Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 febbraio 2020, n. 4879

Licenziamento disciplinare, Mancanza di ogni intento
minatorio nella frase proferita, Contesto di riferimento, Azionamento di una
eventuale controversia contro la società, Necessaria contestazione
dell’addebito disciplinare che delinei i contorni del “fatto contestato”,
Radicale difetto di contestazione dell’infrazione, Inesistenza dell’intero
procedimento e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano,
Conseguente applicazione della tutela reintegratola

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza del 21.5.2018, la Corte d’appello di
Ancona respingeva i reclami principale ed incidentale rispettivamente proposti
dalla s.r.l. C.S. Unipersonale e da M.P., quadro intermedio, avverso la decisione
del Tribunale di Fermo, che aveva accolto parzialmente il ricorso in
opposizione depositato dal P. avverso l’ordinanza del Tribunale, annullando –
per ritenuta insussistenza del fatto contestato, mancanza di ogni intento
minatorio nella frase proferita dal P. e di ogni profilo di illiceità nella
dichiarazione resa dal predetto circa la sussistenza di una congiura ai suoi
danni – il licenziamento intimato al predetto il 7.6.2017 e condannando la
società alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre che al pagamento di un
indennità pari ad € 3100,00 mensili.

2. La Corte condivideva la motivazione della
sentenza di primo grado quanto all’affermata ritenuta violazione del principio
di immutabilità della contestazione disciplinare, evincibile dalla valutazione
comparativa tra le circostanze di fatto enunciate nella missiva della
contestazione dell’addebito disciplinare e le differenti ed ulteriori
circostanze di fatto enunciate nella missiva di licenziamento. Evidenziava come
nella lettera di contestazione non fossero contenuti i riferimenti a
“ricatti, ulteriori affermazioni sconvenienti, ingiuriose e diffamanti
perché avvenuta in presenza di testimoni”. Una volta escluso che le
condotte lesive enunciate nella missiva di licenziamento (di ricatto, minaccia
e lesione dell’immagine aziendale) fossero state contestate a norma dell’art. 7 I. 300/1970, riteneva
il licenziamento viziato in radice, per insussistenza giuridica dei fatti e per
violazione del diritto di difesa nel procedimento disciplinare.

3. Il giudice del gravame osservava che la frase
proferita dal P. “io non ho nulla da perdere. Se mi faccio male io, non mi
faccio male da solo” non integrava gli estremi del ricatto o della
minaccia, considerato il contesto di riferimento – in cui venivano negate dalla
società le ferie in agosto e veniva preannunciato dal lavoratore l’azionamento
di una eventuale controversia contro la società – idoneo a qualificare il
comportamento come dettato da un particolare stato emotivo di reazione ad una
iniziativa datoriale sostanzialmente inadeguata alla situazione lavorativa. Né,
con riferimento ai fatti inizialmente contestati, era ravvisabile ogni intento
calunnioso o lesivo dell’immagine aziendale.

4. Alla stregua di tali rilievi era condivisa la
ritenuta insussistenza del fatto (materiale) contestato al lavoratore, in
quanto non connotato da illiceità e veniva confermata la correttezza della
tutela reintegratoria applicata, senza che rilevasse la diversa questione della
proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.

5. Quanto al reclamo incidentale, la Corte riteneva
che non fosse emersa prova dell’inadempimento della società, connotato da
gravità tale da mettere in discussione la serietà dei piani formativi con
rilevanza ai fini della qualificazione del rapporto con gli apprendisti ai fini
del computo degli stessi nel requisito occupazionale, essendo, tuttavia, da
considerare che il requisito occupazionale si era perfezionato in epoca successiva
al 7.3.2015, giorno di entrata in vigore del D.
Igs. 23/2015.

6. Di tale decisione ha domandato la cassazione la
società, che ha affidato l’impugnazione a due motivi, cui ha resistito, con
controricorso, il P.

