Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 gennaio 2020, n. 1656

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
Reintegrazione, Indennità risarcitoria, Violazione dell’obbligo di repéchage

Ritenuto in fatto

 

1. Con ricorso ai sensi della I. n. 92 del 2012 P.G. impugnava dinanzi al
Tribunale di Velletri il licenziamento per giustificato motivo oggettivo
intimatole il 13.9.2013 dalla sua datrice di lavoro, la società I. s.p.a.,
della quale ella era responsabile dell’ufficio acquisti e del controllo
qualità. Il giudice della fase sommaria dichiarava illegittimo il licenziamento
ordinando la reintegrazione della lavoratrice nel suo posto di lavoro, oltre al
versamento di un’indennità risarcitoria, ai sensi del comma IV del novellato art. 18 L. n. 300 del 1970. A
conclusione della fase di opposizione il Tribunale, con sentenza del
13.12.2016, in applicazione del comma V dello stesso art. 18, ritenuta la
genuinità della soppressione del posto della lavoratrice, ma avendo accertato
la violazione dell’obbligo di repéchage, dichiarava risolto il rapporto di
lavoro dal 16.9.2013 e condannava la società a corrispondere alla lavoratrice,
a titolo risarcitorio, un’indennità pari a venti mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto.

2. Avverso quest’ultima sentenza la società datrice
di lavoro proponeva reclamo dinanzi alla Corte di appello di Roma. La
lavoratrice proponeva reclamo incidentale dinanzi alla stessa Corte.

3. Con sentenza pubblicata il 1.6.2018 la Corte di
appello di Roma dichiarava inammissibile il reclamo della lavoratrice e, in
accoglimento del reclamo principale della società, respingeva le domande della
G., condannandola alla restituzione delle somme ricevute dalla datrice di
lavoro in esecuzione dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria del
giudizio di prime cure, al netto degli oneri fiscali, e alla rifusione in
favore della reclamante principale delle spese del doppio grado del giudizio.

4. La Corte territoriale riteneva inammissibile il
reclamo incidentale della lavoratrice perché ella aveva impugnato una sola
delle due ragioni del decidere della sentenza di prime cure in ordine alla statuizione
relativa alla genuinità della soppressione del posto della G., cioè quella
basata sulla realtà delle difficoltà economiche dell’azienda, mentre non aveva
mosso censure all’altra autonoma ratio decidendi della sentenza di primo grado,
ragione del decidere basata sul non essere stato il ruolo ricoperto dalla
lavoratrice svolto da un dipendente in particolare, bensì essere stato
redistribuito tra i vari capi commessa e gli altri impiegati, con conseguente
soppressione del posto. Il reclamo incidentale si doveva comunque ritenere
anche infondato.

5. Quanto al reclamo principale, la Corte di appello
ne riteneva la fondatezza, concludendo nel senso della legittimità del recesso,
sulla scorta di tre ordini di considerazioni, corrispondenti ai tre motivi di gravame
della reclamante principale.

In primo luogo, la Corte territoriale constatava
l’erroneità in diritto della soluzione prospettata dal giudice di prime cure,
secondo cui per consentire il repéchage della lavoratrice la società avrebbe
dovuto ridurre l’orario di lavoro di tutto il personale tecnico-amministrativo;
ciò per contrarietà di tale soluzione all’art. 41
della Costituzione, non essendo consentito al giudice ventilare una sua
“soluzione riorganizzativa dell’impresa”, e perché ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 61 del 2000 il
passaggio dal tempo pieno al tempo parziale di lavoro può avvenire solo con il
consenso del lavoratore. In secondo luogo, la Corte di appello escludeva,
contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Velletri, che la società
avesse l’obbligo di comparare la posizione della G. con quella dei suoi
colleghi di lavoro di pari livello, perché il licenziamento non era stato
determinato solamente dall’esigenza di ridurre i costi aziendali, ma anche
dalla decisione di sopprimere posizioni di lavoro divenute superflue in ragione
del sopravvenuto ridimensionamento dell’attività, allorché la posizione della
odierna ricorrente non era né omogenea né fungibile con quella dei suoi
colleghi di lavoro, essendo ella l’unica addetta all’ufficio acquisti. Mancava
quindi la condizione della “totale fungibilità dei dipendenti”,
presupposto dell’obbligo di comparazione con gli altri dipendenti. In terzo
luogo, la Corte territoriale constatava l’erroneità della statuizione del
giudice di prime cure secondo cui l’azienda doveva ritenersi composta da più
società e non dalla sola opponente, per cui la verifica dell’obbligo di
repéchage doveva essere effettuata esclusivamente con riferimento ai dipendenti
della I. s.p.a., osservando come, pur avendo la lavoratrice dedotto nel ricorso
introduttivo del giudizio di aver prestato la propria opera anche in favore
della M. Costruzioni s.r.I., ella non avesse dedotto l’esistenza di un unico
centro di imputazione del rapporto, per cui quest’ultima società non era stata
evocata in giudizio e che, quanto alle altre società in tesi collegate alla
datrice di lavoro, queste ultime non erano state neppure citate nel ricorso
introduttivo. Valutando quindi la situazione con riguardo alla sola società I.
s.p.a, il giudice di appello, sulla base della situazione aziendale che veniva
accertata in fatto, concludeva che non vi fosse al momento del recesso la
possibilità di rimpiegare la lavoratrice, neppure con mansioni inferiori.

