposizione della prima (cfr.
Cass. 20.11.2000 n. 14974). Il vincolo di pregiudizialità logica tra le due
domande proposte separatamente è stato ritenuto non idoneo ad annullare le
intrinseche differenze delle stesse nei profili della causa petendi e del
petitum.

11. Quanto alle ricadute processuali, in caso di
proposizione di entrambe le azioni, e, pure in caso di comunanza del vizio,
ossia della situazione che – secondo la prospettazione – determinerebbe la
nullità o, in subordine, l’ingiustificatezza, diverse sarebbero le due azioni e
diverso il regime di impugnazione.

12. Applicando i suddetti principi al caso in esame,
va rilevato che nessun cenno viene fatto nella sentenza impugnata ad una ipotesi
di proposizione, nell’atto introduttivo del giudizio, di un’azione diversa ed
ulteriore rispetto a quella volta a fare accertare l’ingiustificatezza del
licenziamento per il riconoscimento della indennità supplementare. Di tale
ulteriore domanda,  la cui sussistenza è
comunque contestata da parte del controricorrente, non vi è riscontro nel
presente giudizio. Neppure i brevi passaggi dell’atto introduttivo trascritti
nel ricorso per cassazione rivelano la proposizione (anche) di una domanda
volta a fare dichiarare la nullità del recesso ai fini di un ordine di
reintegra. E’ poi dirimente osservare che l’unica domanda accolta dal giudice
di merito è quella intesa al riconoscimento dell’indennità supplementare, ossia
una domanda che, per tutte le ragioni sopra illustrate, non era assoggettata al
termine di decadenza di cui all’art.
32 più volte citato.

13. Il secondo motivo è inammissibile. Non si
comprende quale sarebbe il vizio radicale che inficia la sentenza, la quale ha
chiaramente distinto l’ipotesi della nullità, che rende l’impugnativa
assoggettabile al termine di decadenza, da quella della ingiustificatezza che,
a differenza della prima, non rientra nell’ipotesi di invalidità. Nessun vizio
di contraddittorietà è ravvisabile nell’iter logico della sentenza.

14. Il terzo motivo è infondato.

14.1. Secondo costante giurisprudenza di questa
Corte, nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo è rimessa alla
valutazione del datore di lavoro la scelta dei criteri di gestione
dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa
economica tutelata dall’art. 41 Cost..
Tuttavia, spetta al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto
dall’imprenditore, per cui, se non è sindacabile nei suoi profili di congruità
ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione
del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore
licenziato, deve pur sempre risultare in giudizio l’effettività e la non
pretestuosità del riassetto organizzativo operato.

Ne consegue che, ove il giudice accerti in concreto
l’inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento
risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o per pretestuosità
della causale addotta.

14.2. Nel caso in esame, la Corte di appello ha
ritenuto, alla stregua degli elementi probatori ritenuti di maggiore
attendibilità ed in particolare degli organigrammi aziendali, che la
prospettata revisione organizzativa della funzione Program Management, la cui
posizione apicale era occupata dal S. e che sarebbe stata in esubero, non aveva
trovato riscontro in giudizio.

14.3. Il motivo di ricorso tende ad una
rivalutazione delle risultanze istruttorie, inammissibile in questa sede,
dovendosi ribadire che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di
legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda
processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il
profilo della correttezza giuridica e della coerenza logicoformale, delle
argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva,
il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità
e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo,
quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad
essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi
di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le
tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).

14.4. Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha
dato conto delle ragioni poste a base del decisum; la motivazione non è assente
o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione
dell’apprezzamento fattuale appaiono manifestamente illogici o contraddittori.
Nel contestare la soluzione cui è pervenuto il giudice di appello, parte
ricorrente denuncia un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito,
ai fini di una alternativa ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento
di sollecitare una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella
accolta dal giudice del merito.

15. Va pure ribadito che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come
riformulato dall’art. 54 del d.l.
22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto
2012, n. 134, è invocabile nella sola ipotesi in cui sia stato omesso
l’esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti
dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto
di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se
esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, fermo
restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il
vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante
in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. S.U. n. 8053/2014).

16. In conclusione, il ricorso va rigettato, con
condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e
compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento
del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

17. Va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali (rigetto del ricorso) per il versamento, da parte della società ricorrente,
ai sensi dell’art. 13, comma 1 –
quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 – bis dello stesso art. 13
(v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida in euro 5.000,00 per compensi e in euro
200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art.13 comma 1 -quater del d.P.R.
n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 – bis, dello stesso articolo
13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 gennaio 2020, n. 148
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