Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 marzo 2020, n. 5748

Dispositivi di protezione individuale, Obbligo di lavaggio e
manutenzione, Inadempimento, Risarcimento dei danni, Obbligo di continua
fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro
inquadrabili nella categoria dei D.P.I.

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 256 depositata il 16.7.18, la
Corte d’appello di Cagliari, in accoglimento dell’impugnazione proposta da D.T.
s.p.a e in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di
A.D., F.G., M.G., O.A., di condanna di parte datoriale al risarcimento dei
danni da inadempimento dell’obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi
di protezione individuale (D.P.I.);

2. la Corte territoriale, richiamata la definizione
di D.P.I. dettata dall’art.
40, comma 1, D.Lgs. n. 626 del 1994, (“qualsiasi attrezzatura
destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo
contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute
durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale
scopo”), nonché le previsioni di cui al D.Lgs.
n. 475 del 1992 e alla circolare del Ministero
del Lavoro n. 34 del 29.4.99, ha precisato come dispositivi di protezione
individuale fossero solo quelli aventi, secondo valutazioni tecnico
scientifiche, la funzionalità tipica di protezione dai rischi per la salute e
la sicurezza e che rispondessero ai requisiti normativamene dettati per la
relativa realizzazione e commercializzazione;

3. ha escluso che gli indumenti da lavoro forniti
dalla società datoriale potessero essere qualificati D.P.I. in quanto non destinati
a fornire una adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive o
agenti patogeni; come peraltro desumibile dal c.c.n.l.
2.8.1995, che prevedeva solo la fornitura “in uso gratuito” degli
“indumenti da lavoro” elencati nell’art. 22, e dal successivo c.c.n.l. 30.4.2003 secondo cui gli indumenti
rientrano nei D.P.I. “solo in caso di specifica destinazione a finalità
protettive da parte del piano di valutazione dei rischi”; il documento di
valutazione dei rischi (D.V.R.) redatto dalla società contemplava uno specifico
corredo antinfortunistico per le mansioni di raccoglitore (protezione delle
mani: guanti contro le aggressioni meccaniche e chimiche; protezione dei piedi:
calzature di sicurezza con dotazione di lamina antiforo e suola antisdrucciolo;
protezione della persona: dispositivi di alta visibilità applicati sugli
indumenti; protezione contro gli agenti atmosferici: impermeabile con
dispositivi ad alta visibilità”) che non includeva gli indumenti; ha
definito “adeguata” la contestata scelta datoriale, anche alla luce
del verbale ispettivo dell’Ausl n. 8 “che aveva ritenuto di difficile
quantificazione il livello di pericolosità del servizio di raccolta
rifiuti”;

4. la Corte di merito ha negato che la società
appellante fosse classificabile come industria insalubre di prima classe sul
rilievo che il D.M. 5.9.94 ha individuato come
tali unicamente gli impianti di depurazione e trattamento dei rifiuti solidi e
liquami e gli impianti di trattamento, lavorazione e deposito dei rifiuti
tossici e nocivi e non i servizi di raccolta e smaltimento rifiuti svolti dai
lavoratori in questione;

5. ha dato atto di come il verbale di sopralluogo
dell’Asl del 4.8.2005 avesse indicato l’esistenza, nel settore della raccolta
dei rifiuti, di un elevato (“pericolo maggiore”) “rischio
infettivo” richiamando, a proposito degli indumenti da lavoro, la
previsione normativa sui D.P.I.; il medesimo verbale aveva fatto riferimento
anche ad una “potenziale esposizione ad agenti microbiologici” ma
riferita esclusivamente ai “casi di punture da ago e ferite da
taglio” e ad alcune categorie di lavoratori con “mansioni di
spazzino, di riporta sacchi, di addetto allo svuotamento dei pozzetti delle
caditoie stradali” non svolte dagli appellati;

6. ha, infine, desunto dalla previsione contenuta
nel citato verbale, di un lavaggio settimanale degli indumenti da parte della
società, la conferma ulteriore della non appartenenza degli indumenti da lavoro
in oggetto alla categoria dei D.P.I., risultando altrimenti l’unico lavaggio
settimanale misura inidonea a preservare la salute dei dipendenti;

7. avverso tale sentenza i lavoratori hanno proposto
ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, cui ha resistito con
controricorso la società;

8. i ricorrenti hanno depositato memoria, ai sensi
dell’art. 380 bis. c.p.c.;