6. Contro la detta sentenza della Corte di appello
di Roma P.G. propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi. La società
I. s.p.a. resiste con controricorso. Entrambe le partì hanno depositato
memoria.

7. Successivamente alla proposizione del ricorso la
lavoratrice è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione degli art. 1324
e 1362 e ss. (in particolare dell’art. 1363) cod.civ in relazione e in combinato
disposto con l’art. 2 L. n. 604
del 1966, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3
cod.proc.civ. Secondo la ricorrente la Corte di merito sarebbe giunta alla
sua conclusione secondo cui la lettera di licenziamento dell’azienda conteneva
due distinte giustificazioni del recesso, l’una collegata al negativo andamento
economico e l’altra alla soppressione del posto, violando le regole di
ermeneutica poste dal codice civile nell’interpretazione della comunicazione di
recesso.

2. Questa doglianza presenta un doppio profilo
d’inammissibilità.

3. In primo luogo, la sentenza impugnata non si
limita a individuare due distinte ragioni del recesso nella lettera di
licenziamento, ma osserva che il giudice di primo grado aveva preso posizione
su tutti e due i motivi, ritenendoli entrambi fondati, mentre la odierna
ricorrente aveva censurato unicamente la seconda parte della sentenza, senza
fare alcun riferimento alla prima (sentenza impugnata, pag. 8-9).

Così facendo la Corte di appello rilevava la
formazione di un giudicato interno, statuizione che non viene censurata in
questa sede, di qui, l’inammissibilità del motivo.

4. In secondo luogo, la ricorrente non individua
alcuna violazione delle regole di ermeneutica, ma si limita a contrapporre
all’interpretazione ritenuta dalla Corte territoriale un’altra lettura a lei
più favorevole. La doglianza consiste, infatti, in una diversa interpretazione
del contenuto della lettera di recesso e quindi del risultato interpretativo in
sé. Ma esso spetta esclusivamente al giudice di merito ed è pertanto insindacabile
in sede di legittimità, qualora sorretto da congrua motivazione, esente da vizi
logici e giuridici (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n.
6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), come appunto nel caso di specie, nel quale
la Corte territoriale ricostruisce il significato del documento litigioso per
le ragioni enunciate a p. 8 della sentenza impugnata, basate sul tenore
letterale della lettera di licenziamento. Né, d’altro canto, in presenza di
un’interpretazione ben plausibile del giudice di merito neppure essendo
necessario che essa sia l’unica possibile o la migliore in astratto (Cass. 22
febbraio 2007, n. 4178), può darsi ingresso ad una sostanziale sollecitazione a
revisione del merito, discendente dalla contrapposizione di una interpretazione
dei fatti propria della parte a quella della Corte territoriale (Cass. 16
dicembre 2011, n. 27197; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694). E tale interpretazione
contestata è stata giustificata sulla base del “tenore letterale”
della lettera (e pertanto del criterio ermeneutico, che deve prevalere, quando
riveli con chiarezza ed univocità la volontà delle parti, sicché non sussistano
residue ragioni  di divergenza tra il
tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti: Cass. 21 agosto 2013, n. 19357; Cass. 28 agosto
2007, n. 18180).

