La collaborazione dei professionisti del food delivering, a metà tra autonomia e subordinazione, è inquadrabile nelle collaborazioni organizzate dal committente, previste dall’art. 2, D. Lgs. n. 81/2015.

Nota a Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663

Gennaro Ilias Vigliotti

Il principio di diritto.

I lavoratori del settore food delivering, e specificamente i c.d. riders – cioè il personale che si occupa della consegna programmata, tramite strumenti propri di locomozione, di ordini di prodotti da ristorazione e simili – rientrano nel campo di efficacia dell’art. 2 del D. LGS. n. 81/2015 («Collaborazioni organizzate dal committente»), secondo il quale, nella versione precedente alla novella del 2019, «si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». In applicazione di tale norma, dunque, ai lavoratori in questione deve essere riconosciuto tutto l’apparato di tutele previsto per il lavoro subordinato come, ad esempio, il diritto a ricevere la retribuzione stabilita dai contratti collettivi dei settori merceologici che contemplano la loro professionalità e le loro funzioni lavorative (che, nel caso di specie, è quello del settore merci, trasporti e logistica).

La controversia giudiziaria.

Il principio appena espresso è stato di recente affermato dalla Corte di Cassazione (sentenza 24 gennaio 2020, n. 1663), che ha conosciuto, per la prima volta, la controversa vicenda giudiziale dei riders di un noto brand di food delivering, i quali avevano chiesto al Tribunale di Torino l’accertamento della natura subordinata dei rapporti di lavoro instaurati in funzione di formali contratti di collaborazione coordinata e continuativa, ai sensi dell’art. 409, n. 3, c.p.c. Il giudice di primo grado aveva rigettato tutte le domande, affermando la piena legittimità delle collaborazioni autonome prestate dai lavoratori nell’interesse dell’impresa (v. Trib. Torino 7 maggio 2018, n. 778, annotata in questo sito da A. LARDARO, I riders di Foodora non possono essere considerati lavoratori subordinati).

I riders, dunque, avevano impugnato tale decisione e la Corte d’Appello di Torino, con la sentenza 4 febbraio 2019, n. 26, pur confermando che i rapporti di lavoro non si erano svolti secondo le modalità tipiche della subordinazione (ex art. 2094 c.c.), aveva individuato i presupposti per l’applicazione dell’art. 2 del D.LGS. n. 81/2015 – come richiesto in via subordinata già nel giudizio di prime cure –, riconoscendo così ai ricorrenti le tutele del lavoro subordinato e, quindi, le differenze retributive emergenti dall’applicazione del ccnl merci, trasporti e logistica (5° livello). Erano state invece rigettate le domande di reintegrazione, poiché non vi era stato alcun provvedimento datoriale di estinzione dei rapporti assimilabile ad un licenziamento, e le collaborazioni si erano concluse per naturale scadenza del termine previsto.

A convincere la Corte circa la sussistenza dei requisiti dell’art. 2 summenzionato sono state essenzialmente le modalità concrete di esecuzione della prestazione di consegna degli ordini. In particolare, l’azienda pubblicava su apposita piattaforma digitale le fasce orarie disponibili per le consegne, con l’indicazione del numero previsto di riders necessari per dar seguito alla domanda di cibo, ed i singoli collaboratori potevano selezionare quella di preferenza. Una volta effettuata la scelta, il rider era tenuto a raggiungere un centro di hub, cioè un punto di partenza predefinito e fissato dalla società, dove attivare il dispositivo che consente la connessione digitale con il sistema degli ordini e la geolocalizzazione del lavoratore (c.d. dispositivo “Hurrier”). Fatto ciò, gli adempimenti successivi del collaboratore erano tutti vincolati: ricezione dell’ordine, accettazione, presentazione al ristorante, controllo di conformità, consegna al cliente finale. Adempimenti, quest’ultimi, che hanno convinto la Corte a riconoscere l’etero-organizzazione richiesta proprio dall’art. 2, D.LGS. n. 81/2015.

Contro la decisione d’appello ha proposto ricorso per Cassazione la società soccombente, deducendo quattro distinti motivi: a) falsa applicazione dell’art. 2 richiamato, nella parte in cui la Corte ha considerato tale disposizione come norma di fattispecie, in grado di costituire un tertium genus tra lavoro autonomo e lavoro subordinato: in realtà, secondo la società, si tratterebbe di “norma apparente”, cioè di norma che nulla aggiunge a quanto già ricavabile dagli artt. 2094 c.c. e 409 c.p.c. in materia di subordinazione ed autonomia; b) contraddizione insanabile nella motivazione adottata, nella parte in cui si giunge alla sussunzione della fattispecie concreta nell’art. 2 partendo da presupposti che avrebbero invece dovuto inequivocabilmente condurre all’esclusione dell’applicazione di tale ultima norma al caso di specie; c) erronea applicazione diretta dell’art. 2, D.LGS. n. 81/2015; d) incostituzionalità di tale ultima disposizione, nella parte in cui, in quanto norma di fattispecie, violerebbe la Legge delega n. 183/2014, che non autorizzava il legislatore delegato ad aggiungere forme di lavoro, ma solo a riorganizzarle.

