Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 febbraio 2020, n. 5113

Decesso lavoratore, Affidamento lavori all’interno
dell’azienda ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi, Verifica
idoneità tecnico professionale, Informazioni sui rischi specifici esistenti,
Misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro, Assenza di adeguato
impianto di ventilazione, Responsabilità della società committente

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte di Appello di Venezia, in parziale
riforma della sentenza di primo grado, riconosciuta a tutti gli imputati la
circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6
cod.pen., ritenuta, unitamente alle generiche, equivalente all’aggravante,
ha rideterminato la pena nei confronti di S.P. in anni 1 e mesi 2 di reclusione
e nei confronti di F.V. e A.V. in mesi 7 di reclusione, con il beneficio della
sospensione condizionale e della non menzione, confermandone la condanna per il
reato di cui all’art. 589 cod.pen., perché, in
qualità di datore di lavoro il primo (quale legale rappresentante della E.S.
s.n.c.), ed, in qualità di committenti-appaltanti i secondi (quali legali
rappresentanti e più precisamente presidente e vice-presidente di C. N. V.
s.r.l., hanno cagionato il decesso di M.M., rimasto carbonizzato nell’incendio
verificatosi all’interno del doppio fondo della nave in costruzione, avvenuto
per la presenza di ossigeno e di scintille causate dalla smerigliatrice usata
per eliminare le vernici ed effettuare un taglio a mezza luna, con colpa
consistita per S.P. nelle violazioni degli artt. 9, 20 e 21 del d.P.R. n. 303 del
1956 (ora sostituiti dall’allegato
IV del d.lgs. n. 81 del 2008, punti 1.9.1.1., 2.1.4.-bis e 2.2) e degli artt. 250 e 387 del d.P.R. n. 547 del 1955
(capi di imputazione D,E,0); per F. e A.V. nella violazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994
(oggi confluito nell’art. 26 del
d.lgs. n. 81 del 2008) e, cioè, nella mancata valutazione delle attività
concorrenti e delle forniture messe a disposizione ai lavoratori, che avrebbero
dovuto comprendere un adeguato impianto di ventilazione (Capo A) – 4 aprile
2006.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto tempestivo
ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore, S.P., F.V. e A.V..

3. S.P. ha dedotto: 1) la nullità del decreto che
dispone il giudizio e della sentenza per violazione del principio di chiarezza
e precisione dell’imputazione, previsto dall’art.
429 cod.proc.pen., e di correlazione tra accusa e difesa, previsto dagli artt. 521 e 522
cod.proc.pen., non essendo intervenuta la modifica del capo di imputazione,
nonostante la responsabilità dell’imputato sia stata fondata su alcune
violazioni non contestate (quelle degli artt. 250 del d.P.R. n. 547 del
1955 e 9 del d.P.R. n. 303
del 1956) e su altre che nell’originaria contestazione non erano state
poste in nesso di causalità con la morte del lavoratore (quelle di cui ai capi
D ed E); 2) la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione ed il travisamento della prova, in quanto il giudice di secondo ha
affermato, pur ammettendo l’assenza di adeguati riscontri probatori, che la
fiamma è stata provocata dalla concentrazione di ossigeno all’interno del
gavone piuttosto che sugli indumenti del lavoratore (ipotesi rispetto alla
quale risulterebbe irrilevante la condotta colposa contestata al datore di
lavoro, individuata nella carenza di dispositivi di areazione), senza valutare
gli elementi indiziari evidenziati dalla difesa, anche in relazione
all’adempimento di propri obblighi (in particolare quanto emerso dalle
deposizioni testimoniali di V. e B. e dalle fatture prodotte, a dimostrazione
che il tubo di aereazione, usato nell’occasione dal lavoratore D., fosse di
proprietà della E.S.), e senza adeguatamente considerare l’abnormità della
condotta della vittima.

