Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 gennaio 2020, n. 2234

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Soppressione
della posizione lavorativa, Mutamento dell’assetto organizzativo per la più
economica gestione dell’impresa, Non necessario che vengano soppresse le
mansioni già assegnate al dipendente licenziato, Possibile diversa
ripartizione delle mansioni tra altri soggetti, lavoratori dipendenti o non
dell’impresa

Fatti di causa

1. Con sentenza n. 19661/2014 il Tribunale di
Napoli, in funzione di giudice del lavoro, rigettava la domanda di I. L. volta
a far dichiarare l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo intimatole dal suo datore di lavoro, Istituto S.O.B., ente morale di
pubblica istruzione, con nota datata 7.7.2009, con ogni conseguenziale
pronuncia reintegratoria e risarcitoria, nonché ad ottenere il risarcimento di
diverse voci di danno conseguenti alla allegata condotta datoriale di
demansionamento e successiva espulsione dal lavoro posta in essere fin
dall’agosto 2007.

2. Avverso la citata sentenza la lavoratrice
proponeva impugnazione dinanzi alla Corte di appello di Napoli. L’Istituto
appellato si costituiva per resistere al gravame.

3. Con sentenza pubblicata il 30.11.2017 la Corte di
appello di Napoli accoglieva 
parzialmente l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, annullava
il licenziamento litigioso ordinando la reintegra della lavoratrice nel posto
di lavoro, condannando l’Istituto appellato al risarcimento del danno in favore
della L., commisurato alla retribuzione globale di fatto maturata e non
percepita dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegra nel
posto di lavoro e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali
dovuti dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, e
condannando altresì l’Istituto datore di lavoro al pagamento, in favore della
lavoratrice, della somma di euro 31.718,00, a titolo risarcitorio per danno
biologico e morale, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali dal
settembre 2009 alla data della sentenza e ulteriori interessi legali dalla data
della stessa sentenza al saldo effettivo. Veniva rigettata la domanda della
lavoratrice relativamente al risarcimento di altre voci di danno.

L’Istituto appellato veniva condannato alle spese
del doppio grado di giudizio, mentre quelle della CTU erano poste a carico
delle parti in solido.

4. La Corte territoriale riteneva non genuina la
soppressione della posizione lavorativa 
della L., consistente in mansioni di dirigenza scolastica, dato che le
mansioni in discorso non erano state soppresse, ma piuttosto affidate ad altro
docente, R. C., per cui la posizione lavorativa continuava ad essere operativa.
La Corte di appello osservava che, ferma restando l’insindacabilità della
scelta della scuola di tornare al modello di Scuola Verticale, dopo circa un
anno dalla decisione di differenziare la dirigenza della scuola media da quella
della materna ed elementare, era da ritenersi priva di giustificazione la
scelta di attribuire le funzioni formalmente “vicarie”, ma in realtà
dirigenziali, per la scuola media a una docente, la C., avente una qualifica
inferiore (V), che veniva contestualmente esonerata dai compiti di
insegnamento. Si doveva ritenere perciò che le mansioni della L. non erano
state soppresse, quanto piuttosto attribuite ad altro soggetto, il cui compito
formalmente vicariale non sarebbe comunque valso a giustificare il recesso,
avendo l’Istituto l’onere di prospettare alla L. la possibilità di un impiego
in tale qualità. La Corte territoriale affermava il principio secondo il quale
in caso di recesso per giustificato motivo oggettivo sul datore di lavoro
incombe l’onere della prova della ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali
vi è l’impossibilità del repéchage. Il giudice di appello riteneva poi
accertato il demansionamento della lavoratrice, con le conseguenze risarcitorie
di cui si è detto.

5. Avverso la sentenza della Corte di appello di
Napoli l’Istituto datore di lavoro propone ricorso per cassazione affidato a
nove motivi illustrati da memoria.

I. L. resiste con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il ricorso è parzialmente fondato.

2. Con il primo motivo l’Istituto ricorrente
denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 legge n. 604 del 1966,
con riferimento alla allegata erronea interpretazione ed applicazione della
nozione legale di “giustificato motivo oggettivo”. Il ricorrente
opina che, nel riferirsi al “giustificato motivo oggettivo”, l’art. 3 in discorso si
atteggerebbe come “norma elastica” (clausola generale), che quindi,
secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, ha bisogno
di essere specificata in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di
fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa
disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo
hanno natura giuridica e la loro violazione o mancata applicazione è, quindi,
denunciabile in sede di legittimità.