7. Entrambe le parti hanno depositato memorie in
prossimità dell’adunanza camerale, nella quale è stato disposto il rinvio a
nuovo ruolo per la trattazione in pubblica udienza. Il P. ha depositato
ulteriore memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, la società ricorrente
denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 4 d. Igs. 4.3.2015 n. 23
(o, in ipotesi, dell’art. 18,
4°, 5° e 6° comma, I. 20.5.1970 n. 300), sostenendo che doveva considerarsi
la vigenza della disciplina introdotta nell’art. 1, comma 42, I. 28.6.2012 n. 92,
confermata dal d. Igs. 23/2015, per cui i vizi
procedurali anche gravi possono dare luogo solo ad una tutela indennitaria
ridotta, potendosi applicare le altre tutele solo quando vi sia sul piano
sostanziale “un difetto di giustificazione del licenziamento”.

1.1. Assume che tale disciplina, già prevista dall’art. 18, comma 6, I. 300/1970,
è stata confermata dall’art. 4 d.
Igs. 23/2015, secondo cui le violazioni procedurali comportano il
riconoscimento della sola tutela ivi prevista, a meno che il giudice non
accerti l’ingiustificatezza, anche sostanziale, del licenziamento e quindi
“i presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli artt. 2 e 3 del presente
decreto” e che la valorizzazione dell’aspetto formale non riguardi i soli
vizi meno significativi, ma anche quello più grave di totale violazione del
requisito motivazionale di cui all’art. 2, comma 2, della I.
15.7.1966 n. 604.

1.2. Afferma che, a seguito delle modifiche
normative, operative dal 18.7.2012, il datore possa licenziare senza dare
alcuna motivazione, il che, se non lo esime dal pagamento dell’indennità di cui
all’art. 18, comma 6, I.
300/70 o di cui all’art. 4 d.
Igs. 23/2015, non preclude la sua facoltà di dimostrare la sussistenza di
ragioni sostanziali di giustificatezza del licenziamento e quindi
l’insussistenza di presupposti per tutele ulteriori. Sostiene ancora la società
che alle locuzioni “fatto contestato” di cui all’art. 18, comma 4, e
“fatto materiale contestato” di cui all’art. 3 comma 2, d. Igs. 23/2015
non possa attribuirsi un significato ristretto a quello indicato nella lettera
di contestazione, ma debba attribuirsi un significato più ampio, riferito a
qualunque fatto dedotto dal datore di lavoro anche nel corso del giudizio ed,
in particolare, anche nella sua memoria difensiva di prima costituzione, quale
presupposto sostanziale del licenziamento. Ciò in quanto, diversamente, si
aprirebbe un’aporia macroscopica, per effetto della quale il datore che
licenziasse senza dare alcuna motivazione sarebbe libero di dimostrare in
giudizio ogni fatto costituente giusta causa o giustificato motivo soggettivo
di licenziamento, e quello, invece, che avesse indicato nella lettera di
contestazione un fatto a suo avviso costituente illecito disciplinare,
resterebbe prigioniero di tale formulazione, per cui gli sarebbe inibita la
facoltà di indicare già nella lettera di licenziamento e di dedurre e provare
l’esistenza di altri fatti idonei a costituire giustificazione sostanziale del
recesso.

1.3. Ritiene che esigenze sistematiche debbano
condurre anche nel secondo caso ad ammettere questa possibilità, ossia quella
per il giudice di valutare anche i fatti ulteriori e richiama pronunce della
Corte di legittimità a sostegno della validità di una tale impostazione
ricostruttiva. Peraltro, secondo la ricorrente, nella lettera di contestazione,
al punto 4, già si faceva riferimento a “frasi sconvenienti”
proferite dal P., anche se non ne era stato specificato l’esatto contenuto.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta
conseguente violazione degli artt. 112 e 359 c.p.c. e nullità della sentenza per omessa
pronuncia sui motivi indicati nelle pagg. 17 e 27-28 del reclamo, in relazione
all’art. 360, n. 4, c.p.c., adducendo che il
vizio enunciato ha determinato la mancata valutazione, da parte del giudice del
merito, degli ulteriori fatti, e cioè delle “frasi sconvenienti”
indicate genericamente nella lettera di licenziamento e specificate nella
memoria del 6.9.2017.

2.1. Ritiene che, al di là della nullità della
sentenza, ostativa ad ogni altra valutazione, in ogni caso, non potendosi
disconoscere la rilevanza disciplinare del comportamento del P., la
conseguenza, anche nel caso che i fatti posti a base del licenziamento non
presentassero un grado di gravità tale da integrare una giusta causa o un
giustificato motivo soggettivo, non potrebbe che essere quella di cui all’art. 3, 1 comma, I. 23/2015, che
limita le conseguenze sanzionatorie al pagamento di un indennità pari a due
mensilità per ogni anno di servizio, e quindi nella specie ad otto mensilità.