3. F.V. e A.V. hanno dedotto: 1) l’inosservanza
degli artt. 26, comma 3, del
d.lgs. n. 81 del 2008, 7
del d.lgs. n. 626 del 1994 e della I. n. 123
del 2007 e 296 del 2006 ed il vizio di
motivazione sul punto, insistendo per la prevalenza dell’assoluzione nel merito
rispetto alla prescrizione quanto alla condotta di cui al capo B, attesa
l’inapplicabilità ai fatti oggetto di causa del d.lgs.
n. 81 del 2008, della I. n. 123 del 2007 e
296 del 2006 e la conseguente erroneità
dell’affermata necessità del DUVRI, fondata anche sulla confusione tra attività
concorrenti e compresenza di autonome attività, e dell’affermata necessità per
il committente di verificare le attrezzature e la formazione fornita
dall’appaltatore ai suoi dipendenti; 2) l’erronea applicazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994,
ai sensi del quale l’obbligo del committente di promuovere la cooperazione ed
il coordinamento non si estende ai rischi specifici dell’attività dell’impresa
appaltatrice o dei singoli lavoratori autonomi, e l’assoluta mancanza di
motivazione sul punto; 3) la violazione dell’art.
41, secondo comma, cod.pen. ed il vizio di motivazione sul punto, atteso
che la condotta altamente imprudente della vittima, lavoratore esperto, integra
un comportamento abnorme idoneo ad interrompere il nesso causale rispetto a
eventuali violazioni degli imputati.

 

Considerato in diritto

 

1. Preliminarmente va dichiarata l’estinzione del
reato contestato a F.V. in conseguenza del suo decesso.

La morte dell’imputato, intervenuta successivamente
alla proposizione del ricorso per cassazione, impone l’annullamento senza
rinvio della sentenza impugnata, con l’enunciazione della relativa causa nel
dispositivo, risultando esaurito il sottostante rapporto processuale ed essendo
preclusa ogni eventuale pronuncia di proscioglimento nel merito ai sensi
dell’art. 129, comma secondo, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 23906 del 12/05/2016 ud. – dep. 09/06/2016, Rv. 267384 – 01).

2. Il ricorso di A.V. non può essere accolto.

3. I primi due motivi, con cui si è denunciata
l’inosservanza degli artt. 26,
comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2008, 7 del d.lgs. n. 626 del 1994,
della I. n. 123 del 2007 e di quella n. 296 del 2006 ed il vizio di motivazione sul
punto, possono essere esaminati congiuntamente.

Invero, il giudice di appello ha risposto alle
doglianze dell’atto di appello di F. ed A.V. facendo applicazione dell’art. 7 della d.lgs. n. 626 del
1994 nella formulazione successiva a quella in vigore all’epoca dei fatti.
Originariamente la disposizione in esame stabiliva: “il datore di lavoro,
in caso di affidamento dei lavori all’interno dell’azienda, ovvero dell’unità
produttiva, ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi: a) verifica, anche
attraverso l’iscrizione alla camera  di
commercio, industria e artigianato, l’idoneità tecnico professionale delle
imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da
affidare in appalto o contratto d’opera; b) fornisce agli stessi soggetti
dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui
sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate
in relazione alla propria attività; nell’ipotesi di cui al comma 1 i datori di
lavoro: a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione
dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto;
b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono
esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare
rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte
nell’esecuzione dell’opera complessiva; il datore di lavoro committente
promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2, ma tale obbligo
non si estende ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese
appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi”. In tale versione, vigente
ratione temporis, non era, dunque, previsto l’obbligo di redigere il DUVRI
-obbligo introdotto solo a decorrere dal 25 agosto 2007, con le modifiche
apportate dalla I. n. 123 del 2007, che
sostituito la seconda lett. b dell’art.
7 con il seguente testo “(i datori di lavoro) coordinano gli
interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i
lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi
dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte
nell’esecuzione dell’opera complessiva; il datore di lavoro committente
promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un
unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per
eliminare le interferenze; tale documento è allegato al contratto di appalto o
d’opera; le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi
specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli
lavoratori autonomi”.