Citando numerose decisioni di questa Corte (n. 10435 del 2018, n.
13516 del 2016, n. 10699 del 2017, n. 24882 del 2017, n.
29238 del 2017, n. 13015 del 2017, n. 4015 del 2017, n.
10699 del 2017, n. 13516 del 2016, 29238 del 2017, n.
24882 del 2017, n. 19655 del 2017, 25201 del 2016, n.
19185 del 2016), l’Istituto S.O.B. fa valere che i principi in materia sono
stati fissati come segue. Rientra nel concetto di giustificato motivo oggettivo
di licenziamento qualsiasi mutamento dell’assetto organizzativo, ivi compresa
l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione
dell’impresa, da cui derivi la soppressione di una individuata posizione
lavorativa, senza che sia necessario che vengano soppresse le mansioni già
assegnate al dipendente licenziato, ben potendo le stesse essere anche solo
diversamente ripartite tra altri soggetti (siano essi lavoratori dipendenti o
non della stessa impresa). Le scelte organizzative dirette a una migliore
efficienza gestionale o anche a un incremento della redditività dell’impresa
che abbiano comportato la soppressione del posto di lavoro non possono essere
sindacate quanto ai profili di congruità e opportunità. Il licenziamento deve
porsi in termini di riferibilità e coerenza rispetto all’operato riassetto
organizzativo e, pertanto, quest’ultimo deve essere all’origine del
licenziamento e non costituirne effetto di risulta. Tali principi sarebbero
stati disattesi dalla Corte territoriale.

3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la
violazione e/o la falsa applicazione degli art. 41
della Costituzione e 30 della
1. n. 183 del 2010, ai sensi dell’art. 360, comma
1, n. 3 cod.proc.civ. Le norme invocate sarebbero state violate perché la
Corte territoriale non si sarebbe limitata a verificare l’effettività della
riorganizzazione aziendale e la sussistenza del nesso causale di quest’ultima
con la soppressione della posizione lavorativa della L., ma avrebbe finito per
sindacare nel merito nei suoi profili di opportunità e congruità la scelta
adottata dall’Istituto di accorpamento delle funzioni.

4. Con il terzo motivo l’Istituto si duole di nuovo
della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966
con riferimento alla violazione dell’obbligo di repéchage.

5. Con il quarto motivo si deduce l’omesso esame di
un punto decisivo del giudizio oggetto di discussione tra le parti, in
relazione alla, ritenuta dalla Corte di merito, violazione dell’obbligo di
repéchage, per non aver offerto l’Istituto, anche per l’anno scolastico
2009/2010, l’incarico di docenza alla L. presso il Liceo d’Arte.

6. Con il quinto motivo il ricorrente si duole della
violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli art. 115, comma 1, e 416,
comma 3, cod.proc.civ., in relazione alla affermata “non
contestazione” da parte dell’Istituto della dedotta, ex adverso,
effettuazione di nuove assunzioni, ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.

7. Con il sesto motivo l’Istituto denuncia l’omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, in relazione alla, ritenuta dalla Corte di merito,
violazione dell’obbligo di repéchage in considerazione dell’assegnazione
dell’incarico di docenza, per l’anno scolastico 2009/2010 “ad altro
docente”, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n.
5 cod.proc.civ. Attribuendo alla L. l’incarico part-time per un anno in
ossequio agli accordi sindacali 
l’Istituto non aveva tolto l’incarico al titolare, Prof. D.G., come
emerge dalle stesse affermazioni della lavoratrice, titolare che quindi ha
ripreso naturalmente l’insegnamento l’anno successivo.

8. Con il settimo motivo il ricorrente lamenta la
violazione e/o falsa applicazione degli art. 414
cod.proc.civ. e 2103 cod.civ. in relazione
all’affermata sussistenza di un demansionamento ai danni della L., ai sensi
dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ. Si
fa valere da una parte che la domanda era generica, per cui la Corte di merito
non avrebbe potuto pronunciare sul punto e, dall’altra, che sarebbe stato
violato l’art. 2103 cod.civ. nella sua nuova
formulazione, risultante dall’entrata in vigore dell’art. 3 del D.lgs. n. 81 del 2015.