3. Va premesso che alla fattispecie esaminata trova
applicazione la legge 92/2012 e non quella del
d. Igs. 23/2015, posto che il P. è stato
pacificamente assunto il 2.7.2012, prima dell’entrata in vigore del d. Igs 23/2015, che ancora l’operatività della
prevista disciplina del regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo
all’avvenuta assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato dei lavoratori che rivestano la qualifica di operai, impiegati o
quadri. Tuttavia, la sostanziale uniformità di disciplina delle due normative
successive quanto alla specifica questione dibattuta, confermata dalla
prospettata formulazione del motivo con riguardo alla violazione alternativa
delle due discipline, rende la censura valutabile alla stregua della disciplina
ratione temporis applicabile.

4. La questione dibattuta è quella della
individuazione del regime di tutela applicabile in ipotesi di omessa iniziale
contestazione di taluni comportamenti, poi esplicitati nel provvedimento di
licenziamento ed idonei, secondo la tesi della ricorrente, a fondare un valido
recesso seppure con le conseguenze indennitarie connesse alla sussistenza di
vizio procedurale, ai sensi dell’art. 18, comma 6, I. 300/70 e
dell’art. 4 I. 23/2015.

5. L’art.
18, comma 6, della I. 300/70, come novellato dalla I. 92/2012 dispone che “nell’ipotesi in cui
il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito della
motivazione di cui all’art. 2,
comma 2, della legge 15 luglio 1966 n. 604 e successive modificazioni,
della procedura di cui all’art.
7 della presente legge, o della procedura di cui all’art. 7 della legge 15 luglio 1966
n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto
comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria
onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale
o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo
di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di
specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della
domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione
del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente
comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”. In termini
pressoché analoghi si esprime l’art.
4 d. Igs. 23/2015: “Vizi formali e procedurali” 1. Nell’ipotesi
in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di
motivazione di cui all’articolo
2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del
1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del
licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non
assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e
non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della
domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per
l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente
decreto”.

6. La ricorrente richiama, a sostegno della propria
versione interpretativa, pronunce di questa Corte
nn. 16265/2015 (procedimento disciplinare non conforme all’iter scandito
dall’art. 7 St. Lav. –
mancata audizione assistita del dipendente -, con motivazione di coerenza di
tutela risarcitoria attenuata di cui all’art. 18, comma 6, St. Lav.
novellato ex I. 28.6.2012 n. 92
art. 1 comma 42 lett. b), in relazione al principio per cui “un vizio
di forma non può essere disciplinato dall’ordinamento in maniera più grave di
un vizio di sostanza”) e 16896/2016
(relativa a successiva specificazione delle condotte enunciate genericamente nella
lettera di contestazione – ritenendosi nello specifico che il giudice di merito
avesse correttamente applicato l’art. 18, comma 6, della legge n.
300 sussumendo in tale previsione l’ipotesi di contestazione disciplinare
che, pur prevedendo una motivazione descrittiva dei profili di inadempimento
rinvenuti nello svolgimento dell’attività lavorativa, non conteneva una
sufficiente descrizione della condotta tenuta dal lavoratore tale da
individuare i casi specifichi di irregolarità e di negligenza rinvenuti –
valorizzando quindi la circostanza che la contestazione, seppur genericamente,
indicava i fatti posti a fondamento della condotta addebitata).

