Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 febbraio 2020, n. 4099

Risarcimento del danno subito, Pregiudizio fisico e psichico
riportati, Molestie sessuali, Quantificazione del danno, Danno biologico,
Danno per il pregiudizio intrinseco, personale, connesso alla sofferenza
interiore, valutato in considerazione anche della giovane età della danneggiata
e della situazione familiare

 

Ritenuto in fatto

 

Con sentenza in data 26 settembre 2014, la Corte
d’Appello di Genova, in parziale riforma della decisione del locale Tribunale,
ha aumentato ad euro 97.185,00 l’importo pari ad euro 69.110,00 riconosciuto a
titolo di risarcimento del danno in favore di M. M. M. condannando altresì in
solido la C.C. S.p.A. e la C.S.C.S.I. alla rifusione delle spese di lite.

In particolare, il giudice di secondo grado ha
ritenuto, confermando sul punto la decisione del Tribunale, che la
responsabilità indiretta del datore di lavoro ex art.
2049 cod. civ., per il fatto dannoso commesso dal dipendente, non richiede
che fra le mansioni affidate all’autore dell’illecito e l’evento sussista un
nesso di causalità, essendo sufficiente un nesso di occasionalità necessaria,
per essere irrilevante che il dipendente medesimo abbia agito con dolo o per finalità
strettamente personali.

La Corte d’appello ha, tuttavia, ritenuto
insufficiente la somma quantificata in primo grado per il risarcimento del
danno subito dalla lavoratrice, in considerazione della gravità del pregiudizio
fisico e psichico riportati per effetto delle molestie sessuali poste in essere
nei suoi confronti da due dipendenti, suoi superiori gerarchici, e seguite,
breve distanza di tempo, dallo stupro perpetrato nei propri confronti da uno
dei due.

Il giudice di secondo grado, quindi, ha reputato
equo aumentare del 50% l’importo riconosciuto a titolo di danno non
patrimoniale, per consentire un pieno ristoro del pregiudizio subito dalla
ricorrente.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso,
assistito da memoria, M. M. M., affidandolo ad un motivo.

Resistono, con controricorso, la C.C. S.p.A. e la
C.S.C.S.I..

 

Considerato in diritto

 

1. Con l’unico motivo di ricorso si censura la
decisione di merito ai sensi dell’art. 360 n. 3
cod. proc. civ., deducendosi la violazione degli artt.
112 e 116 cod. proc. civ., nonché dell’art. 2697 cod. civ., per omessa pronunzia
sull’eccepito difetto di valutazione e motivazione delle risultanze della CTU
medico legale del primo grado che riconoscevano un danno alla vita di relazione
in misura equivalente al danno biologico, deducendosi, in particolare, il
difetto di pronunzia sull’eccepito mancato riconoscimento di una voce di danno.

Il motivo è fondato.

1.1.Sottolinea parte ricorrente, al riguardo, che il
consulente tecnico d’ufficio aveva riconosciuto esiti di carattere permanente,
rappresentati dal disturbo post traumatico da stress, con stato depressivo,
quantificati in misura pari al 15% specificando, altresì, che i postumi in
questione “incidono negativamente in misura equivalente al biologico”
sulla vita di relazione della ricorrente; evidenzia, quindi, che erano state
determinate due poste, una di danno biologico pari al 15% (secondo le tabelle
del risarcimento del danno) e l’altra di danno non patrimoniale alla vita di
relazione, riconosciuto in egual misura rispetto al danno biologico e,
pertanto, pari anch’esso al 15%.

1.2. Va premesso, con riguardo all’allegata violazione
dell’art. 2697 cod. civ., che essa si configura
solamente qualora il giudice di merito applichi la regola di giudizio fondata
sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onere della prova a
una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di
scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed
eccezioni (Cass., Sez. U., 05/08/2016, n. 16598, pag. 35). Profilo che, nel
caso di specie, deve escludersi avendo il giudice di secondo grado fatto
corretta applicazione della disposizione normativa considerata e posto alla
base della decisione gli elementi di prova offerti dalla parte ricorrente, in
ossequio al disposto di cui all’art. 2697 cod. civ..

1.2.1. Quanto all’omessa pronunzia, giova rilevare
che sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina
esclusivamente le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno
emergente e del lucro cessante: art. 1223 cod. civ.)
e del danno non patrimoniale (art. 2059 cod. civ.;
art. 185 cod. pen.).