9. Con l’ottavo motivo il ricorrente lamenta la
violazione degli art. 115, comma 1, e 416, comma 3, cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, comma 1, cod.proc.civ. per avere la
Corte di merito ritenuto sussistente il demansionamento anche in virtù della
“mancata attribuzione di alcuna ulteriore mansione di studio”.

10. Con il nono motivo l’Istituto denunzia l’omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 5 cod.proc.civ. in relazione alla condanna dell’Istituto al
risarcimento del danno biologico e morale.

11. I primi sei motivi, relativi alla statuizione
della sentenza impugnata sull’illegittimità del licenziamento possono essere
esaminati congiuntamente.

12. In effetti, la detta statuizione è sorretta da
due autonome ragioni del decidere, l’una basata sulla ritenuta non genuinità
della soppressione del posto di lavoro occupato dalla resistente e l’altra
sull’accertamento del mancato assolvimento dell’obbligo di repéchage da parte del
datore di lavoro.

13. Ritiene il Collegio, come subito si vedrà, che
la prima ragione del decidere della sentenza impugnata viene efficacemente
censurata dai due primi motivi del ricorso, ma questo non è sufficiente per
giungere alla cassazione della stessa sul punto, giacché lo stesso non può
dirsi delle doglianze da tre a sei, inerenti al ritenuto mancato assolvimento
dell’obbligo di repéchage, doglianze queste ultime che sono invece da
respingere.

14. In ordine ai primi due motivi di ricorso, essi
correttamente pongono in luce l’erroneità della sentenza impugnata, che non ha
correttamente applicato i principi elaborati dalla consolidata giurisprudenza
di questa Corte e richiamati nel ricorso, principi secondo i quali rientra nel
concetto di giustificato motivo oggettivo di licenziamento qualsiasi mutamento
dell’assetto organizzativo, ivi compresa l’ipotesi di riassetto organizzativo
attuato per la più economica gestione dell’impresa, da cui derivi la
soppressione di una individuata posizione lavorativa, senza che sia necessario
che vengano soppresse le mansioni già assegnate al dipendente licenziato, ben
potendo le stesse essere anche solo diversamente ripartite tra altri soggetti
(siano essi lavoratori dipendenti o non della stessa impresa). Le scelte organizzative
dirette a una migliore efficienza gestionale o anche a un incremento della
redditività dell’impresa che abbiano comportato la soppressione del posto di
lavoro non possono essere sindacate quanto ai profili di congruità e
opportunità. Il licenziamento deve porsi in termini di riferibilità e coerenza
rispetto all’operato riassetto organizzativo e, pertanto, quest’ultimo deve
essere all’origine del licenziamento e non costituirne effetto di risulta.

15. In effetti tali principi non sono stati seguiti
dalla Corte territoriale, che si è basata sulla circostanza che non vi sarebbe
stata una soppressione delle mansioni affidate alla L., continuando piuttosto
le stesse a persistere nell’organizzazione aziendale.

16. L’istituto fa valere con il primo motivo che,
dopo la separazione, per l’anno scolastico 2007/2008 della direzione della
scuola media da quella elementare e materna, in precedenza affidata, per tutte
e tre le scuole, alla L., di fronte al persistere di una situazione di crisi,
si decideva, a partire dall’anno successivo, 2008/2009, di accorpare sia le
scuole di grado inferiore sia le scuole di grado superiore rispettivamente in
un Istituto Comprensivo e in un Istituto Superiore Polispecialistico, con
conseguente soppressione della dirigenza e delle specifiche attività di
supporto relative alla scuole materne, scuole elementari, scuole medie nonché
ai tre licei dell’Istituto. Il tutto con affidamento della presidenza di
entrambi gli Istituti al docente L.d’A.. Per effetto di tale riorganizzazione,
la scuola media, prima diretta dalla L. è stata inglobata nell’Istituto
Comprensivo e le residue mansioni di Preside sono state accorpate alle mansioni
del docente d’A., non essendo ormai più giustificata un’autonoma e distinta
figura di Preside preposto in via esclusiva alla direzione delle relative
attività. Le residue funzioni direttive dell’Istituto Comprensivo vennero
dunque avocate dal d’A., “coadiuvato dalla Prof.ssa C., già docente
titolare di un proprio insegnamento che, in caso di necessità, svolgeva un
ruolo “vicario”.