7. Queste pronunce, tuttavia, per il relativi
contenuti, non contraddicono la necessità di una contestazione dell’addebito
disciplinare che delinei i contorni del “fatto contestato”, principio
questo affermato in modo chiaro da Cass.
14.12.2016 n. 25745, secondo cui «in tema di licenziamento disciplinare, il
radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza
dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo
disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratola, di cui al
comma 4 dell’art. 18 della I.
n. 300 del 1970, come modificato dalla I. n.
92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di
difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo». In tale
pronuncia si argomenta diffusamente sulle conseguenze radicali connesse al
difetto di contestazione dell’infrazione (elemento essenziale di garanzia del
procedimento disciplinare, come osservato Cass. n.
1026/15, Cass. n. 2851/06, e costituente espressione di un inderogabile
principio di civiltà giuridica, C. Cost. n.
204/1982), evidenziandosi come del resto la tutela reintegratoria sia
prevista anche dal comma 6, che richiama, per il caso di difetto assoluto di
giustificazione del licenziamento, la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 (reintegra ed
indennità pari sino a 12 mensilità della retribuzione), la quale sanziona con
la reintegra il licenziamento ontologicamente disciplinare ove sia accertata
l’insussistenza del fatto contestato (e non semplicemente addebitato) (cfr., in
tali termini, Cass. 25745/2016 cit.). L’
esigenza che il fatto contestato sia delineato nei suoi contorni sì da
cristallizzare il fatto ascritto al dipendente è affermata nella successiva
giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass.
24.7.2018 n. 19632 – paragrafo 7 della motivazione – secondo cui “In
tema di licenziamento disciplinare, ove la contestazione sia stata formulata in
maniera generica per una parte dell’addebito, è corretto l’operato del giudice
di merito che abbia valutato, ai fini della verifica circa la legittimità, o
meno, della sanzione, solo i fatti specificamente contestati, senza tener conto
dei fatti genericamente indicati”). Nello stesso solco si pongono Cass. 28.8.2018 n. 21265 e Cass. 25.3.2019 n.
8293, che, a sua volta, richiama Cass. 19632/2018
cit., sempre in tema di mancanza di coincidenza del fatto oggetto del
licenziamento con quello originariamente contestato e di conseguente tutela reintegratoria,
con tutela indennitaria debole, per il vizio in questione.

8. Il Collegio, a fronte del delineato quadro
normativo e giurisprudenziale di legittimità, ritiene che la questione debba
essere affrontata e risolta nei termini di seguito esposti.

9. Nel caso in cui il licenziamento non risulti
ingiustificato, ma sia formalmente viziato, e quindi inefficace, per violazione
dell’ obbligo di motivazione di cui al nuovo testo dell’art. 2, comma 2, della legge n.
604 del 1966 della procedura disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970
o della nuova procedura di preventiva conciliazione di cui all’art. 7 della legge n. 604 del 1966,
trova applicazione una sanzione indennitaria (sempre sostitutiva del posto di
lavoro) ridotta, perché variabile da un minimo di 6 ad un massimo di 12
mensilità, tenuto conto della gravità della violazione formale commessa (art. 18, comma 6).

10. E’ pacifico che il regime sanzionatorio in
questione è esclusivamente limitato alle violazioni delle disposizioni di legge
espressamente citate e non riguarda anche il licenziamento orale, anche perché
il requisito della forma scritta è richiesto dall’art. 2, comma 1, della legge n.
604 del 1966.

11. L’impianto di questa parte della disposizione è
nei suoi tratti essenziali chiaro, nel senso che, se il licenziamento presenta
i vizi formali sopra richiamati, si applica la ridotta tutela indennitaria,
ferma restando però l’applicazione delle diverse tutele previste dall’art. 18, commi 4°, 5° o 7° –
in sostituzione della tutela indennitaria ridotta e non in aggiunta ad essa –
nel caso in cui emerga, su domanda del lavoratore, l’ingiustificatezza del
licenziamento (ossia l’inesistenza di un giustificato motivo soggettivo,
oggettivo o di una giusta causa il cui onere della prova, una volta che il
lavoratore ha spiegato la sua domanda, resta comunque in capo al datore di
lavoro ai sensi dell’art. 5
della legge n. 604 del 1966).

12. Il problema si pone in relazione alle
conseguenze legate ad un’interpretazione letterale della legge, che potrebbe
condurre a ritenere operativa questa sanzione ridotta anche in relazione ai
casi in cui il licenziamento per motivi soggettivi non sia preceduto da una
contestazione disciplinare dei fatti ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970.
Conclusione, quest’ultima, che renderebbe incoerente il funzionamento del
meccanismo sanzionatorio dell’art.
18 che, come rilevabile dalla complessiva disciplina delle tutele,
distribuisce reintegrazione e tutela economica sostituiva del posto di lavoro
facendo perno sulla valutazione dei fatti posti alla base del licenziamento:
precisamente, sulla valutazione “del fatto contestato” (art. 18, comma 4).

