Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 febbraio 2020, n. 3475

Dirigente, art.
33 comma 7 del d.lgs. n. 165/2001, Collocamento in disponibilità,
Reimpiego del personale in eccedenza, Impossibilità, Onere della prova

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Firenze ha respinto
l’appello proposto dalla Provincia di Arezzo avverso la sentenza del Tribunale
di Arezzo che aveva accolto il ricorso di R. T. e, disapplicata la delibera di
Giunta con la quale il dirigente era stato collocato in disponibilità ex art. 33 comma 7 del d.lgs. n.
165/2001, aveva condannato l’amministrazione provinciale a reintegrare il
ricorrente ed a corrispondere allo stesso, a titolo di risarcimento del danno,
le retribuzioni non percepite;

2. la Corte territoriale ha evidenziato che, in
effetti, il Tribunale aveva richiamato il comma 7 dell’art. 33 del d.lgs. n.
165/2001, come modificato dall’art.
16 della legge n. 183/2011, non applicabile ratione temporis alla
fattispecie in quanto la procedura si era conclusa nella vigenza del testo
originario della disposizione, non sovrapponibile a quello risultante all’esito
della riscrittura della norma;

3. ha ritenuto l’errore non determinante, perché il
primo giudice aveva fondato la decisione sulla circostanza che la Provincia non
avesse assolto all’onere probatorio, sulla stessa gravante, circa
l’impossibilità di ricorrere a misure alternative;

4. ha precisato al riguardo che l’art. 33 del d.lgs. n. 165/2001
obbliga l’ente a verificare le possibilità del reimpiego del personale in
eccedenza, non solo all’interno dell’ente medesimo, ma anche presso altre
pubbliche amministrazioni, e pertanto, qualora venga contestata la legittimità
del collocamento in disponibilità, grava sul datore di lavoro pubblico, non sul
dipendente, l’onere di dimostrare il rispetto delle condizioni richieste dalla
legge, onere nella specie non assolto in quanto nulla era stato dedotto e
dimostrato in merito alla previa verifica negativa di una diversa
collocabilità;

5. per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso la Provincia di Arezzo sulla base di tre motivi, ai quali ha opposto
difese R. T.;

6. entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ..

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la Provincia
ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. ed assume che la Corte
territoriale, violando il principio della necessaria corrispondenza fra il
chiesto ed il pronunciato, avrebbe di iniziativa modificato la causa petendi
dell’azione, ponendo a fondamento della ritenuta fondatezza della domanda
ragioni e circostanze di fatto mai addotte dal T., il quale aveva ravvisato la
violazione dell’art. 33 del
d.lgs. n. 165/2001 solo nella mancata ricollocazione in altre posizioni
dirigenziali disponibili presso l’ente di appartenenza;

1.1. la ricorrente aggiunge che, nel rispetto dell’art. 416 cod. proc. civ., la memoria difensiva
aveva puntualmente contestato le allegazioni dell’atto introduttivo, e che
parimenti l’appello aveva censurato in modo specifico la pronuncia del
Tribunale, con la quale la delibera di giunta era stata disapplicata
sull’erroneo presupposto che nell’organico dell’ente provinciale fossero
disponibili posizioni dirigenziali;

2. con la seconda critica è denunciata, ai sensi
dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la
violazione degli artt. 416 cod. proc. civ., 2697 cod. civ. e 5 della legge n. 604/1966
perché l’onere della prova che grava sul datore di lavoro riguarda i soli
profili di legittimità del licenziamento che siano stati oggetto di specifica
allegazione nel ricorso introduttivo;

2.1. il ricorrente, richiamando la giurisprudenza di
questa Corte in tema di obbligo di repechage, sostiene che si deve esigere dal
lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento
dei fatti, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei
quali poteva essere utilmente ricollocato, sicché l’onere del datore in merito
all’impossibilità del reimpiego sorge solo a seguito di tale allegazione;

3. il terzo motivo, formulato sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., addebita alla Corte
territoriale la violazione degli artt. 115 e 421 cod. proc. civ. perché,  contrariamente a quanto sostenuto dal giudice
di merito, la Provincia di Arezzo nell’atto d’appello aveva dedotto
l’impossibilità di ricollocare il dipendente presso altri enti pubblici ed
aveva a tal fine fatto leva sulla missiva trasmessa dal T., che faceva
riferimento alla revoca delle procedure di mobilità avviate dal Comune di
Arezzo;

3.1. aggiunge la ricorrente che la circostanza
allegata non era stata oggetto di specifica contestazione, perché si era
discusso solo della possibilità di ricollocare il dirigente in altre posizioni
dirigenziali disponibili presso l’amministrazione provinciale, e, pertanto, il
giudice d’appello l’avrebbe dovuta ritenere provata o, in alternativa, avrebbe
dovuto attivare i poteri d’ufficio;

4. è fondata l’eccezione, sollevata dalla difesa del
controricorrente, di inammissibilità del primo motivo di ricorso, sia perché la
censura, che non fa cenno alla nullità derivata dall’error in procedendo, non è
formulata nei termini indicati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la
sentenza n.17931/2013, sia in quanto addebita al giudice d’appello di essere
incorso nella violazione dell’art. 112 cod. proc.
civ., quando, in realtà, già il Tribunale, come si legge nella pronuncia
qui impugnata, aveva ritenuto che la Provincia non avesse assolto
«adeguatamente l’onere probatorio circa l’impossibilità di ricorrere a misure
alternative quali l’adibizione a servizi diversi anche presso altre
amministrazioni in ragione dell’esperienza professionale maturata dal Dr. T.»;