In base ad accordi con le organizzazioni sindacali
era stato offerto alla L. un incarico per un anno di insegnamento settimanale
di otto ore, oltre a “compiti di studio”, mantenendo la stessa nella
medesima posizione giuridica e con il medesimo trattamento economico.

17. La norma sarebbe dunque stata male applicata
perché si trattava di semplice redistribuzione delle funzioni a fronte di una
genuina ristrutturazione.

18. Quanto al secondo motivo, le norme invocate
sarebbero state violate perché la Corte territoriale non si sarebbe limitata a
verificare l’effettività della riorganizzazione aziendale e la sussistenza del
nesso causale di quest’ultima con la soppressione della posizione lavorativa
della L., ma avrebbe finito per sindacare nel merito nei suoi profili di
opportunità e congruità la scelta adottata dall’Istituto di accorpamento delle
funzioni.

19. Entrambi i profili sono fondati, perché
effettivamente la Corte territoriale, pur riconoscendo la genuinità della
ristrutturazione insindacabilmente decisa dall’Istituto, finisce per ingerirsi
nelle scelte organizzative dello stesso Istituto relative alla ripartizione
delle mansioni inerenti al posto soppresso, affermando (pag. 3 della sentenza
impugnata) che la scelta della persona cui affidare le funzioni vicarie di
presidenza per la Scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di secondo grado
(materna, elementare e media) “non poteva che ricadere sulla L.”. Ciò
in violazione dei principi richiamati.

20. Non sono però fondate, secondo il Collegio, le
doglianze che si riferiscono al mancato assolvimento da parte dell’Istituto
datore di lavoro dell’obbligo di repéchage.

21. Anche i motivi da tre a sei, per la loro
connessione, possono essere esaminati congiuntamente, riguardando essi diversi
profili inerenti a quest’ultima questione.

22. Sotto un primo profilo l’Istituto ricorrente,
pur riconoscendo che la giurisprudenza di questa Corte si è oramai attestata
sulla posizione secondo cui l’onere della prova sull’impossibilità della
ricollocazione del lavoratore licenziando per giustificato motivo oggettivo,
invita il Collegio, invocando in particolare il precedente costituito dalla sentenza di questa Corte n. 9467 del 2016, a non
intendere la regola in modo rigido, dovendosi esigere dal lavoratore che
impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile
repéchage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei
quali egli poteva essere utilmente ricollocato, conseguendo a tale allegazione
l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti
predetti.

23. In effetti, proprio a partire dal 2016, la
giurisprudenza di questa Corte si è consolidata, con orientamento cui il
Collegio intende dare continuità, sul principio secondo il quale l’onere della
prova sull’impossibilità del repéchage è posto a carico della parte datoriale,
con esclusione di ogni incombenza, anche solo in via mediata, a carico del
lavoratore. L’attuale orientamento ha riconosciuto nel precedente approdo
giurisprudenziale, che per l’appunto preconizzava una divaricazione tra onere
di allegazione e onere probatorio, una sostanziale ed illegittima inversione
dell’onere probatorio. In effetti, secondo l’indirizzo il cui ritorno viene
invocato dall’Istituto ricorrente, l’onere di allegazione veniva addossato ad
una delle parti in lite e l’onere probatorio all’altra, in contrasto con i
principi di diritto processuale secondo cui tali oneri (di allegazione e prova)
non possono che incombere sulla medesima parte. Infatti, chi ha l’onere di
provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo,
modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa
compiuta allegazione (Cass. n. 160 del 2017;
v. anche Cass. n. 24882 del 2017; Cass. n. 618 del 2017; Cass n. 12101 del 2016; Cass. n. 5592 del 2016). Inoltre, con il nuovo
orientamento questa Corte ha riconosciuto valido il ragionamento logico secondo
cui l’opzione ermeneutica che configura a carico del prestatore di lavoro
l’onere di segnalare una sua possibilità di ricollocazione nell’ambito
dell’assetto organizzativo aziendale non appare coerente con la lettera e la
ratio dell’art. 5 della L. n.
604/1966, secondo cui l’onere della prova circa l’impossibilità ad adibire
il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza è posto a
carico della parte datoriale, con esclusione di ogni incombenza, anche solo in
via mediata, a carico del lavoratore (Cass. n. 160
del 2017, cit.).