L’erroneo riferimento del giudice di appello a tale
disciplina (ed alla necessità di un unico documento di valutazione del rischio)
non inficia, tuttavia, la correttezza della decisione, tenuto conto
dell’integrazione della motivazione della sentenza di primo grado con quella di
secondo grado, laddove conformi (v., per tutte, Sez. 1, n. 10238 del 20/01/1988
ud.- dep.19/10/1988, Rv. 179475 – 01, secondo cui le motivazioni delle sentenze
di primo e di secondo grado si integrano qualora le due decisioni siano
conformi: tale principio va inteso non nel senso che il giudice di appello
possa limitarsi a richiamare la motivazione del primo giudice o possa esimersi
da una propria autonoma motivazione, altrimenti si avrebbe una sostituzione e
non una integrazione delle due motivazioni, bensì nel senso che il giudice di
appello bene può non trattare diffusamente tutti gli argomenti discussi ed
esaminati in primo grado, qualora nei motivi di appello non siano addotte
considerazioni diverse da quelle già disattese con motivazione ritenuta
esauriente; o addirittura non affrontare una questione, non rilevabile
d’ufficio, qualora nei motivi di appello non vi siano deduzioni in proposito o
vi siano deduzioni generiche o palesemente inconsistenti, ossia insuscettibili
di accoglimento).

La responsabilità della società committente, di cui
l’imputato è vice-presidente e legale rappresentate, risulta, difatti, fondata,
alla luce della sentenza di primo grado, sull’obbligo specificamente assunto,
in base ai contratti conclusi, dalla committente e dalla subcommittente nei
confronti dell’appaltatore e del sub-appaltatore (v. p. 16), di fornitura di
energia elettrica, gas ed ossigeno, sicché l’assenza di sufficienti apparecchi,
strumentali all’areazione dei locali ed al rifornimento di ossigeno (causa
dell’infortunio, secondo la ricostruzione effettuata dai giudici di merito)
integra la concretizzazione di un rischio interferenziale, la cui gestione
gravava proprio sulla committente, che aveva il compito di assicurare
aspiratori e ventilatori alle imprese operanti sull’imbarcazione e
conseguentemente di coordinarne l’uso.

Nella sentenza del Tribunale si è, inoltre,
evidenziato che le lavorazioni eseguite dalla E. s.n.c., datore di lavoro della
vittima, presentavano un rischio che non era esclusivamente proprio e specifico
di tale impresa, in quanto l’intera costruzione della nave comportava pericoli
collegati all’esecuzione di operazioni in ambienti angusti (in particolare
pericolo di sviluppo di gas tossici e polveri ed altresì di incendio). Non è,
pertanto, pertinente la giurisprudenza, richiamata nel ricorso, secondo cui la
cooperazione non può intendersi come obbligo del committente di intervenire in
supplenza dell’appaltatore tutte le volte in cui costui ometta, per qualsiasi
ragione, di adottare misure di prevenzione prescritte a tutela soltanto dei
suoi lavoratori, risolvendosi in un’inammissibile ingerenza del committente
nell’attività propria dell’appaltatore (Sez. 4, n. 31459 del 03/07/2002
ud.-dep. 20/09/2002, Rv. 222341 – 01).

Ad ogni modo, nel caso di specie, il giudice di
primo grado ha evidenziato un’ingerenza della committente nei lavori delle
imprese operanti sull’imbarcazione (v. p. 18, “l’impresa committente
continuava, tramite i propri capi-cantiere, a dirigere le lavorazioni eseguite
dalle altre ditte”) ed ha, quindi, applicato l’orientamento consolidato,
secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, il contratto di appalto non
solleva da precise e dirette responsabilità il committente allorché lo stesso
assuma una partecipazione attiva nella conduzione e realizzazione dell’opera,
in quanto, in tal caso, rimane destinatario degli obblighi assunti
dall’appaltatore, compreso quello di controllare direttamente le condizioni di
sicurezza del cantiere (Sez. 4, n. 14407 del 07/12/2011 ud.- dep. 16/04/2012,
Rv. 253295 – 01).

Le censure in esame omettono completamente di
confrontasi con tale ricostruzione dei fatti, motivata in modo congruo,
esaustivo e logico, e con i principi giuridici correttamente applicati e
richiamati dai giudici di merito, evidenziando soltanto l’erroneo riferimento
ad una disciplina non ancora vigente all’epoca dei fatti, che, tuttavia,
risulta del tutto irrilevante.

