La commissione di un reato può incidere sul rapporto di lavoro realizzando una lesione del vincolo di fiducia fra le parti e legittimando il licenziamento del lavoratore.

 Nota a Cass. 10 febbraio 2020, n. 3076

C. Nikita Placco

“La condotta costituente reato, anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso, può integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzata prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si riveli, attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto che in concreto, incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”.

L’importante principio è ribadito dalla Corte di Cassazione (10 febbraio 2020, n. 3076, parz. difforme da App. Napoli n. 12256/2014) che ha condiviso le conclusioni della Corte territoriale, la quale aveva escluso la concreta lesione del vincolo di fiducia tra le parti, specificando che i fatti contestati, pur se connotati da gravità (associazione per delinquere, crimine organizzato transnazionale ed evasione fiscale), e potenzialmente rilevanti ai fini della perdita dell’elemento fiduciario, non erano in alcun modo connessi alla attività lavorativa e alle mansioni di postino espletate dal lavoratore. Per di più, come evidenziato dal giudice di merito, durante il processo penale il dipendente era stato lasciato al suo posto fino al momento del recesso, senza l’adozione di alcun provvedimento cautelativo.

La Cassazione si è invece discostata dalla pronunzia di merito che, con riguardo al licenziamento, aveva collegato la sussistenza o manifesta insussistenza del fatto al difetto degli elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo.

I giudici di legittimità sottolineano infatti che, sotto l’aspetto metodologico, si tratta di due valutazioni diverse (che devono essere svolte autonomamente): l’una concernente la esistenza della giusta causa e l’altra relativa alla tutela applicabile.

In quest’ottica, il giudizio deve fondarsi sull’accertamento della ricorrenza o meno della giusta causa e del giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni di legge; e, qualora escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve svolgere, per individuare la tutela applicabile, una ulteriore analisi circa la sussistenza o meno delle due condizioni previste per accedere alla tutela reintegratoria di cui al co. 4 dell’art. 18 Stat. Lav. (come mod. dalla L. n. 92/2012, c.d. Riforma Fornero). Egli dovrà pertanto valutare se si versi in un’ipotesi di “insussistenza del fatto contestato” ovvero se il fatto rientra “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, dovendo, in assenza, applicare il regime di cd. tutela indennitaria dettato dal co. 5, art. 18 cit.  (v. Cass. S.U. n. 30985/2017).

Con specifico riferimento al concetto di “fatto”, la Cassazione sottolinea che la tutela reintegratoria (di cui all’ art. 18 co. 4, cit.), “oltre che quella della assenza ontologica del fatto, comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità…, ma non… disciplina un concetto di “fatto giuridico” (Cass. n. 3655/2019 e Cass. n. 29062/2017). Per cui, la Corte territoriale, dopo aver escluso la giusta causa di licenziamento, avrebbe dovuto valutare se il fatto addebitato, seppur sussistente nella sua materialità, presentasse o meno quei caratteri di illiceità (con accesso alla tutela reintegratoria di cui al co. 4, art. 18, cit., in caso di accertata insussistenza del fatto giuridico) ovvero la fattispecie fosse riconducibile all’ambito operativo delle “altre ipotesi” di cui all’art. 18, co. 5, cit., che giustifica solo una tutela indennitaria forte, ma non la reintegrazione nel posto di lavoro.

Il Collegio, afferma altresì che la verifica sul carattere di illiceità della condotta extralavorativa costituente reato (accertato successivamente con sentenza passata in giudicato), rilevante per il rapporto di lavoro (a prescindere dalle previsioni del ccnl) e commesso quando il rapporto stesso non era ancora in essere, non va rapportata alla responsabilità disciplinare, in quanto questa non configura un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ai sensi degli artt. art. 2104 e 2105 cc. La suddetta verifica, invece, deve essere parametrata con riguardo alla rilevanza giuridica che il comportamento del soggetto può rivestire in relazione al “disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda”. Non vi è infatti una perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare (stante la autonomia tra i due giudizi). Il che consente di evitare che ogni condotta, comunque accertata come reato, sia considerata illecita e, quindi, idonea a giustificare un licenziamento.

“A titolo meramente esemplificativo, infatti, la rilevanza che può assumere, ai fini disciplinari, con riguardo al carattere di illiceità richiesto dall’art. 18, co. 4 legge n. 300 del 1970, un reato contravvenzionale colposo, commesso prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro ma accertato successivamente, è certamente diversa dalla commissione di un delitto la cui violazione del bene giuridico protetto, in termini di antigiuridicità, può incidere in modo più intenso e concreto nell’ambito del rapporto lavorativo contrattuale tra datore e dipendente”.

 

Reato commesso prima dell’assunzione e licenziamento
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