24. Detto questo, spetta evidentemente al giudice di
merito la valutazione dell’assolvimento o meno da parte del datore di lavoro
dell’onere probatorio relativamente all’impossibilità della ricollocazione del
lavoratore.

25. Sul punto la sentenza impugnata ha osservato che
nel settembre 2008 l’Istituto aveva provveduto a plurime assunzioni e,
nell’anno scolastico 2009/2010, aveva assegnato ad altro docente l’insegnamento
conferito alla L. nell’anno scolastico precedente; inoltre nessuna prova era
stata data, da parte dell’Istituto, in ordine a specifiche offerte lavorative
alternative, risultate non gradite alla L., ritenendo generica la deduzione
difensiva di un rifiuto opposto dalla lavoratrice alla proposta di un incarico
diverso da quello di Preside, tra l’altro riferito al luglio 2007, mentre
l’accettazione da parte della stessa di un incarico di docenza dà all’evidenza
conto della volontà della stessa di rimanere nell’ambito dell’Istituto.

26. Si tratta di un accertamento in fatto che ad
avviso del Collegio non viene adeguatamente censurato nel ricorso.

27. Il ricorrente deduce in primo luogo, nel terzo e
nel quinto motivo, che sarebbe erronea l’affermazione della Corte territoriale
secondo cui l’assunzione di nuovo personale docente sarebbe incontestata,
giacché la contestazione vi sarebbe stata, per cui sarebbero stati violati gli art. 115, comma 1, e 416,
comma 3, cod.proc.civ.

Viene riportato il punto n. 45 della memoria di
costituzione in primo grado, nel quale la deduzione avversaria circa le nuove
assunzioni viene contestata, trattandosi di semplici avvicendamenti o supplenze
per discipline specifiche non aventi nulla a che vedere né con il ruolo di
preside né con le materie di insegnamento della L.. Si deve qui convenire con
la parte resistente, che sottolinea la genericità di questa contestazione, tra
l’altro relativa a un passaggio incidentale della motivazione della sentenza
impugnata, quindi non idonea ad inficiarne la conclusione circa il mancato
assolvimento dell’onere probatorio da parte datoriale.

28. L’Istituto insiste poi sulla validità
dell’offerta lavorativa del 2007. Si tratta qui di questione di puro fatto,
inammissibilmente riproposta in questa sede.

29. Con il quarto motivo poi, in particolare, si
deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto discussione
tra le parti, cioè l’accordo sindacale dal quale si ricaverebbe l’impossibilità
di adibire la controricorrente all’incarico che costei ricopriva all’atto del recesso.
In realtà l’accordo conteneva l’impegno della scuola ad evitare licenziamenti
per l’anno in corso, ma certamente non fornisce la prova che l’incarico
d’insegnamento affidato alla L. non fosse disponibile per l’anno successivo.
Come condivisibilmente osserva la controricorrente, è vero che l’accordo non
comprendeva l’impegno a ricollocarla l’anno successivo, ma l’obbligo di
ricollocazione nei limiti delle disponibilità dipende dalla legge e non
dall’accordo. Manca quindi la decisività della circostanza invocata.

30. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia
ulteriormente, in particolare, l’omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio oggetto discussione tra le parti, questa volta perché la Corte
territoriale non avrebbe considerato che conferendo alla L. l’incarico a tempo
parziale per un anno in ossequio agli accordi sindacali l’Istituto non aveva
tolto l’incarico al titolare, Prof. D.G., come emerge dalle stesse affermazioni
della lavoratrice, titolare che quindi ha ripreso naturalmente l’insegnamento
l’anno successivo. Anche qui, l’invocata circostanza manca di decisività,
perché non riferita all’ambito temporale pertinente, cioè l’anno scolastico
successivo a quello del licenziamento, cioè 2009/2010.