4. Relativamente alla terza doglianza, con cui si è
invocata l’abnormità della condotta del lavoratore, va ricordato che ricorre
tale situazione soltanto laddove il comportamento imprudente del lavoratore sia
stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle
mansioni affidategli e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità oppure
laddove rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in
qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi,
prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez.
4, n. 7188 del 10/01/2018 ud. – dep. 14/02/2018, Rv. 272222 – 01). Nel caso in
esame, come sottolineato dai giudici di merito, la condotta del lavoratore è
stata posta in essere nell’espletamento delle sue mansioni ed era del tutto
prevedibile in considerazione delle condizioni di lavoro (“sia il
consulente Z. sia il teste D. hanno confermato che non è infrequente che gli
operai usassero l’ossigeno per respirare meglio o per pulirsi i vestiti”).

5. Il ricorso di S.P. è destituito di fondamento.

6. In ordine alla prima censura, avente ad oggetto
la violazione degli artt. 429, 521 e 522
cod.proc.pen., come già evidenziato dal giudice di appello, in tema di
reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra
l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la
condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli
elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di
specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non
sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (così Sez. 4, n. 35943
del 07/03/2014 ud. – dep. 19/08/2014, Rv. 260161 – 01, in una fattispecie in
cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose
conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata
dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa
adeguata informazione e formazione dei lavoratori).

Si è, anche, affermato che nei procedimenti per
reati colposi, il mutamento dell’imputazione, e la relativa condanna, per colpa
generica a fronte dell’originaria formulazione per colpa specifica non comporta
mutamento del fatto e non viola il principio di correlazione tra accusa e
sentenza, qualora l’imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare
in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell’addebito
(Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018 ud. – dep. 29/11/2018, Rv. 274500 – 02) e che,
una volta contestata la condotta colposa e ritenuta dal giudice di primo grado
la sussistenza di un comportamento commissivo, la qualificazione in appello
della condotta medesima anche come colposamente omissiva non viola il principio
di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l’imputato abbia avuto la
concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione
ad ogni possibile profilo dell’addebito (Sez. 4, n. 27389 del 08/03/2018 ud. –
dep. 14/06/2018, Rv. 273588 – 01).

A ciò si aggiunga che, in tema di incidenti sul
lavoro, qualora l’evento, del quale il datore di lavoro è chiamato a rispondere
a titolo di colpa, sia eziologicamente collegato all’omissione di condotte
dovute in forza della posizione di garanzia da lui rivestita, non si ha
violazione del principio di correlazione fra fatto contestato e quello ritenuto
in sentenza, quando sia rimasta inalterata la condotta omissiva, intesa come
dato fattuale e storico contenuto nell’imputazione, ma sia stata, bensì, dal
giudice mutata solo la fonte (normativa, regolamentare o pattizia) in base alla
quale l’imprenditore era tenuto a porre in essere la condotta doverosa omessa,
atteso che non può ritenersi che la fonte di imputazione dell’obbligo sia parte
del fatto e che incida, perciò, nella sostanza della fattispecie concreta,
intesa come accadimento storico che si inquadra nell’ipotesi astratta prevista
dalla norma incriminatrice (Sez. 4, n. 47365 del 10/11/2005 ud. – dep.
30/12/2005, Rv. 233182 – 01; più recentemente Sez.4,n. 4622 del 15/12/2017 ud.
– dep. 31/01/2018, Rv. 271948 – 01).

Si tratta appunto di ciò che è avvenuto nel caso di
specie, in cui la condotta omissiva contestata è rimasta invariata, essendosi i
giudici di merito limitati ad individuare ulteriori norme violate, atteso che
l’inosservanza degli artt.
250 del d.P.R. n. 547 del 1955, ai sensi del quale è altresì vietato di eseguire
le operazioni di saldatura nell’interno dei locali, recipienti o fosse che non
siano efficacemente ventilati, e 9
del d.P.R. n. 303 del 1956, ai sensi del quale nei luoghi di lavoro chiusi
è necessario far sì che tenendo conto dei metodi di lavoro e degli sforzi
fisici ai quali sono sottoposti i lavoratori, essi dispongano di aria salubre
in quantità sufficiente anche ottenuta con impianti di areazione, corrispondono
alla condotta contestata alla lett. D, E e J(non aver provveduto a far adottare
a M.M. idonei sistemi di aereazione e ventilazione nell’esecuzione delle
operazioni svolte nel doppio fondo della nave).

