Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 gennaio 2020, n. 1890

Licenziamento, Reiterata condotta, protratta per anni, di
minaccia e molestia nei confronti di una collega, Processo penale di primo
grado, Condanna per atti persecutori puniti dall’art.
612bis c.p., Gravità del comportamento extralavorativo, Lesione del
vincolo fiduciario tra le parti

Fatti di causa

 

Con sentenza in data 3 luglio 2018, la Corte
d’appello di Venezia rigettava il reclamo proposto da A.S. avverso la sentenza
di primo grado, di reiezione dell’opposizione del medesimo all’ordinanza dello
stesso Tribunale, ai sensi dell’art.
1, quarantanovesimo comma I. 92/2012, di rigetto della sua impugnazione del
licenziamento intimatogli il 23 ottobre 2015 da T. s.p.a. per giusta causa,
consistita essenzialmente nella sua reiterata condotta, protratta per alcuni
anni a seguito della non accettata interruzione della relazione sentimentale
con la collega S.T., di minaccia e molestia (con insistente ed assillante invio
di sms e mms alla sua utenza telefonica, anche di contenuto allusivamente
minaccioso di esibizione al marito di foto o filmini della stessa di contenuto
erotico, nonché con appostamenti e pedinamenti nei confronti della donna, che
diffamava mediante diffusione, nei bagni di luoghi pubblici e nelle stazioni,
del suo numero di telefono con invito a contattarla per prestazioni sessuali),
procurandole preoccupazione per l’incolumità propria e del marito e malessere
psico-fisico tali da indurla a modificare le proprie abitudini di vita e da
interferire sull’organizzazione dell’attività lavorativa, con riflesso
sull’intollerabilità della prosecuzione del rapporto di lavoro.

A motivo della decisione, la Corte territoriale
riteneva provata la condotta contestata, sulle risultanze del processo penale
di primo grado (sentenza del Tribunale di Verona n. 65 del 14 gennaio 2013,
impugnata, di condanna del lavoratore per atti persecutori in danno della
collega di lavoro, previsti e puniti dall’art.
612bis c.p., alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, oltre al
risarcimento dei danni in suo favore) e istruttorie direttamente acquisite nel
processo civile, anche in riferimento ai successivi comportamenti negli anni
2014 e 2015.

La Corte ravvisava quindi la proporzione tra gli
addebiti contestati e la sanzione espulsiva comminata dalla società datrice,
per la gravità del comportamento extralavorativo indubbiamente lesivo del
vincolo fiduciario tra le parti.

Con atto notificato il 30 agosto (5 settembre) 2018,
il lavoratore ricorreva per cassazione con tre motivi, cui resisteva T. s.p.a.
con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omesso
esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, quali
l’assenza, quanto meno dal 2013, di alcun comportamento del lavoratore negativo
o pregiudizievole nei confronti della collega T. e la piena affidabilità e
correttezza della prestazione lavorativa di A. S., così da escludere, con
valutazione ex post la potenzialità lesiva della condotta extralavorativa del
predetto.

2. Con il secondo, egli deduce omesso esame di un
fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, quale la richiesta
vicendevole dei due lavoratori (S. e T.) di trasferimento ad altro impianto,
così da rendere assai rari i loro incontri per motivi lavorativi all’epoca del
licenziamento.

3. I due motivi, congiuntamente esaminabili per
ragioni di stretta connessione, sono inammissibili.

3.1. Nel caso di specie ricorre, innanzi tutto,
l’ipotesi di cd. “doppia conforme” prevista dall’art. 348ter, quinto comma c.p.c. applicabile
ratione temporis, in difetto di indicazione dalla parte ricorrente, per evitare
l’inammissibilità del motivo di cui al novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., delle ragioni
di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della
sentenza di rigetto dell’appello, dimostrandone la diversità (Cass. 10 marzo
2014, n. 5528; Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 17 gennaio 2019, n.
1197).