31. I motivi da tre a sei sono quindi da rigettare.

32. Il Collegio ritiene invece fondato il settimo
motivo ricorso, relativo al demansionamento.

33. Non ritiene la Corte di dover seguire l’Istituto
ricorrente nella sua tesi secondo cui la domanda della lavoratrice sarebbe
stata generica, giacché emerge dagli atti come essa sia stata ritualmente
proposta e analiticamente dettagliata (nei punti da 3 a 17 e da 34 a 51 della
narrativa del ricorso introduttivo, riportata nel controricorso).

34. Nemmeno è accoglibile la tesi del ricorrente per
cui dovrebbe applicarsi l’art. 2103 cod.civ.
nella sua nuova formulazione, risultante dall’entrata in vigore dell’art. 3 del D.lgs. n. 81 del 2015,
norma che non contiene alcuna disposizione di natura retroattiva e nemmeno di
diritto intertemporale.

35. Detto questo, e restando nell’ambito normativo
di cui all’art. 2103 cod.civ. nel testo
antecedente alla modifica del 2015, testo applicabile ratione temporis, il
Collegio ritiene che il motivo sia fondato in quanto, secondo i principi
elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, giurisprudenza alla quale si
intende dare continuità, la richiamata disposizione consente l’adibizione a
mansioni inferiori, ove configurata dal datore di lavoro come alternativa al
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che tale circostanza
sia oggettivamente riscontrabile. Da ultimo, confermando questo orientamento
(Cass. n. 5621 del 2019 (ord.)), questa Corte ha affermato che è legittimo il
patto di demansionamento, pur anteriormente alla riformulazione dell’art. 2103 c.c. disposta dal d.lgs. n. 81 del 2015, in presenza di condizioni
tali da legittimare il licenziamento del lavoratore in mancanza di accordo,
purché il consenso sia stato espresso liberamente, sebbene in forma tacita ma
attraverso fatti univocamente attestanti la volontà del lavoratore di aderire
alla modifica in peius delle mansioni.

36. Nella fattispecie, come condivisibilmente
osserva l’Istituto ricorrente, è la stessa sentenza impugnata, in un passo già
sopra ricordato, a sottolineare la volontarietà dell’accettazione da parte
della lavoratrice dell’incarico d’insegnamento in questione, quale alternativa
al licenziamento, quando osserva che “Del resto l’assunzione, da parte
della L., del minor incarico di docenza per l’a.s. 2008/2009 dà, all’evidenza,
conto di una volontà della stessa di rimanere nell’ambito dell’Istituto appellato.”
(pag. 4 della sentenza della Corte territoriale).

37. Ne segue che la statuizione della sentenza
impugnata relativa al ritenuto illegittimo demansionamento della lavoratrice si
pone in contrasto con l’art. 2103 cod.civ., il
che comporta raccoglimento del motivo in esame. Restano assorbiti, per evidenti
ragioni, gli ulteriori motivi ottavo e nono, sempre attinenti al
demansionamento.

38. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata
in relazione al motivo accolto.

39. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di
fatto, la Corte può decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, cod.proc.civ.

40. La domanda di risarcimento del danno da
demansionamento proposta dalla lavoratrice va dunque rigettata.

41. La parziale reciproca soccombenza giustifica la
compensazione per metà delle spese dell’intero processo, ponendo la residua
metà a carico dell’Istituto ricorrente, spese liquidate per l’intero in
dispositivo, con attribuzione agli avvocati P.T. e G.M., antistatari.

 

P.Q.M.

 

accoglie il settimo motivo di ricorso, assorbiti
l’ottavo e il nono e rigettati gli altri. Cassa la sentenza impugnata in
relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda
concernente il risarcimento del danno da demansionamento. Compensa per metà le
spese dell’intero processo, ponendo la residua metà a carico dell’Istituto
ricorrente, spese liquidate, per l’intero, in euro 200 per esborsi, 2.500,00
per il primo grado, 3.500,00 per il secondo grado e 4.500,00 per il giudizio di
legittimità per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori
di legge, con attribuzione agli avvocati P.T. e G.M., antistatari.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 gennaio 2020, n. 2234
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