Per mera completezza va sottolineata l’irrilevanza
della mancata indicazione delle condotte di cui alle lett. D e E nel capo A di
cui all’art. 589 cod.pen., visto che le stesse
sono ripetute ed assorbite nel capo J.

7. In ordine alla seconda censura, avente ad oggetto
il vizio di motivazione ed al travisamento della prova relativamente
all’affermata responsabilità del datore di lavoro, deve osservarsi che la
responsabilità del datore di lavoro è stata fondata da entrambi i giudici di
merito sulla mancata messa a disposizione, da parte del datore di lavoro, di
sistemi di areazione, nonostante le condizioni ed i luoghi di lavoro, omissione
causalmente rilevante rispetto all’incendio, da cui è derivata la morte della
vittima. Tale condotta omissiva è stata desunta, in modo congruo e non
manifestamente illogico, dalle deposizioni dei testi D. e S. – il primo ha,
difatti, dichiarato che il datore di lavoro aveva fornito ai lavoratori solo
una mascherina di cartone, tappi per le orecchie, guanti ed occhiali
protettivi, mentre il tubo aspiratore era di un’altra impresa; il secondo ha
precisato che gli aspiratori, in quanto numericamente insufficienti, erano
stati forniti solo ai saldatori veri e propri e non ai carpentieri. Gli
elementi probatori evidenziati dalla difesa si presentano del tutto marginali e
scarsamente significativi rispetto a quelli valorizzati nelle sentenze di
merito, sicché non si configura alcuna lacuna o contraddittorietà nella
motivazione. Va, del resto, ribadito che, ai fini della correttezza e della
logicità della motivazione della sentenza, non occorre che il giudice di merito
dia conto della valutazione di ogni deposizione assunta e di ogni prova, come
di altre possibili ricostruzioni dei fatti che possano condurre a eventuali
soluzioni diverse da quella adottata, egualmente fornite di coerenza logica, ma
è indispensabile che egli indichi le fonti di prova di cui ha tenuto conto ai
fini del suo convincimento, e, quindi, della decisione, ricostruendo il fatto
in modo plausibile con ragionamento logico e argomentato (Sez. 6, n. 11984 del
24/10/1997 ud.- dep. 22/12/1997, Rv. 209490 – 01).

Né risulta manifestamente illogica la ricostruzione
del giudice di appello, secondo cui il lavoratore ha aperto l’ossigeno per
respirare meglio e non per spolverarsi i vestiti, posto che era appena
rientrato nel gavone dall’esterno e, ragionevolmente, aveva risentito delle
difficoltà respiratorie dovute all’ambiente angusto. Ad ogni modo, come già
rilevato dal giudice di primo grado, resterebbe irrilevante la diversa finalità
del lavoratore, in quanto la sua condotta imprudente troverebbe, comunque,
origine nell’assenza di adeguati sistemi di areazione, che hanno aumentato la
polvere, e non potrebbe, perciò, escludere il nesso causale tra la violazione
della disciplina anti-infortunistica del datore di lavoro ed il tragico evento.

8.In conclusione, la sentenza va annullata senza
rinvio limitatamente a F.V. per essere il reato estinto per morte
dell’imputato, mentre devono essere rigettati i ricorsi di A.V. e S.P., che
conseguentemente vanno condannati al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Annulla, senza rinvio, la sentenza impugnata quanto
alla posizione di V. F. per essere il reato estinto per morte dell’imputato.
Rigetta i ricorsi di V.A. e P.S. e condanna i predetti ricorrenti al pagamento
delle spese processuali.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 febbraio 2020, n. 5113
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