3.2. Inoltre, il vizio (inammissibilmente)
denunciato è privo del carattere di decisività, escluso ex se da una pluralità
di fatti di cui sia dedotto l’omesso esame, nessuno autonomamente risolutivo (Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio
2018, n. 13625). Ma neppure essi corrispondono al nuovo paradigma normativo
dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., non
integrando nessun “fatto storico” di cui sia stato omesso l’esame,
quanto piuttosto contestazione della valutazione probatoria e dell’accertamento
di fatto della Corte territoriale, insindacabili in sede di legittimità,
qualora sorretti da adeguata argomentazione (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694;
Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 17 gennaio 2019, n. 1197), come appunto
nel caso di specie, in riferimento proprio alla ritenuta incidenza del
comportamento extra- lavorativo sul regolare svolgimento dell’organizzazione
aziendale (per le ragioni indicate al p.to 8, in particolare a pgg. 19 e 20
della sentenza), sulla scorta delle risultanze istruttorie scrutinate (al p.to
7, in particolare all’ultimo capoverso di pg. 18 della sentenza).

3.3. E’ pertanto palese la contestazione della
valutazione probatoria del giudice di merito, cui solo spetta il compito di
individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità
e la concludenza e di scegliere, salvo i casi tassativamente previsti dalla
legge, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente
idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così libera
prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (Cass. 10 giugno
2014, n. 13054; Cass. 27 gennaio 2015, n. 1547): secondo un esercizio
insindacabile dal giudice di legittimità, al quale solo pertiene la facoltà di
controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza
logico-formale, delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il
sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento
decisorio della Corte territoriale (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18
marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694).

4. Con il terzo, il ricorrente deduce falsa
applicazione degli artt. 62, 64 CCNL mobilità e attività ferroviarie e
violazione dell’art. 2119 c.c., per erronea
esclusione, in base ad evidente illogicità del ragionamento, di riconduzione
del comportamento extralavorativo del ricorrente all’ipotesi della prima norma
collettiva, di “minacce o ingiurie gravi verso altri dipendenti
dell’azienda, o per manifestazioni calunniose o diffamatorie”, sanzionata
in via conservativa con la sospensione dal servizio e privazione della
retribuzione da otto a dieci giorni; anziché della seconda, con particolare
riferimento alla lettera b) “per violazioni dolose di leggi, di
regolamenti o dei doveri che possano arrecare o abbiano arrecato forte
pregiudizio all’azienda o a terzi”, sanzionata con il licenziamento in
tronco, in violazione del principio di proporzionalità.

4.1. Esso è infondato.

4.2. Non si configura la violazione dell’art. 2119 c.c., non rilevando qui (come ancora
recentemente ritenuto da: Cass. 10 luglio 2018, n.
18170) una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa
interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd.
“elastica” (quale indubbiamente è la clausola generale della giusta
causa), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del
giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data
concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico –
sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la
sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della
giusta causa (piuttosto che del giustificato motivo di licenziamento), in
relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre
1998, n. 10514). E ciò per la sindacabilità, da parte della Corte di
cassazione, dell’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal
giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo
operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente
contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del
predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento,
esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile
2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).

4.3. Nel caso di specie, il lavoratore ha invece
censurato l’apprezzamento in fatto della Corte territoriale, essendo
insindacabile in sede di legittimità la valutazione di gravità della condotta
operata, in base a congruo ragionamento argomentativo (per le ragioni esposte
al p.to 9 a pgg. da 23 a 25 della sentenza): posto che la sanzione disciplinare
deve essere proporzionale alla gravità dei fatti contestati, sia in sede di
irrogazione della sanzione da parte del datore nell’esercizio del suo potere
disciplinare, avuto riguardo alle ragioni che lo hanno indotto a ritenere grave
il comportamento del dipendente, sia nel giudizio del giudice del merito, il
cui apprezzamento di legittimità e congruità della sanzione applicata, se
sorretto da adeguata e logica motivazione, si sottrae a censure in sede di
legittimità (Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1788; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293; 26 settembre 2018,
n. 23046).

4.4. Occorre ribadire poi che la giusta causa di
licenziamento è nozione legale, rispetto alla quale non sono vincolanti (al
contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo) le
previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non
precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità
delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e
lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per
giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella
prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione
(Cass. 24 ottobre 2018, n. 27004; Cass. 16 luglio
2019, n. 19023). Ed infatti, non è vincolante la tipizzazione contenuta
nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa
di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta
nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati
elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie,
coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i
principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il
vincolo fiduciario (Cass. 7 novembre 2018, n. 28492; Cass. 23 maggio 2019, n. 14063).

5. Dalle superiori argomentazioni discende il
rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il
regime della soccombenza, con il raddoppio del contributo unificato, ove
spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle
indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla
rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre
rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 gennaio 2020, n. 1890
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