 

Considerato che

 

9. col primo motivo di ricorso i lavoratori hanno
censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione del D.L.gs. n. 626 del 1994 e dell’art. 216, T.U. n. 1265 del 1934,
per aver escluso che la D.T. s.p.a. fosse classificabile come impresa insalubre
di prima classe;

10. col secondo motivo i ricorrenti hanno dedotto,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.,
violazione e falsa applicazione degli artt. 2087
c.c., 40, D.Lgs. n. 626
del 1994; 1, comma 2, D.Lgs.
n. 475 del 1992; 379 del
D.P.R. n. 547 del 1955 e 43,
comma 4, D.Lgs. n. 626 del 1994, per avere la sentenza impugnata affermato
che gli indumenti forniti ai lavoratori per lo svolgimento della prestazione
non avessero alcuna funzione protettiva e quindi non fossero classificabili
come D.P.I.;

11. col terzo motivo hanno denunciato violazione e
falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché omesso esame di un punto
decisivo della controversia, ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 5 c.p.c., per avere la Corte d’appello erroneamente escluso
il rischio alla salute, certificato dalle relazioni dell’Ausl, cui erano
esposti i lavoratori per il contatto con i rifiuti solidi urbani e per il
lavaggio nella propria abitazione degli indumenti usati durante l’attività
lavorativa; hanno richiamato il verbale ispettivo del 4.8.2005 che aveva
evidenziato l’esistenza, nel settore della raccolta e dello stoccaggio dei
rifiuti solidi urbani, di un rischio di esposizione degli addetti ad agenti
microbiologici, con particolare riferimento al virus dell’epatite B (HBV), e
con pericolo di contatto, specie per alcune mansioni come quelle dei
portasacchi, riguardante varie parti del corpo tra cui mani, braccia, gambe;

12. col quarto motivo i ricorrenti hanno dedotto
erronea valutazione degli artt.
4, comma 2, e 42 del
D.Lgs. n. 626 del 1994, ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata considerato
attendibile il piano di valutazione dei rischi eseguito dal datore di lavoro;

13. col quinto motivo di ricorso hanno censurato la
decisione per violazione e falsa applicazione degli artt.
2087 c.c., 4, D.Lgs. n. 626
del 1994; dell’art. 67, comma 2, lett. a)
c.c.n.l. 30.4.2003, in relazione all’art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’appello escluso che gli
indumenti da lavoro forniti ai dipendenti costituissero D.P.I. in quanto non
menzionati nel piano di valutazione rischi aziendale;

14. col sesto motivo i lavoratori hanno dedotto
violazione e falsa applicazione degli artt. 115
e 116 c.p.c. e dell’art.
2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1,
n. 5 c.p.c., per omesso esame di un punto decisivo della controversia ed,
esattamente, per avere la Corte d’appello erroneamente disatteso che tra gli
indumenti forniti dall’azienda al lavoratore fossero ricomprese le scarpe, i
guanti e la pettina alta visibilità che nel D.V.R. aziendale erano classificati
D.P.I.;

15. il secondo, il terzo e il quinto motivo di
ricorso, che si trattano in via prioritaria ed unitariamente per ragioni di
ordine logico, sono fondati nei limiti di seguito esposti e in continuità con
l’indirizzo espresso da questa Corte, in fattispecie assolutamente identiche
(cfr. ordinanze n. 16749 del 2019; n. 17132 del 2019; n. 17354 del 2019), secondo
cui “In tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi
di lavoro, la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.)
non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e
commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a
caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura,
complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera
protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del
lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c.; ne consegue la configurabilità
a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di
mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili
nella categoria dei D.P.I.”;

16. deve essere, in primo luogo, ricordato che, ai
sensi dell’art. 40, D.Lgs. n.
626 del 1994, recante attuazione delle direttive
89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il
miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di
lavoro, “1. Si intende per dispositivo di protezione individuale qualsiasi
attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo
di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza
o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a
tale scopo. 2. Non sono dispositivi di protezione individuale: a) gli indumenti
di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la
sicurezza e la salute del lavoratore;…”;