4.1. il vizio di ultrapetizione comporta una nullità
relativa della sentenza, che va fatta valere con gli ordinari mezzi
d’impugnazione e non può essere rilevata d’ufficio dal giudice del gravame, la
cui pronunzia, in caso contrario, incorre nel medesimo vizio (Cass. n. 465/2016
e Cass. n. 13351/2014), sicché nella specie la
ricorrente avrebbe dovuto formulare in appello uno specifico motivo volto a
denunciare l’asserita violazione da parte del primo giudice del principio della
necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato;

4.2. non risulta dalla sintesi dei motivi riportata
nella sentenza impugnata che fosse stata eccepita la nullità della pronuncia di
primo grado, né la ricorrente dimostra di avere sottoposto al giudice del
gravame la questione del mancato rispetto dell’art.
112 cod. proc. civ. e pertanto la doglianza qui formulata va dichiarata
inammissibile perché, come già affermato da questa Corte, il vizio di
ultrapetizione della sentenza di primo grado non può essere dedotto come mezzo
di ricorso per cassazione, neppure se riferito alla pronuncia di secondo grado
confermativa della precedente, ove lo stesso vizio non abbia formato oggetto di
specifico motivo di appello ( Cass. n. 21856/2004);

5. la seconda censura è infondata;

correttamente la Corte territoriale ha evidenziato
che l’art. 33 del d.lgs. n.
165/2001, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 183/2011, pone uno specifico onere a
carico del datore di lavoro pubblico il quale, prima di collocare in
disponibilità il personale eccedente, è tenuto a verificare la possibilità del
reimpiego, non solo presso la stessa amministrazione ma anche presso altri enti;

5.1. la pronuncia è conforme all’interpretazione del
comma 7 del richiamato art.
33 già fornita da questa Corte, la quale ha precisato che l’ampia dizione
utilizzata dalla disposizione — personale che non sia possibile collocare
diversamente –  «ricostruisce in maniera
chiara ed inequivoca l’obbligo dell’amministrazione, imponendo a
quest’ultima….di tentare ogni possibile riutilizzazione di tale personale
prima del collocamento in disponibilità, attraverso qualunque forma utile a
raggiungere l’obiettivo… (Cass. n. 5544/2017 punto 23) e pertanto, qualora
venga contestata la legittimità dell’atto, grava sulla P.A. l’onere di
dimostrare l’impossibilità di una ricollocazione alternativa nonché l’adempimento
dell’obbligo di comunicazione di cui al successivo art. 34 ( Cass. n. 3738/2017);

5.2. al richiamato orientamento il Collegio intende
dare continuità, perché il ricorrente non prospetta argomenti che possano
indurre a rimeditare il principio già espresso e si limita a fare leva sulla
giurisprudenza formatasi in tema di licenziamento individuale nell’ambito del
rapporto di lavoro alle dipendenze di privati;

5.3. al riguardo va detto che le due fattispecie non
sono assimilabili, per l’evidente diversità fra la disciplina dettata dall’art. 33 del d.lgs. n. 165/2001
e quella di cui all’art. 3
della legge n. 604/1966, e che, comunque, l’orientamento invocato è stato
superato dai più recenti arresti di questa Corte secondo cui in tema di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo «spetta al datore di lavoro
l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repechage” del
dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso
datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti
assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una
divaricazione tra i suddetti oneri.» (Cass. n.
5592/2016 e negli stessi termini fra le tante Cass.
n.12101/2016, Cass. n. 160/2017; Cass. n. 24882/2017);

6. il terzo motivo è inammissibile per plurime
ragioni concorrenti;

6.1. la ricorrente fa leva sull’asserita non
contestazione delle circostanze allegate nella memoria difensiva, ma formula il
motivo senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di
allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.;

6.2. la giurisprudenza di questa Corte è consolidata
nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo,
rispetto al quale la Corte è giudice del «fatto processuale», l’esercizio del
potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle
regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in
nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del
giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);

6.3. la parte, quindi, non è dispensata dall’onere
di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore
denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo
consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la
Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere
posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve
procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca
(Cass. n. 15367/2014; Cass. n. 21226/2010);

6.4. con specifico riferimento alla violazione del
principio della non contestazione è stato affermato, e deve essere qui
ribadito, che ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito
di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere
stata “pacifica” tra le parti, il ricorrente è tenuto a precisare nel
ricorso «in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale
sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica» (Cass. n. 24062/2017);

6.5. la ricorrente ha riportato nel corpo del motivo
solo un breve passo dell’atto di appello, ma non ha assolto agli oneri sopra
indicati quanto alla memoria difensiva dell’appellato ed agli atti introduttivi
del giudizio di primo grado, ai quali occorre fare riferimento al fine di
stabilire se una determinata circostanza di fatto fosse o meno inclusa nel
thema probandum;

6.6. quanto, poi, all’omesso esercizio dei poteri
d’ufficio l’inammissibilità della censura va affermata sulla base
dell’orientamento, al quale il Collegio intende dare continuità, secondo cui
«l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice ex artt.
421 e 437 c.p.c., non ha carattere
discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato
esercizio questi è tenuto a dar conto; tuttavia, al fine di censurare
idoneamente in sede di ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità
della motivazione sulla mancata attivazione di detti poteri, occorre dimostrare
di averne sollecitato l’esercizio, in quanto diversamente si introdurrebbe per
la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo
rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di merito» (Cass. n. 25374/2017 e negli stessi termini fra le
più recenti Cass. n. 22628/2019);

7. in via conclusiva il ricorso deve essere
rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese
del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

7.1. sussistono le condizioni processuali di cui
all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n.
115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per
esborsi ed € 5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle
spese generali del 15% ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 febbraio 2020, n. 3475
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