5. Il secondo, il terzo e il quinto motivo possono
essere esaminati congiuntamente.

6. Con il secondo motivo la lavoratrice si duole
della violazione e/o della falsa applicazione dell’art. 2 L. n. 604 del 1966, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.
Come conseguenza di quanto denunciato con il primo motivo sarebbero stati violati
i principi di immodificabilità della motivazione del licenziamento e della
complessiva valutazione della giustificazione, giacché la Corte di merito
avrebbe omesso di verificare complessivamente la motivazione e quindi di
verificare “la complessiva giustificatezza o meno del recesso.”

7. Con il terzo motivo la G. deduce la violazione
e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod.proc.civ.
(omessa pronuncia), ai sensi dell’art. 360, comma
1, n. 4 cod.proc.civ., lamentando il mancato esame del suo reclamo
incidentale, erroneamente dichiarato inammissibile dalla Corte di appello di
Roma per effetto delle violazioni denunciate con i motivi precedenti.

8. Con il quinto motivo si denuncia la violazione
e/o falsa applicazione dell’art.
2 L. n. 604 del 1966, ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 3 cod.proc.civ. Sempre in dipendenza dell’iniziale errore della
sentenza impugnata, che si è concentrata sul motivo collegato alla soppressione
del posto della lavoratrice, trascurando la parte della motivazione del recesso
relativa al negativo andamento economico, mentre si trattava di una motivazione
unitaria, la Corte territoriale, in violazione della norma invocata, avrebbe
trascurato di valutare la piena applicazione dell’obbligo di repéchage in
relazione “a tutto il motivo addotto”.

9. I tre motivi in esame mancano chiaramente di
autonomia, essendo tutti dipendenti dal primo e sono dunque, come quello,
anch’essi inammissibili.

10. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 L. n. 604 del 1966, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.
giacché la sentenza impugnata avrebbe errato nel negare la rilevanza del lavoro
da lei prestato in favore anche di soggetti diversi dalla società I. s.p.a.,
circostanze che entravano in gioco esclusivamente dal punto di vista della
giustificazione causale del licenziamento e che non imponevano quindi
l’evocazione in giudizio di tali soggetti.

11. Il motivo è infondato.

12. Quando ci si trovi di fronte a un gruppo di
società, i rapporti di lavoro dei dipendenti vanno imputati rispettivamente
alle società che ne sono titolari, a meno che non sia riscontrabile
un’utilizzazione impropria — quando vi sia una simulazione o una preordinazione
in frode alla legge – dello schema societario, e pur esistendo di fatto un
“unico centro d’imputazione del rapporto di lavoro” lo stesso sia
solo apparentemente frazionato in più imprese.

13. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, Il
collegamento economico-funzionale tra imprese non è, di per sé solo,
sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro
subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si
debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che
consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro.
Tale situazione ricorre ogni volta vi sia una simulazione o una preordinazione
in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti
del collegamento economico-funzionale e ciò venga rivelato dai seguenti
requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b)
integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il
correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico ed
amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che
faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo
comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte
delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa
sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari
imprenditori (Cass. n. 19023 del 2017).

14. L’esistenza di un unico centro di imputazione
del rapporto di lavoro va accertata dal giudice di merito (Cass. n. 3482 del 2013 (ord.)), che in questo
caso l’ha esclusa con motivazione che non viene neanche censurata ai sensi
dell’art. 360, comma 1, n. 5 o n. 4. cod.proc.civ.,
mentre nessuna violazione di norme di diritto viene individuata dal motivo.

15. Con il sesto e ultimo motivo la sentenza
impugnata viene censurata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 cod.proc.civ. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., giacché la
condanna della ricorrente alle spese del doppio grado del giudizio avrebbe
violato la norma invocata, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, d.l. n. 132 del
2014, “nella lettura offerta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 77 del 2018, che ne ha dichiarato la
parziale illegittimità.

16. Il motivo è infondato. La sentenza n. 77 del 2018 della Corte
costituzionale, facendo salva la possibilità delle “altre analoghe gravi
ed eccezionali ragioni” per la compensazione delle spese, non esclude
certamente che il principio della soccombenza possa applicarsi anche nelle
cause di lavoro quando soccombente è il lavoratore.

17. Alla luce delle considerazioni che precedono, il
ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

18. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

19. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 4.000,00 per
compensi, oltre spese al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 gennaio 2020, n. 1656
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