17. tale previsione si pone in continuità con quelle
di cui al D.P.R. n. 547 del 1955; ai sensi
dell’art. 377, relativo a
“Mezzi personali di protezione”, “il datore di lavoro, fermo
restando quanto specificatamente previsto in altri articoli del presente
decreto, deve mettere a disposizione dei lavoratori mezzi personali di
protezione appropriati ai rischi inerenti alle lavorazioni ed operazioni
effettuate, qualora manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di
protezione. – I detti mezzi personali di protezione devono possedere i
necessari requisiti di resistenza e di idoneità nonché essere mantenuti in
buono stato di conservazione”; secondo l’art. 379 relativo agli
“Indumenti di protezione”, ” Il datore di lavoro deve, quando si
è in presenza di lavorazioni, o di operazioni o di condizioni ambientali che
presentano pericoli particolari non previsti dalle disposizioni del Capo
3″ del presente Titolo (art.
366 ss.), mettere a disposizione dei lavoratori idonei indumenti di
protezione”).

L’art.
40 cit. è stato poi sostituito dall’art. 74, D.Lgs. n. 81 del 2008,
che ne ricalca interamente il testo;

18. il D.Lgs. n. 626 del 1994, all’art. 4,
comma 5, prevede che “il datore di lavoro adotta le misure necessarie per
la sicurezza e la salute dei lavoratori e, in particolare lett. d) fornisce ai
lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito
il responsabile del servizio di prevenzione e protezione”;

19. l’interpretazione data dalla Corte di merito al
citato art. 40, volta a
far coincidere i D.P.I. con le attrezzature formalmente qualificate come tali
in ragione della conformità a specifiche caratteristiche tecniche di
realizzazione e commercializzazione, non tiene adeguatamente conto del tenore
letterale delle disposizioni richiamate e, soprattutto, della finalità delle
stesse, di tutela della salute quale diritto fondamentale (art. 32 Cost.);

20. l’espressione adoperata dall’art. 40 cit., che fa
riferimento a “qualsiasi attrezzatura” nonché ad “ogni
complemento o accessorio” destinati al fine di proteggere il lavoratore
“contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza e la
salute durante il lavoro”, deve essere intesa nella più ampia latitudine
proprio in ragione della finalizzazione a tutela del bene primario della salute
e dell’ampiezza della protezione garantita dall’ordinamento attraverso non solo
disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione e protezione a
carico del datore di lavoro, ma anche attraverso la norma di chiusura di cui
all’art. 2087 c.c.;

21. lo stesso D.Lgs. 81
del 2008 (seppure non applicabile ratione temporis) contiene nell’allegato VIII un “Elenco” espressamente
definito “indicativo e non esauriente delle attrezzature di protezione
individuale”, che costituisce la conferma del contenuto necessariamente
“aperto” della categoria dei mezzi di protezione e quindi della
correttezza della sola interpretazione in grado di salvaguardare l’ampiezza
dell’obbligo di tutela posto anche dalle disposizioni in esame;

22. da tali premesse discende come la previsione
dell’art. 43, commi 3 e 4,
D.Lgs. n. 626 del 1994, secondo cui “3. Il datore di lavoro fornisce
ai lavoratori i DPI (dispositivi di protezione individuale) conformi ai
requisiti previsti dall’art.
42 e dal decreto di cui all’art.
45, comma 2″; 4. Il datore di lavoro: – a) mantiene in efficienza i
DPI (dispositivi di protezione individuale) e ne assicura le condizioni
d’igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie
(…)”, non possa essere letta in senso limitativo del contenuto e del novero
dei D.P.I., come ha fatto la Corte d’appello, bensì quale previsione di un
ulteriore obbligo di carattere generale, posto a carico del datore di lavoro,
di adeguatezza dei D.P.I. e di manutenzione dei medesimi;

23. parimenti non rilevante è la circostanza della
previsione o meno degli specifici D.P.I. nell’ambito del documento di
valutazione dei rischi, atteso che l’obbligo posto dall’art. 4, comma 5 del D.L.gs. n. 626
del 1994 di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di
protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è
tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia
specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi,
confezionato dal medesimo datore di lavoro (in tal senso, con riferimento alla
omologa previsione di cui all’art.
18, lett. d), D.Lgs. n. 81 del 2008, cfr. Cass. pen., n. 13096 del 2017);

24. la categoria dei D.P.I. deve essere quindi
definita in ragione della concreta finalizzazione delle attrezzature, degli
indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai
rischi per la salute e la sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, a
prescindere dalla espressa qualificazione in tal senso da parte del documento
di valutazione dei rischi e dagli obblighi di fornitura e manutenzione
contemplati nel contratto collettivo;

