Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 gennaio 2020, n. 981

Licenziamento collettivo, Illegittimo, Lavoratrice addetta
gestione documentale, Reintegrazione nel posto, Violazione procedurale,
Violazione dei criteri di scelta dei lavoratori

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 1257 del 29.6.2018 la Corte
d’appello di Milano, pronunziando in sede di reclamo, in riforma della sentenza
di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento collettivo intimato
da Be S. S., R. & C. s.p.a. (già B. E. P. S. s.p.a.) in data 10.11.2016 a
I.A., inquadrata nel IV livello del CCNL Terziario con profilo professionale di
addetta alla gestione documentale, ed ha ordinato la reintegrazione nel posto
di lavoro ai sensi dell’art.
18, comma 4 della legge n. 300 del 1970.

2. La Corte territoriale ha ritenuto che il
licenziamento intimato ex lege n. 223 del 1991
alla A. – limitato alla sola sede aziendale di Milano – risultava affetto non
solo da violazione procedurale consistente nella rappresentazione, nell’ambito
della comunicazione di cui all’art.
4, comma 9, legge n. 223 del 1991, di un generale stato di crisi economica
concernente tutte le unità produttive poste sul territorio, ma anche dalla
violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, consistente nella illegittima
limitazione della scelta del personale in esubero alla sede milanese, senza
comparazione con i lavoratori di tutta l’azienda che, secondo la pronuncia
reclamata, presentavano profili professionali in concreto equivalenti e,
dunque, fungibili.

3. Per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso la società Be S. S., R. & C. s.p.a. sulla base di due motivi, illustrati
da memoria; la lavoratrice intimata ha resistito con tempestivo controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente
deduce, ai sensi dell’art. 360,comma 1 n. 3, cod.
proc. civ. violazione e falsa applicazione dell’art. 4, commi 1-3, legge n. 223
del 1991, per mancata valutazione, da parte della Corte territoriale, della
stretta correlazione tra sospensione in cassa integrazione (trattamento che
riguardava solamente i dipendenti dell’unità produttiva di Milano) e
collocazione in mobilità, criterio generale dal quale può discostarsi – come
insegna la Corte Suprema (Cass. n. 10591 del 2005)
– unicamente in caso di sopravvenienza di situazioni diverse da quelle che
hanno dato luogo al trattamento di integrazione salariale. Le organizzazioni
sindacali erano, inoltre, a conoscenza ed anzi condividevano la scelta di
limitare il perimetro di comparazione alla sola sede di Milano.

2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 4 e 5, cod. proc. civ. (artt. 115 e 116
cod.proc.civ.), erroneità della sentenza impugnata ove ha ritenuto provata
la fungibilità delle mansioni della lavoratrice licenziata. La Corte
territoriale, pur accertando che nello svolgimento delle attività di gestione
documentale venissero seguite procedure operative diverse tra loro, definite in
base alle caratteristiche e alle esigenze dei diversi clienti, ha ritenuto
“in concreto equivalenti” le professionalità dei lavoratori addetti a
tali attività nelle diverse sedi territoriali. La decisione impugnata non è
stata fondata su di un esame approfondito delle deduzioni della società e
sull’ammissione dell’attività istruttoria richiesta ai fini di dimostrare la
peculiarità e l’infungibilità delle professionalità in esubero.

3. Il ricorso non è fondato.

Parte ricorrente richiama la statuizione di questa Corte, n. 19051 del 2005, secondo cui “La
procedura per la dichiarazione di mobilità di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991,
necessariamente propedeutica all’adozione dei licenziamenti collettivi, è
intesa a consentire una seria verifica dell’effettiva necessità di porre fine
ad una serie di rapporti di lavoro in situazioni di sofferenza dell’impresa, e,
proprio in vista di tale risultato, il comma terzo del citato art. 4 individua con estrema
ampiezza i contenuti della comunicazione che il datore di lavoro è tenuto a
fornire alle organizzazioni sindacali, emergendo, in particolare, che l’ambito
della verifica che congiuntamente dovranno operare il datore di lavoro e le
organizzazioni sindacali abbraccia l’impresa nel suo complesso e può estendersi
anche a posizioni lavorative che, al momento, non risultano comprese nel
trattamento di integrazione salariale, con la conseguenza che la prospettiva di
mobilità, rimettendo in discussione gli equilibri complessivi dell’azienda,
chiama necessariamente in discussione tutte le posizioni lavorative, senza che
sia configurabile, quindi, una necessaria coincidenza tra collocandi in
mobilità e lavoratori sospesi in cassa integrazione guadagni straordinaria,
coincidenza che neppure è imposta dall’art. 1, terzo comma, del decreto –
legge n. 478 del 1993, (conv. in legge 26
gennaio 1994, n. 56).Tuttavia, tale non (necessaria) coincidenza tra
lavoratori sospesi in cigs e destinatari della mobilità è condizionata al
verificarsi di sopravvenienze rispetto alle situazioni che determinarono
l’esubero del personale sospeso e alla presenza di dipendenti rimasti in
servizio con mansioni fungibili rispetto alle professionalità dei
cassintegrati, atteso che ai sensi del primo comma dell’art. 4 cit. la
procedura di mobilità opera innanzitutto per i lavoratori sospesi”.

La pronuncia richiamata non supporta la soluzione
interpretativa propugnata, in quanto essa ribadisce il principio secondo cui
l’ambito della verifica da effettuare per disporre il collocamento in mobilità
ex art. 4 della legge n. 223
del 1991 abbraccia l’impresa nel suo complesso e può estendersi anche a
posizioni lavorative non comprese nel trattamento di integrazione salariale
(Cass. n. 15993 del 2001; Cass. n. 11569 del 1997,
Cass. n. 9743 del 2001; Cass. n. 11455 del 2004).

