Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 gennaio 2020, n. 1555

Riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro
– Primario parametro distintivo, Vincolo di soggezione del lavoratore al
potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro,
Accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento
della prestazione lavorativa, In subordine, indici sussidiari, quali assenza
di rischio economico, luogo e orario della prestazione, forma della
retribuzione, Valore indicativo e non determinante, Ricerca della volontà
delle parti, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale

 

Rilevato

 

che la Corte territoriale di Catania, con sentenza
depositata il 15.4.2015, riformando integralmente la pronunzia del Tribunale
della stessa sede n. 3210/2008, ha rigettato la domanda di A. C., nei confronti
di E. L. e D. R., diretta al riconoscimento della natura subordinata del
rapporto di lavoro intercorso tra le parti dal maggio 1998 al 17.3.2001, al
pagamento delle relative differenze retributive pretesamente spettanti secondo
le previsioni del CCNL lavoratori domestici, nonché l’indennità sostitutiva
delle ferie mai godute, la tredicesima mensilità ed il TFR, ed altresì quella,
nei confronti dell’INAIL, volta ad ottenere la costituzione della rendita a
seguito dell’infortunio sul lavoro verificatosi <<mentre prestava la
propria opera come giardiniere presso la villa del L. e della R.>>;

che per la cassazione della sentenza ricorre il C.
articolando un motivo, cui resistono con controricorsi D. R., in proprio e
quale erede di E. L. (deceduto nelle more del giudizio), e G. L., quale erede
di quest’ultimo, nonché L’INPS;

che sono state depositate memorie nell’interesse del
lavoratore; che il PG non ha formulato richieste;

 

Considerato

 

che, con l’unico motivo di ricorso, si deduce la
violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c.,
in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3,
c.p.c. e si deduce che la Corte di merito non avrebbe valutato gli elementi
c.d. sussidiari o complementari della subordinazione, commettendo, in tal modo,
un errore di qualificazione del rapporto di cui si tratta, al quale, a parere
del ricorrente, si sarebbe dovuto riconoscere, contrariamente alle conclusioni
cui è pervenuta la Corte territoriale, il connotato della subordinazione;

che il motivo non è fondato; ed invero, poiché i
giudici di seconda istanza hanno preso in considerazione gli elementi che
connotano la subordinazione e, dopo avere vagliato le risultanze istruttorie,
sono pervenuti, attraverso un percorso motivazionale del tutto coerente, ad
escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie. Al riguardo, è da
premettere che il caso all’esame ripropone la vexata quaestio della distinzione
tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato in una
fattispecie che, per alcuni versi, presenta dei connotati peculiari. Deve, del
resto, prendersi atto che oggi i due cennati tipi di rapporto non compaiono che
raramente nelle loro forme e prospettazioni “primordiali” e più
semplici, in quanto gli aspetti molteplici di una vita quotidiana e di una
realtà sociale in

continuo sviluppo e le diuturne sollecitazioni che
ne promanano hanno insinuato in ognuno di essi elementi per così dire
perturbatori che appannano, turbano, appunto, la primigenia simplicitas del
“tipo legale” e fanno dei medesimi, non di rado, qualcosa di ibrido
e, comunque, di difficilmente definibile.

Per cui la qualificazione sub specie di locatio
operis o locatio operarum e la sua sussunzione sotto l’uno o l’altro nomen
iuris diventa più delicata e richiede una più approfondita opera di
accertamento della realtà fattuale e di affinamento di quei momenti che la
teoria ermeneutica caratterizza come subtilitas explicandi e, soprattutto, come
subtilitas applicandi.