25. da questo punto di vista appare coerente la
distinzione che l’art. 40 cit.
pone tra ciò che integra un D.P.I. e ciò che non è tale; in particolare, la
lett. a) del comma 2 esclude che costituiscano D.P.I. “gli indumenti di
lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la
sicurezza e la salute del lavoratore”, vale a dire gli indumenti che in
nessun modo sono correlati alla finalità di protezione da un rischio per la
salute, e che assolvono unicamente alla funzione di uniforme aziendale o di
preservare gli abiti civili;

26. in tal senso si è espressa la circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 1999
(che non costituisce fonte del diritto, ma presupposto chiarificatore della
posizione espressa dall’Amministrazione su un determinato oggetto, cfr. Cass.
n. 7889 del 2011; n. 23042 del 2012; n. 1577 del 2014; n.
280 del 2016) che ha elencato le diverse funzioni a cui possono assolvere
gli indumenti di lavoro, in particolare: a) elemento distintivo di appartenenza
aziendale, ad esempio uniformi o divise; b) mera preservazione degli abiti
civili dalla ordinaria usura connessa all’espletamento dell’attività
lavorativa; c) protezione da rischi per la salute e la sicurezza; la circolare
ha specificato che “in quest’ultimo caso gli indumenti rientrano nei
dispositivi di sicurezza che assolvono alla funzione di protezione dai rischi,
ai sensi dell’art. 40 del
Decreto Legislativo 19 settembre 1994 n. 626. Rientrano, ad esempio, tra i
D.P.I. … gli indumenti per evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche,
corrosive o con agenti biologici ecc.”;

27. questa Corte ha più volte affermato, anche sotto
il vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994, come
“in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di
lavoro, ed in particolare di fornitura ai lavoratori di indumenti, alla stregua
della finalità della disciplina normativa apprestata dal legislatore, per
“indumenti di lavoro specifici” si debbono intendere le divise o gli
abiti aventi la funzione di tutelare l’integrità fisica del lavoratore nonché
quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni,
volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi (come la
tuta ignifuga del vigile del fuoco), oppure a migliorare le condizioni
igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue
incombenze, onde scongiurare il rischio potenziale di contrarre malattie, come
appunto deve reputarsi per la divisa dell’operatore ecologico (cfr. Cass. n. 11071 del 2008; nello stesso senso Cass.
n. 23314 del 2010);

28. con particolare riferimento agli operatori
ecologici, addetti alla raccolta dei rifiuti, questa Corte ha sempre affermato
l’obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul
presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti medesimi
come dispositivi di protezione individuale;

29. si è precisato come “l’idoneità degli
indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei
lavoratori – a norma del D.P.R.
n. 547 del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai sensi dell’art. 40, art. 43, commi 3 e 4, di tale
decreto, per il periodo successivo – deve sussistere non solo nel momento della
consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l’intero periodo di
esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti,
finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario
assoluto (art. 32 cost.), solo nel suddetto
modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è
quello di prevenire l’insorgenza e il diffondersi d’infezioni. Ne consegue che,
essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di
efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale
destinatario dell’obbligo previsto dalle citate disposizioni”, (cfr. Cass.,
n. 11139 del 1998; n. 22929 del 2005; n. 14712 del 2006; n. 22049 del 2006; n. 18573 del 2007; n. 11729 del 2009; n. 16495
del 2014; n. 8585 del 2015);

30. nella sentenza n.
18674 del 2015, questa Corte, nel confermare la pronuncia di appello che
aveva qualificato come D.P.I. gli indumenti usati da una lavoratrice addetta
alla pulizia delle carrozze dei treni, attività comportante la raccolta di
rifiuti, lo svuotamento di cestini e portacenere e l’inevitabile contatto con
sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, residui organici, ha
affermato che “per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la
semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo
di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell’azienda per
cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e
tenuta in stato idoneo”; la medesima pronuncia ha ritenuto come
l’inclusione degli indumenti tra i D.P.I. in ragione della funzione protettiva
svolta dovesse prescindere dalla loro qualificazione o meno in tal senso da
parte delle fonti contrattuali collettive e, deve aggiungersi, anche da parte
del documento di valutazione dei rischi;