E’ pur vero, come sottolinea il ricorrente, che ove
l’esigenza di collocamento in mobilità nasca nell’ambito dell’esecuzione del
programma di ristrutturazione elaborato in sede di cassa integrazione guadagni
straordinaria, la scelta dei lavoratori da licenziare deve essere in qualche
modo collegata alle esigenze produttive derivanti dall’esecuzione del
programma. Invero, questa Corte ha precisato che il principio del nesso di
causalità che deve intercorrere tra scelta organizzativa e le posizioni dei
lavoratori licenziabili vale, a maggior ragione, per la fattispecie del
licenziamento collettivo susseguente a cassa integrazione, ponendosi in linea
con quanto disposto dall’art.
4, comma 1, legge n. 223 del 1991, secondo cui l’impresa ha facoltà di
avviare la procedura di mobilità qualora, nel corso di attuazione del programma
di cassa integrazione, “ritenga di non essere in grado di garantire il
reimpiego a tutti i lavoratori sospesi” (cfr. Cass. n. 10591 citata).

Anche nel caso in cui si avvii la procedura di
mobilità a seguito di verifica della impossibilità di collocare i lavoratori
sospesi in cassa integrazione guadagni straordinaria, va, invero, applicato il
principio, ormai consolidato, secondo cui la comparazione dei lavoratori – al
fine di individuare quelli da avviare alla mobilità – non deve necessariamente
interessare l’intero complesso aziendale, ma può avvenire (secondo una
legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze
tecnico – produttive) nell’ambito della singola unità produttiva, purché,
peraltro, la predeterminazione del limitato campo di selezione sia giustificata
dalle suddette esigenze tecnico-produttive ed organizzative che hanno dato
luogo alla riduzione del personale; deve escludersi la sussistenza di dette
esigenze ove i lavoratori da licenziare siano idonei – per acquisite esperienze
e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti
dell’azienda con positivi risultati – ad occupare le posizioni lavorative di
colleghi addetti ad altri reparti o sedi (cfr., in particolare, Cass. n. 13783 del 2006).

Dunque, come anche recentemente ribadito da questa
Corte (cfr. Cass. n. 14800 del 2019 e ivi
numerosi rinvii), la delimitazione della platea dei lavoratori destinatari dal
provvedimento di messa in mobilità è condizionata agli elementi acquisiti in
sede di esame congiunto nel senso cioè che, ove non emerga il carattere
infungibile dei lavoratori collocati in CIGS o comunque in difetto di
situazioni particolari evidenziate sempre in sede di esame congiunto, la scelta
deve interessare i lavoratori addetti all’intero complesso.

Nel caso di specie, con accertamento insindacabile
in questa sede di legittimità, la Corte territoriale ha ritenuto che le
mansioni di addetta alla gestione documentale erano fungibili con le medesime
mansioni svolte dai lavoratori appartenenti alle altre sedi geografiche,
rendendo, dunque, palese l’assenza di quelle peculiarità che – secondo
l’orientamento giurisprudenziale evidenziato – consente la delimitazione della
platea dei lavoratori da licenziare nella singola unità produttiva individuata
dal datore di lavoro.

Va, infine, evidenziato che nessuna specifica
censura viene sollevata né con riguardo all’interpretazione del verbale di
mancato accordo con le organizzazioni sindacali né in relazione alla mancata
ammissione dei mezzi di prova richiesti dalla società. In particolare non può
ritenersi ammissibile nella presente sede di legittimità la censura (sviluppata
nell’articolazione del secondo motivo) concernente la mancata ammissione della
prova testimoniale dalla stessa articolata nel giudizio di merito poiché,
quando sia denunziato, con il ricorso per Cassazione, un vizio di motivazione
della sentenza sotto il profilo della mancata ammissione di un mezzo istruttorio,
è necessario che il ricorrente non si limiti a genetiche doglianze di erroneità
e/o di inadeguatezza della motivazione, ma precisi e specifichi, svolgendo
critiche concrete e puntuali seppure sintetiche, le risultanze e gli elementi
di giudizio dei quali lamenta la mancata acquisizione, evidenziando, in
particolare, in cosa consistessero e con quali finalità ed in quali termini la
richiesta fosse stata formulata; più in particolare, ove trattisi di una prova
per testi, è onere del ricorrente, indicare quale ne fosse la rilevanza e la
decisività (cfr. Cass. n. 26990 del 2005; Cass.
n. 12477 del 2002, Cass. n. 3380 del 2001): requisito quest’ultimo non solo non
precisato nel dedotto motivo di ricorso, ma insussistente ab imis in quanto non
costituiva certo circostanza decisiva il fatto che le attività di gestione
documentale seguissero procedure diverse a seconda del cliente trattato a
fronte dell’accertamento, da parte della Corte territoriale, dello svolgimento
– in tutte le sedi aziendali – di “attività di gestione documentale e di
Back Office specialistico nei settori Utilities e Finance”, attività che
“richiedono capacità e competenze professionali equivalenti e, come tali,
fungibili”.

Invero, l’interpretazione di questa Corte (da
ultimo, Cass. n. 27415 del 2018) ha chiarito come l’art.
360, primo comma, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n.
83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134,
abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per
Cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia).

Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non
integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il
fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione
dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

4. In conclusione, il ricorso va rigettato e le
spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.

5. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato previsto dal d.P.R.
30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il
ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro
200,00 per esborsi nonché in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre
spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il
ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 gennaio 2020, n. 981
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