L’eccezione al divieto di licenziamento della lavoratrice madre opera solamente nell’ipotesi in cui sia cessata l’intera attività aziendale.

Nota a App. Firenze 16 ottobre 2019, n. 698

Francesco Belmonte

In tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento – dall’inizio della gravidanza e fino al compimento di un anno di età del figlio (art. 54, co. 3, lett. b, D.LGS. 26  marzo 2001, n. 151) – opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, “sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva  od analogica alle ipotesi di cessazione di un singolo reparto dell’azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale”, qualora una differente articolazione aziendale non sia cessata (anche ove i rapporti di lavoro siano sospesi in vista di una cessione a terzi del ramo).

A stabilirlo è la Corte di Appello di Firenze (16 ottobre 2019, n. 698), la quale, in linea con le statuizioni del Tribunale di Arezzo (29 marzo 2008) e della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 22720/2017 e n. 18363/2013), ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato ad una lavoratrice madre (ingegnere civile, “responsabile dell’area gestionale funzionale, incaricata di eseguire appalti con committenza pubblica e privata”) dipendente di una cooperativa dichiarata fallita.

Per i giudici di merito, il provvedimento espulsivo doveva ritenersi illegittimo perché posto in violazione del divieto di licenziamento della puerpera (sancito dall’art. 54, D.LGS. n. 151/2001), con conseguente condanna della società datrice alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro, oltre al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto (c.d. tutela reale “forte”, ex art. 18, co. 1-3, Stat. Lav.).

Come noto, l’art. 54, D.LGS. n. 151/2001 (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”) contempla le ipotesi in cui vige il divieto di licenziamento dei genitori lavoratori. In particolare, è vietato:

1) il licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino (co. 1);

2) il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte di entrambi i genitori (co. 6);

3) il licenziamento del lavoratore in caso di fruizione, in luogo della madre, del congedo di  paternità c.d. “sostitutivo” (art. 28, T.U.), per la durata del congedo stesso (co. 7), nonché in ogni caso fino al compimento di un anno di età del bambino.

Tuttavia, la legge prevede delle esimenti al divieto in parola, cioè delle fattispecie in cui il licenziamento, seppur intimato durante le ipotesi “protette”, risulta al contempo legittimo.

Ai sensi del co. 3 dell’art. 54, infatti, il divieto di licenziamento non trova applicazione in caso di:

– colpa grave della lavoratrice (o del lavoratore), costituente giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro (co. 3, lett. a));

– cessazione dell’attività dell’azienda (co. 3, lett. b));

– ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice (o il lavoratore) è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine (art. 54, co. 3, lett. c)) ;

– esito negativo della prova (co. 3, lett. d)).

Nel caso di specie, come correttamente rilevato dai giudici di primo grado, poiché il licenziamento era intervenuto nel corso del primo anno di nascita del figlio, doveva ritenersi violato il divieto legale, dal momento che non era stata dimostrata la cessazione dell’attività dell’azienda, ipotesi in cui il provvedimento espulsivo poteva ritenersi legittimo (art. 54, co. 3, lett. b)).

Secondo il Tribunale, infatti, alla data del licenziamento l’attività aziendale non era cessata né di fatto né di diritto, piuttosto la curatela del fallimento “aveva sospeso temporaneamente i cantieri in corso al momento dell’apertura della procedura ed i relativi rapporti di lavoro, iniziando attività finalizzate a trasferire i rami di azienda per dare continuità ai cospicui appalti da completare; quindi, non solo l’attività aziendale non era cessata, ma nemmeno era stata oggetto di procedure liquidatorie, dal momento che piuttosto la procedura aveva intrapreso attività conservative e di determinazione dei rami aziendali da cedere a terzi per la loro prosecuzione.”

Licenziamento della lavoratrice madre in seguito al fallimento della società
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