31. sulla base del quadro normativo in materia di
protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di rilievo
costituzionale nonché attuativo delle direttive europee (a partire dalla direttiva quadro 89/391/CE) e delle convenzioni
internazionali, incentrato sull’obbligo di prevenzione quale insieme di
“disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell’attività
lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della
salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno” (art. 2, lett. g), D.Lgs. n. 626
del 1994), la giurisprudenza di legittimità ha collegato l’obbligo di
fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima, dei medesimi
di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell’attività lavorativa,
costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le misure
necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e quindi per
prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l’insorgere e la
diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui il
rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in ambito
domestico;

32. nessun rilievo può attribuirsi alle pronunce di
legittimità richiamate nella sentenza impugnata e nel controricorso (Cass. nn. 2625, 5176,
13745 del 2014), in quanto relative a
lavoratori non addetti alla raccolta dei rifiuti, bensì a mansioni di
giardiniere; neppure paiono significativi i precedenti di questa Corte
(sentenze Sez. 6, nn. 13931 – 13936, 13707, 14033 – 14035, tutte pronunciate
all’udienza del 15.4.2014) in cui è precisato come fosse estraneo al giudizio
trattato il thema decidendum “della tutela della salute, della conformità
degli indumenti forniti alla normativa vigente e, quindi, della violazione
dell’art. 2087 c.c., dell’art. 35, punti 1 e 3 (b e c),
art. 4 (c) e D.Lgs. n. 626 del
1994, art. 40…”;
peraltro, nelle fattispecie decise con le sentenze del 2014 appena richiamate
non risulta che l’azienda avesse accettato di farsi carico del lavaggio
settimanale degli indumenti da lavoro, come invece avvenuto da parte della
società attuale controricorrente, a seguito delle prescrizioni contenute nel
verbale ispettivo dell’Asl;

33. la sentenza impugnata ha dato atto dell’esito
del sopralluogo effettuato dall’Asl il 4.8.2005 che aveva individuato
l’esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti svolta dalla società, di un
rischio infettivo, più esattamente di un rischio da contatto con sostanze
tossiche, nocive ed agenti biologici;

34. la Corte di merito, nonostante l’accertamento
sulla esistenza di rischi, specie di natura infettiva, per la salute dei
lavoratori impegnati nell’attività di raccolta dei rifiuti, rischi legati al
possibile contatto con sostanze nocive, tossiche o corrosive, ha escluso la
qualificazione degli indumenti forniti dalla società come D.P.I. sul rilievo
che gli stessi non possedessero una specifica funzionalità protettiva
desumibile da caratteristiche tecniche dettate per la loro realizzazione e
commercializzazione, e ciò nonostante non risultassero adottati altri strumenti
in grado di fronteggiare il rischio pacificamente accertato, cosicché le tute
rappresentavano per gli operatori ecologici l’unico schermo di protezione in
concreto utilizzabile contro il possibile contatto con sostanze nocive per la
salute;

35. in tal modo la sentenza impugnata è incorsa nel
denunciato vizio di violazione di legge avendo interpretato l’art. 40, comma 1, D.Igs. n. 626
del 1994, e la nozione legale di D.P.I. come limitata alle attrezzature
appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi
alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate; laddove la
disposizione suddetta, per l’ampio tenore letterale della previsione e la
precipua finalità di tutela di beni fondamentali del lavoratore, deve essere
letta, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, nel senso di
includere nella categoria dei D.P.I. qualsiasi attrezzatura, complemento o
accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure
ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza
del lavoratore, ai fini dell’adempimento datoriale all’obbligo, posto dall’art. 4, comma 5, D.Igs. n. 626 del
1994;

36. l’accoglimento del secondo, terzo e quinto
motivo di ricorso, porta a ritenere assorbiti il primo e il sesto motivo;

37. risulta, invece, inammissibile il quarto motivo
di ricorso in quanto contenente censure di incompletezza ed inattendibilità del
D.V.R. che non è stato, tuttavia, prodotto né trascritto nelle parti rilevanti;

38. la sentenza impugnata deve essere pertanto
cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese del
presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Cagliari, in diversa
composizione, che provvederà ad un riesame della fattispecie attenendosi a
tutti i principi sopra enunciati;

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo, terzo e quinto motivo di
ricorso nei limiti di cui in motivazione, dichiara inammissibile il quarto
motivo, assorbiti il primo e il sesto; cassa la sentenza impugnata in relazione
ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Cagliari, in diversa
composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

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