La natura unitaria e onnicomprensiva del danno non
patrimoniale, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e dalle
Sezioni Unite della Suprema Corte (Corte cost. n. 233 del 2003; Cass., Sez. U., 11/11/2008, n. 26972) implica
innanzitutto l’unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore
costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica ed
inoltre, l’onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di
tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze che abbiano inciso “in
peius” sulla precedente situazione del danneggiato derivanti dall’evento
di danno, affiancata dal limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi
diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di compiuta istruttoria, a
un accertamento concreto e non astratto del danno, e dando quindi ingresso a
tutti i necessari mezzi di prova, fra cui il fatto notorio, le massime di
esperienza, le presunzioni e il cui contenuto consenta di distinguere
definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale (Sul punto, cfr.
Cass. 20/08/2018, n. 20795). Compito del giudicante è, quindi, quello di
valutare congiuntamente, ma in modo distinto, la compiuta fenomenologia della
lesione non patrimoniale, e, cioè, tanto l’aspetto interiore del danno sofferto
(il danno definito morale, da identificarsi con il dolore, come in ipotesi
della vergogna, della disistima di sé, della paura, ovvero della disperazione)
quanto quello dinamico-relazionale (atto ad incidere in senso peggiorativo su
tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

Nella valutazione del danno in parola, in
particolare, ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla
persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente
protetto, il giudice dovrà, pertanto, valutare, a fini risarcitori, tanto le
conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale – che si collocano
nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso – quanto quelle
incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita – che si muovono nell’ambito
della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri
termini, costituisce “altro da sé” – (Cfr, in questi termini, Cass.
n. 20795/2018 cit.).

La misura standard del risarcimento prevista dalla
legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di
merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere poi
aumentata, nella sua componente dinamico – relazionale, in presenza di
conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e del tutto peculiari, quali
quelle ritenute sussistenti nel caso di specie (Cass., 21/09/2017, n. 21939,
Cass., 17/01/2018, n. 901, Cass., 27/03/2018, n. 7513).

1.2.2. Deve, quindi, ritenersi che costituisca
duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico –
inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica
incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico
relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali
“categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta
dalla norma costituzionale (art. 32 Cost.);
nondimeno, una differente ed autonoma valutazione andrà compiuta con
riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della
lesione del suo diritto alla salute, peraltro oggi alla luce dalla nuova
formulazione dell’art. 138 del c.d.a., alla lettera e).

Conseguentemente, il danno biologico, rappresentato
dall’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali
della vita del danneggiato, è pregiudizio ontologicamente diverso dal cd. danno
morale soggettivo, inteso come sofferenza interiore patita dal soggetto in
conseguenza della lesione del suo diritto alla salute; entrambi devono essere
risarciti (cfr, in terminis, Cass. 30/10/2018, n. 27482).

Sebbene il giudice debba provvedere ad una
liquidazione unitaria di tale danno, allo stesso modo di ciò che avviene con
riguardo al danno patrimoniale, dovrà essere riconosciuta al danneggiato una
somma di danaro che tenga conto del pregiudizio , complessivamente subito,
tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello
dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua
(componente, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (in questi termini,
Cass., 20/04/2016, n. 7766).

2. Alla luce del descritto panorama normativo e
giurisprudenziale appare evidente l’omissione in cui è incorsa la Corte di
merito.

La Corte, infatti, nell’affermare che “… il
danno non patrimoniale va ben al di là del pregiudizio fisico psichico … il
danno non patrimoniale deve quindi comprendere e con percentuale molto
significativa anche i suddetti pregiudizi e non può essere liquidato, come
giustamente rilevato dall’appellante principale, applicando rigidamente, sia
pure nei valori massimi, tabelle formate essenzialmente sulla responsabilità
civile legata alla circolazione stradale…” fa riferimento a quelle
conseguenze psichiche che sempre rientrano nell’ambito del danno biologico (appunto
danno fisio – psichico per stessa ammissione della Corte d’Appello) e, pure, ne
riconosce l’esigua determinazione da parte del giudice di primo grado e ne
statuisce un incremento nella misura del 50% onde procedere a quello che
ritiene il massimo ristoro possibile della lesione subita dalla ricorrente.

Omette, tuttavia, in tale liquidazione,
completamente la voce del danno morale inteso come sofferenza intrinseca ed
ulteriore del danneggiato strido sensu e che in modo inesatto il CTU denomina
danno alla vita di relazione.

In questo senso, è evidente che la personalizzazione
del danno con l’aumento in misura del 50% non soddisfa i canoni risarcitori
normativamente e giurisdizionalmente previsti, atteso che una voce, il danno
morale, quale lesione intima, interiore, la sofferenza interna come componente
indefettibile del danno non patrimoniale in determinate circostanze, peraltro
particolarmente rilevante nel caso di specie, oggetto di domanda sia in primo
che in secondo grado, è stata del tutto omessa nella motivazione non essendosi
in alcun modo provveduto al riguardo.

3. Alla luce delle suesposte argomentazioni, la
sentenza deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di
Genova, in diversa composizione, che dovrà attenersi ai principi sopra enunciati
e, ferma la voce di danno biologico tout court, riconosciuto nella misura del
15% e congruamente incrementato dalla Corte d’appello nella misura del 50%,
dovrà provvedere alla liquidazione di una autonoma voce di danno per il
pregiudizio intrinseco, personale, connesso alla sofferenza interiore, valutato
in considerazione anche della giovane età della danneggiata e della situazione
familiare e personale della stessa ma non quantificato dal giudice di merito.
La Corte d’appello provvederà altresì alla liquidazione delle spese relative al
giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e
rinvia la causa alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, anche
in ordine alle spese relative al giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 febbraio 2020, n. 4099
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