13. Aderendo ad una tale impostazione ermeneutica,
invero, il datore di lavoro potrebbe allegare per la prima volta in giudizio, e
dopo aver letto il ricorso del lavoratore, i fatti posti a base del
licenziamento, potendo beneficiare, ove tali fatti siano provati ed idonei a
configurare un valido motivo di licenziamento, di un regime sanzionatorio
contenuto se raffrontato alle ulteriori sanzioni previste dalla medesima
disposizione.

14. Appare preferibile, pertanto, la diversa
interpretazione secondo la quale, ove il licenziamento venga intimato senza
contestazione disciplinare, lo stesso continua, come in passato, ad essere
considerato ingiustificato ed è sanzionato con la reintegrazione ad effetti
risarcitori limitati.

15. La giustificazione della tutela reintegratoria
si rinviene nel fatto che, ai sensi dell’art. 18, comma 4, St. Lav.,
tale tutela è prevista in caso di “insussistenza del fatto
contestato”, che implicitamente non può che ricomprendere anche l’ipotesi
di inesistenza della contestazione.

16. In conclusione, verificato che le pronunce
citate a supporto della tesi interpretativa della società non sono relative ad
ipotesi sovrapponibili a quella qui esaminata, in cui neanche genericamente uno
dei fatti ascritti al lavoratore era indicato nella contestazione, si ritiene
che la previsione normativa, che parla di “fatto contestato” (fatto
materiale contestato nel regime del d. Igs.
23/2015), sia indicativa della necessità che il fatto, la cui sussistenza o
insussistenza deve essere accertata in giudizio, sia delineato nei suoi esatti
termini e contorni in sede di contestazione. Ciò risulta coerente anche con la
esigenza di riconoscere idonee garanzie di difesa al lavoratore in sede di
giustificazioni, essendo evidente che il fatto da provare da parte del datore
di lavoro risenta anche delle giustificazioni fornite dal primo, che, ove
esaustive e dirimenti, potrebbero indurre il datore anche a desistere dal
proseguire nel procedimento disciplinare ed a non irrogare la sanzione
espulsiva rispetto alla quale la contestazione dell’addebito era funzionale.

17. In tale direzione, nel senso della parziale
svalutazione della regolarità procedurale ove questa incida in maniera
significativa sui diritti di difesa del lavoratore, si pongono, del resto anche
Cass. s. u. 30985 del 2017 in tema di
tardività di contestazione disciplinare, Cass.
24.7.2018, n. 19632, Cass. 14.2.2016 n. 25745
sopra citate, Cass. 11159/2018 (quest’ultima riferita al principio di
immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare, ravvisato come non
preclusivo di modificazioni relative a circostanze di mero contorno, vale a
dire prive di valore identificativo della stessa fattispecie, soltanto ove le
stesse non impediscano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze
acquisite e degli elementi a discolpa apprestati a seguito della contestazione
dell’addebito).

18. Quanto al secondo motivo di ricorso, è
sufficiente osservare che il vizio di omessa pronuncia, configurabile allorché
manchi completamente il provvedimento del giudice indispensabile per la
soluzione del caso concreto, deve essere escluso, pur in assenza di una
specifica argomentazione, in relazione ad una questione implicitamente o
esplicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza (cfr. Cass. 26.1.2016 n. 1360). Ed invero, la figura
dell’assorbimento può aversi in forma esplicita, allorché la decisione spieghi
espressamente le ragioni per cui la domanda assorbita è ritenuta superflua,
ovvero anche in forma implicita, allorquando l’affermazione contenuta in
motivazione sia logicamente incompatibile con l’accertamento richiesto nella
domanda implicitamente assorbita (cfr. Cass. 6.4.2018 n. 8571).

19. Il ricorso va, per tutto quanto sopra detto,
complessivamente respinto.

20. Le spese del presente giudizio seguono la
soccombenza della ricorrenti e sono liquidate in dispositivo.

21. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115
del 2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente
al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in
euro 200,00 per esborsi, euro 5000,00 per compensi professionali, oltre
accessori di legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie nella misura del
15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo previsto a titolo
di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato
D.P.R., ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 febbraio 2020, n. 4879
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