Soccorre, peraltro, in questa actio finium
regundorum tra lavoro autonomo e subordinato l’insegnamento della
giurisprudenza che, intervenendo con molta consapevolezza sul tema, ha dato
alla dibattuta questione una soluzione che può, nei principi, ormai dirsi
consolidata. E’ noto, difatti, che, secondo il richiamato e consolidato
insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’elemento essenziale di
differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo
di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare
del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente
compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
In particolare, mentre la subordinazione implica l’inserimento del lavoratore
nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a
disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale
assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l’oggetto
della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (opus): ex multis, e
già da epoca non recente, Cass. nn. 12926/1999;
5464/1997; 2690/1994; 4770/2003; 5645/2009,
secondo cui, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come
subordinato oppure autonomo, il primario parametro distintivo della
subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere
organizzativo del datore di lavoro, deve essere accertato o escluso mediante il
ricorso agli elementi che il giudice deve concretamente individuare dando
prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del
rapporto (cfr. pure, tra le molte, Cass. nn.
1717/2009, 1153/2013). In subordine, l’elemento tipico che contraddistingue
il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla subordinazione, intesa,
come innanzi detto, quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore
di lavoro, con assoggettamento alle direttive dallo stesso impartite circa le
modalità di esecuzione dell’attività lavorativa; mentre, è stato pure
precisato, altri elementi – come l’assenza del rischio economico, il luogo
della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione –
possono avere solo valore indicativo e non determinante (v. Cass. n. 7171/2003), costituendo quegli elementi,
ex se, solo fattori che, seppur rilevanti nella ricostruzione del rapporto,
possono in astratto conciliarsi sia con l’una che con l’altra qualificazione
del rapporto stesso (fra le altre – e già da epoca risalente – Cass. nn. 7796/1993; 4131/1984); ciò precisato,
è da aggiungere che, anche in ordine alla questione relativa alla
qualificazione del rapporto contrattualmente operata, sovviene l’insegnamento
della giurisprudenza di legittimità. Alla cui stregua, onde pervenire alla
identificazione della natura del rapporto come autonomo o subordinato, non si
può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l’altro
tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto
nell’esercizio della loro autonomia contrattuale: pertanto, quando i contraenti
abbiano dichiarato di voler escludere l’elemento della subordinazione, specie
nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l’uno
che con l’altro tipo di prestazione d’opera, è possibile addivenire ad una
diversa qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l’elemento della
subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto
medesimo (v., fra le molte, e già da epoca meno recente, Cass. nn.4220/1991; 12926/1999). Il nomen iuris eventualmente
assegnato dalle parti al contratto non è quindi vincolante per il giudice ed è
comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità
di adempimento della prestazione (Cass. n. 812/1993); al proposito, la Corte di
legittimità ha avuto, altresì, modo di ribadire che, ai fini della
individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro
distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso
mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in
concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo
svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla
conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua
interpretazione (ai sensi dell’art. 1362, secondo
comma, c.c.), ma anche ai fini dell’accertamento di una nuova e diversa
volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e
diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del
rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata; con la
conseguenza che, in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione
della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto
svolgimento, a questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente
nell’ambito di una richiesta di tutela formulata tra le parti del contratto
(Cass. nn. 4770/2003; 5960/1999). Del resto, come è stato osservato, il ricorso
al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto
altro angolo visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei
contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto
diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro. Più di recente,
con la sentenza n. 7024/2015, questa Corte ha
ribadito che gli indici di subordinazione sono dati dalla retribuzione fissa
mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l’orario di
lavoro fisso e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di
collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il
vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo,
direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione
della sua autonomia; l’inserimento nell’organizzazione aziendale.

E sul lavoratore che intenda rivendicare in giudizio
l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava l’onere di fornire gli
elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata (cfr., tra
le molte, Cass. n. 11937/2009);

che, tutto ciò premesso, deve osservarsi che, nella
fattispecie, la Corte di merito ha tenuto conto che il lavoratore non ha
fornito la prova relativa al requisito della eterodirezione; ha esaminato tutti
gli elementi qualificanti la subordinazione, quali enunciati dalla Corte di
legittimità, pervenendo (come innanzi già sottolineato) – attraverso la
delibazione dei punti di emersione probatoria ed alla luce dei richiamati,
costanti insegnamenti giurisprudenziali – con un iter motivazionale del tutto
coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie, dando
atto (v., in particolare, pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata) che,
<<dall’istruttoria espletata in primo grado, non emerge che il C.
osservasse un orario fisso e sempre uguale, anzi, dalle stesse dichiarazioni
dell’interessato (rese all’udienza del 12.7.2005) emerge che l’incidente,
prospettato quale infortunio sul lavoro, si è verificato intorno alle 8.00 di
un giorno in cui il C. era in ferie dall’altro lavoro che espletava alle
dipendenze di una ditta di pulizie, cioè in un orario di lavoro diverso da
quelli che si assumono osservati continuativamente; ciò che denota quella
libertà di organizzazione addotta dai presunti datori di lavoro a favore
dell’autonomia del rapporto. Né sono emersi altri elementi a supporto della
subordinazione, atteso che nessuno riferisce di direttive impartite
giornalmente, o di controllo della presenza o meno nel giardino del C. e del
lavoro svolto giornalmente. Le modalità di espletamento del rapporto, per cui
il C. decideva se, quando e con quali tempi occuparsi della cura del giardino
dei proprietari della villa, fanno propendere per un’obbligazione di risultato,
piuttosto che di mezzi, e tale prospettazione viene avvalorata dal fatto che il
compenso mensile fosse sempre uguale, a prescindere dal numero di ore lavorate
nel mese>>;

che, per tutto quanto esposto, il ricorso va
rigettato;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, in favore di R.
D. e L. G., in Euro 3.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, ed in favore
dell’INAIL, in Euro 3.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese
generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello
stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 gennaio 2020, n. 1555
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: