Il sistema delle tutele crescenti si applica in ipotesi limitate e circoscritte di conversione del contratto a termine.

Nota a Cass. 16 gennaio 2020, n. 823

Fabrizio Girolami

In caso di contratto di lavoro a tempo determinato stipulato prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D.LGS. n. 23/2015, meglio noto come “Jobs Act”) e convertito dal giudice in un contratto a tempo indeterminato successivamente a tale data, si applica – a favore del lavoratore – la (più favorevole) tutela reintegratoria/risarcitoria ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori (come modificato dalla legge n. 92/2012, cd. “legge Fornero”) e non il (più sfavorevole) regime delle cd. “tutele crescenti” istituito dal medesimo D.LGS. n. 23/2015 che, come noto, esclude la reintegrazione nel posto di lavoro, con applicazione di un mero indennizzo economico crescente con l’anzianità di servizio.

L’importante principio di diritto è stato affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza 16 gennaio 2020, n. 823 che ha sul punto risolto un significativo contrasto insorto presso la giurisprudenza di merito (Trib. Roma ord. 6 agosto 2018, n. 75870; Trib. Parma 18 febbraio 2019, n. 383) relativamente alla corretta interpretazione dell’art. 1, co. 2, del D.LGS. n. 23/2015, secondo cui le disposizioni del decreto medesimo “si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato (…) in contratto a tempo indeterminato”.

Nel caso di specie, un dipendente della Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia (di seguito, per brevità, “Fondazione”), assunto con contratto a termine prima del 7 marzo 2015, era stato licenziato per giusta causa per non avere dichiarato alla Fondazione l’instaurazione di un contestuale rapporto di lavoro subordinato con altra pubblica amministrazione (Banda dell’Esercito alle dipendenze del Ministero della Difesa), in occasione della riassunzione in servizio sulla base di una precedente sentenza giudiziale che aveva dichiarato la conversione a tempo indeterminato del rapporto per effetto di una illegittima successione di contratti a termine pregressi stipulati tra il dipendente e la Fondazione medesima.

Il lavoratore aveva impugnato il recesso intimato dalla Fondazione, chiedendo – nell’ambito del cd. “rito Fornero” – l’accertamento dell’illegittimità del recesso per “insussistenza del fatto contestato” per mancanza di rilevanza disciplinare e di disvalore giuridico e sociale.

In particolare, il dipendente aveva dedotto che – a seguito della sentenza giudiziale di conversione e del successivo invito a riprendere il servizio, formulato dalla Fondazione, aveva prontamente rassegnato le dimissioni presso l’altro datore di lavoro, rendendo di fatto la prestazione lavorativa a favore della sola Fondazione. Per l’effetto, il lavoratore aveva richiesto la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18, co. 4, Stat. Lav. (come modificato dall’art. 1, co. 42, L. n. 92/2012), ritenendo pertanto non applicabile la tutela indennitaria (e non reintegratoria) di cui all’art. 2, D.LGS. n. 23/2015.

Il giudice di primo grado – sia nella fase sommaria che di opposizione – e, successivamente, la Corte d’Appello di Roma avevano accolto le domande del dipendente, rigettando la tesi sostenuta dalla Fondazione relativa all’applicabilità del Jobs Act alle ipotesi di conversione giudiziale del rapporto di lavoro a tempo determinato intervenute dopo il 7 marzo 2015.

La Cassazione, nel pronunciarsi sul ricorso proposto dalla Fondazione, ha operato un’interpretazione costituzionalmente orientata della sopra citata disposizione (art. 1, co. 2, D.LGS. n. 23/2015), sulla base del criterio direttivo della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, che ha delegato il Governo a prevedere, per le nuove assunzioni operate a far data dal 7 marzo 2015, l’istituzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, con l’obiettivo di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”.

Secondo il giudice di legittimità è necessario “operare un’interpretazione della norma in esame che sia rigorosamente circoscritta alle ipotesi tassativamente stabilite, al fine di assicurare il rispetto dei limiti della delega”.

In particolare, la Cassazione rileva che i lavoratori assunti con contratto a termine prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015 (id est prima del 7 marzo 2015) con rapporto di lavoro giudizialmente convertito a tempo indeterminato successivamente a tale data (id est dopo il 7 marzo 2015) non possono in alcun modo essere considerati “nuovi assunti”.

A tale riguardo, la sentenza in commento ribadisce quanto già affermato dalla Cassazione con sentenza 26 marzo 2019, n. 8385, secondo cui – in tema di contratti di lavoro a tempo determinato – la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore, ha natura “dichiarativa” e “non costitutiva”. Ne consegue che la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato opera con effetto “ex tunc” a decorrere dall’illegittima stipulazione del contratto a termine.

Inoltre, secondo la Corte, ogni diversa interpretazione della norma per cui la conversione in esame sarebbe soggetta al regime delle “tutele crescenti” introdotto dal Jobs Act comporterebbe “un’evidente quanto irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori egualmente assunti a tempo determinato prima della sua introduzione ma con la conversione del rapporto, per nullità del termine, in uno a tempo indeterminato in base a sentenze emesse tuttavia, per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà, talune prima, altre dopo tale data”.

Al fine di dirimere ulteriori contrasti interpretativi, la Cassazione individua – per contro – i casi di conversione in cui, a fronte di contratti a termine stipulati prima del 7 marzo 2015 e giudizialmente convertiti dopo tale data, si applica esclusivamente la tutela indennitaria prevista dal Jobs Act, con esclusione della tutela reintegratoria:

a) conversione “volontaria” o “negoziale” (id est non la conversione giudiziale ma la “trasformazione” pattizia del contratto), per effetto di una manifestazione di volontà delle parti successiva al 7 marzo 2015, con effetto novativo;

b) ipotesi di conversione giudiziale relative a contratti a termine stipulati anteriormente al D.LGS. n. 23/2015 e nella vigenza del precedente D.LGS. n. 368/2001 (ora abrogato dal D.LGS. n. 81/2015) che producano i loro effetti di conversione dopo il 7 marzo 2015, in quanto è successivo il vizio che li colpisce, quali:

  • continuazione del rapporto di lavoro oltre 30 giorni (in caso di contratto di durata inferiore a 6 mesi) ovvero oltre 50 giorni (in caso di contratto di durata superiore a 6 mesi), qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015;
  • mancato rispetto delle clausole “stop and go”, ovverosia in caso di riassunzione effettuata entro 10 giorni dalla scadenza del primo contratto a termine (qualora il contratto a termine sia di durata inferiore a 6 mesi) ovvero entro 20 giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a 6 mesi), qualora il secondo contratto sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015;
  • superamento “per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti” nel “rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore … complessivamente” dei 36 mesi (oggi 24 mesi) “comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro”, sicché “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato”, qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015.
Contratti a termine convertiti dopo il 7 marzo 2015: inapplicabile il regime delle “tutele crescenti”
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