Le motivazioni della Cassazione.

La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza d’appello, rigettando tutti i motivi della società ricorrente sopra esposti. In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che l’art. 2, D.LGS. n. 81/2015, va inquadrato come norma di disciplina, a carattere preventivo e rimediale, volta a garantire un impianto di tutele stabili a quelle forme di lavoro che, come nel caso dei riders, possiedono elementi a metà tra autonomia e subordinazione.

Si tratta dunque di una disposizione che, a differenza di quanto affermato dalla Corte d’Appello, non crea un tertium genus tra subordinazione e autonomia, ma che, nel complessivo quadro di riforma del mercato e dei contratti di lavoro attuato con il c.d. “Jobs Act”, ha inteso dare seguito ad una chiara opzione: rendere la disciplina (e dunque la tutela) di alcune forme “nuove” di lavoro più omogenea con quella del lavoro subordinato. Con riferimento, poi, alle doglianze riguardanti il processo di sussunzione della fattispecie concreta sotto l’art. 2 e l’applicazione diretta di quest’ultimo, la Corte ha riconosciuto che le collaborazioni dei riders sono contraddistinte da “autonomia genetica” – consistente nella piena libertà dei lavoratori di scegliere se accedere alla turnazione – ma anche da una rigida “etero-organizzazione funzionale” – riferita alle modalità ed ai tempi di consegna –, con la conseguenza che non può individuarsi quel coordinamento condiviso per l’esecuzione della prestazione che è necessario per poter concludere nel senso della piena autonomia, e dunque della piena legittimità delle collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409 c.p.c. Infine, la Cassazione ha rigettato anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, ribadendo che tale disposizione non può essere intesa come norma di fattispecie, bensì come norma di disciplina, in quanto tale perfettamente coerente con i princìpi affermati nella Legge delega che ha riformato il sistema dei contratti di lavoro nell’ordinamento interno, ossia la L. n. 183/2014.

Dal legislatore al giudice e viceversa: le questioni ancora aperte.

La sentenza della Cassazione pone alcuni punti fermi nel lungo dibattito che ha interessato l’introduzione dell’art. 2, D.LGS. n. 81/2015 ed il conseguente inquadramento, al suo interno, di alcune forme di collaborazione lavorativa di nuovo conio, come quella dei riders. Peraltro, come si è anticipato, la norma è stata di recente interessata da un restyling legislativo – con l’art. 1, co. 1, lett. a), nn. 1) e 2), D.L. 3 settembre 2019, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 novembre 2019, n. 128 – che ha sostituito l’avverbio «esclusivamente» riferito alla natura personale delle collaborazioni con «prevalentemente», ha cancellato ogni riferimento alle modalità di tempo e luogo della etero-organizzazione ed infine ha aggiunto una prescrizione che estende l’applicazione dell’art. 2 alle ipotesi di collaborazioni organizzate mediante piattaforme, anche digitali. Modifiche, quest’ultime, che, secondo la Corte, confermano e non contraddicono l’intento protettivo manifestato dal legislatore con riguardo alle forme di lavoro che si pongono a metà strada tra autonomia e subordinazione, favorendo così una interpretazione ampia e non restrittiva dell’art. 2 in questione.

Nonostante la chiarezza e la completezza della sentenza, comunque, il dibattito sul punto è destinato a non sopire: restano ancora aperte numerose questioni, di cui la Corte, nella sentenza che si annota, pare avere piena consapevolezza. Affermare l’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato a collaborazioni che costituiscono una “terra di mezzo” tra quest’ultima e l’autonomia non basta, infatti, a risolvere il problema della compatibilità delle concrete modalità di svolgimento di queste collaborazioni con le specificità della disciplina del lavoro subordinato, e non è da escludersi che in alcune situazioni tale applicazione integrale sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie concrete.

La soluzione definitiva, dunque, è ben lungi dall’essere trovata ed occorreranno, se si vuole evitare di snaturare del tutto le nuove figure professionali emergenti, numerosi “accorgimenti”, sia giurisprudenziali che legislativi, per rendere effettivo l’adeguamento tra nuove collaborazioni e tutele della subordinazione. Nel frattempo, la strada appare tracciata: nessun arretramento nelle garanzie protettive può essere accordato a chi lavora secondo modalità ibride, a metà tra i modelli tradizionali dell’autonomia e della subordinazione.

Al rapporto di lavoro dei riders si applicano le tutele della subordinazione
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