Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 gennaio 2020, n. 251

Rapporto di lavoro, Qualificazione, Impiego di macchine ed
attrezzature di proprietà dell’appaltante, Apporto dell’appaltatore,
Genuinità dell’appalto

Rilevato che

 

1. la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 13
febbraio 2017, ha respinto l’appello proposto da R. Q. avverso la pronuncia di
primo grado che aveva rigettato il ricorso di questi volto al riconoscimento
della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato intercorso con la U. G.
I. S. (successivamente UBIS – U. B. I. S. S.C.p.A.), benché formalmente
inquadrato alle dipendenze della D. Spa dal 2 settembre 2002 al 31 dicembre
2008;

2. la Corte di Appello, confermando in tale aspetto
la decisione di primo grado, ha ritenuto “la insussistenza di elementi
idonei a riscontrare la realtà di fatto dedotta dall’appellante a sostegno
della propria domanda: tutte le risultanze … convergono nel senso di smentire
che la fattispecie esaminata configuri un appalto illecito ex art. 1 I. n. 1369/60 ovvero ex
art. 29, comma 3-bis, d. Igs. n.
276/2003”;

3. per la cassazione di tale sentenza propone
ricorso il soccombente con 3 motivi, cui resiste la società con controricorso;
entrambe le parti hanno comunicato memorie;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo di ricorso si denuncia
“violazione e falsa applicazione degli articoli 1 e 3 della legge n. 1369
del 1960 e degli articoli
20-29 del d. Igs. n. 276/03”; si eccepisce che nella motivazione della
sentenza impugnata non emergerebbe il motivo per non applicare la presunzione
iuris et de iure prevista dal comma 3 dell’art. 1 della I. n. 1369 del 1960,
visto che il Q. utilizzava strumenti software di proprietà della committente
oltre una postazione lavorativa presso la medesima composta da scrivania, pc
connesso alla rete aziendale e telefono; si lamenta poi, anche avuto riguardo
all’art. 29 del d. Igs. n. 276 del
2003, che “nella sentenza impugnata manca, nella ricognizione della
regola di diritto, anche la definizione o i criteri per rilevare il rischio di
impresa, ovvero la ricognizione o la applicazione sono erronee”;

2. il motivo è infondato;

nell’impugnata sentenza risulta essere stato
coerentemente applicato il principio – più volte affermato da questa Corte con
una giurisprudenza esplicitamente richiamata alla pag. 5 della sentenza dei
giudici di appello (tra le altre v. Cass. n. 25064 del 2013 e Cass. n. 16488 del 2009) e con la quale parte
ricorrente neanche si misura – secondo cui in tema d’interposizione nelle
prestazioni di lavoro, l’utilizzazione, da parte dell’appaltatore, di capitali,
macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo ad una presunzione
legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto) vietata dall’art. 1, primo comma, della legge
n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza
tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto dell’appaltatore;
la sussistenza (o no) della modestia di tale apporto (sulla quale riposa una
presunzione “iuris et de iure”) deve essere accertata in concreto dal
giudice, alla stregua dell’oggetto e del contenuto intrinseco dell’appalto; con
la conseguenza che (nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da
parte dell’appaltante) l’anzidetta presunzione legale assoluta non è
configurabile ove risulti un rilevante apporto dell’appaltatore, mediante il
conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in
genere per sostenere il costo del lavoro), know how, software e, in genere,
beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto (v. pure
Cass. n. 4585 del 1994);

detto criterio assume pregnanza ancora maggiore con
l’entrata in vigore del d. Igs. n. 276 del 2003
laddove la descritta presunzione della I. n. 1369
del 1960 – concepita peraltro in un’epoca non ancora pervasa dalla
automazione della produzione e dalle tecnologie informatiche – è stata oggetto
di abrogazione e “non è più richiesto che l’appaltatore sia titolare dei
mezzi di produzione, per cui anche se impiega macchine ed attrezzature di proprietà
dell’appaltante, è possibile provare altrimenti – purché vi siano apprezzabili
indici di autonomia organizzativa – la genuinità dell’appalto … così, mentre
in appalti che richiedono l’impiego di importanti mezzi o materiali cd.
“pesanti”, il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere
calibrato, se non sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione di questi
mezzi, negli appalti cd. “leggeri” in cui l’attività si risolve
prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo
all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti” (in
termini, da ultimo, Cass. n. 21413 del 2019);

quanto al rischio di impresa i giudici del merito
hanno plausibilmente ritenuto che il medesimo gravasse sulla D. Spa, facente parte
“del Gruppo F., con circa 1500 dipendenti su tutto il territorio
nazionale, largamente presente sul mercato dei servizi IT alle imprese”,
tenuto altresì conto, circa l’asserita “eterodirezione” da parte
della committente, che dall’istruttoria espletata era piuttosto emerso che
“sia l’attività <progettuale> che quella di <manutenzione>
stavano in capo all’appaltatrice, che aveva nella sede della committente un
proprio referente il quale, quotidianamente presente, rappresentava l’interfaccia
dell’appaltatrice per ogni problematica relativa all’esecuzione dell’appalto e
dava le direttive ai dipendenti dell’appaltatrice”;

3. il secondo motivo denuncia “violazione e
falsa applicazione degli articoli
1 e 3 della legge n. 1369 del 1960 e degli articoli 20-29 del d. Igs. n. 276/03;
nullità della sentenza per omesso esame di documenti” mentre il terzo
analogamente lamenta “violazione e falsa applicazione degli articoli 1 e 3 della legge n. 1369
del 1960 e degli articoli
20-29 del d. Igs. n. 276/03; violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., nullità della sentenza per omessa
ed erronea valutazione delle risultanze istruttorie”,

4. i motivi sono congiuntamente esaminabili perché
affetti dai medesimi profili di inammissibilità;

in disparte l’indebita commistione tra errores in
iudicando ed errores in procedendo, i quali ultimi dovrebbero determinare la
prospettata “nullità della sentenza” ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., nella sostanza parte ricorrente
invoca esplicitamente una rivalutazione delle risultanze istruttorie, anche
documentali, postulando un sindacato di merito chiaramente inibito a questa
Corte dì legittimità, tanto più nel vigore del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., così come rigorosamente
interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054
del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n.
19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni
semplici, principi di cui il ricorrente non tiene alcun conto);

il travalicamento nel giudizio di fatto è altresì
comprovato dall’improprio riferimento all’art. 116
c.p.c. di cui si assume nel terzo motivo la violazione: infatti la violazione
di detta disposizione sussiste solo quando il giudice di merito disattenda il
principio espresso dalla norma in assenza di una deroga normativamente
prevista, ovvero all’opposto valuti secondo prudente apprezzamento una prova o
risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. n. 11892 del 2016);

5. conclusivamente il ricorso va respinto, con spese
che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

occorre dare atto della sussistenza dei presupposti
processuali di cui all’art. 13, co.
1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

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