Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 marzo 2020, n. 6264

Inail, Reiterazione di incarichi a medici specialisti,
Instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, Rapporti
disciplinati ex art. 48 L. n.
833/1978 e dagli accordi collettivi nazionali, corrispondono a rapporti
libero-professionali, Assenza di alcun potere autoritativo, all’infuori di
quello di sorveglianza, da parte dell’Ente pubblico

Fatti di causa

 

1. La Corte d’ Appello di Napoli ha respinto
l’appello proposto da V.V. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede
che aveva rigettato la domanda, formulata dall’appellante nei confronti
dell’Inail, volta ad ottenere la condanna al pagamento della somma di € 144.405,55
richiesta a titolo di risarcimento del danno, anche ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001,
in relazione all’illegittima reiterazione di incarichi conferiti nell’arco
temporale febbraio 1995/marzo 2006, senza sostanziale soluzione di continuità,
ad eccezione del periodo gennaio 1998/settembre 1999.

2. Al ricorrente, medico specialista in chirurgia
plastica, l’ente previdenziale aveva conferito incarichi trimestrali ai sensi
dell’art. 10, comma 7, del d.P.R. n. 500/1996 e dell’art. 10, comma 8, del
successivo d.P.R. n. 271/2000 ma di fatto, secondo l’assunto dell’appellante,
si era instaurato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e, pertanto,
l’Istituto era tenuto a corrispondere il trattamento retributivo previsto per i
dirigenti medici degli enti pubblici non economici dai C.C.N.L. succedutesi nel
tempo.

3. La Corte territoriale ha evidenziato che al Volpe
era stato corrisposto, con il suo consenso, il compenso previsto dall’art. 28 del
d.P.R. n. 271/2000 per i sostituti non titolari di altro incarico ed ha
aggiunto che null’altro poteva essere preteso, sia perché i rapporti a termine
non possono essere convertiti in contratti a tempo indeterminato ex art. 36 d.lgs. n. 165/2001,
sia in quanto le risultanze istruttorie non consentivano di ritenere provata
l’asserita continuità della prestazione.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso Vincenzo Volpe sulla base di tre motivi, di cui il primo articolato in
più punti, ai quali l’Inail ha opposto difese con tempestivo controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art.
378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001
ed addebita alla Corte territoriale di avere valorizzato della norma il solo
divieto di conversione, omettendo di considerare che il legislatore ha comunque
riconosciuto il diritto del lavoratore ad essere risarcito del danno derivante
dalla prestazione di  lavoro in
violazione di disposizioni imperative. Richiama giurisprudenza della Corte di
Giustizia per sostenere che in caso di reiterata assunzione a termine l’abuso
deve essere sanzionato e, pertanto, nella fattispecie non poteva essere negato
il risarcimento, in quanto l’Istituto aveva violato i d.P.R. nn. 500/1996 e
271/2000, reiterando per oltre dieci anni incarichi che dovevano essere
provvisori. Infine il ricorrente invoca l’applicazione dell’art. 32, commi 5 e 7, della legge n.
183/2010 e sostiene che l’indennità forfetizzata andava riconosciuta, anche
d’ufficio e in ogni stato e grado del giudizio, a prescindere dall’intervenuta
costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova concreta di un danno.

2. La seconda censura denuncia «violazione di legge
ed omesso esame circa un fatto decisivo» ed insiste nel sostenere che, sulla
base delle disposizioni normative richiamate nel primo motivo, il danno doveva
essere liquidato a prescindere dalla continuità o meno del rapporto lavorativo,
essendo sufficiente la prova della abusiva reiterazione. Aggiunge che il
giudice d’appello non ha valutato la documentazione prodotta, idonea a
dimostrare che l’attività era proseguita anche nei periodi di formale
interruzione del rapporto.

3. Infine con il terzo motivo il ricorrente si duole
del regolamento delle spese processuali e sostiene che le stesse, ivi comprese
quelle della consulenza tecnica d’ufficio, dovranno essere poste a carico
dell’Inail, in ragione della fondatezza delle prime due censure. Aggiunge che
la Corte d’appello non poteva dapprima disporre la nomina dell’ausiliario e poi
disattendere la domanda, perché in tal modo aveva gravato la parte di una spesa
inutile e superflua.

4. I primi due motivi di ricorso, da trattare
unitariamente in ragione della loro connessione logico-giuridica, sono
infondati, perché invocano principi applicabili al solo rapporto di lavoro
subordinato, non estensibili al lavoro autonomo, sia pure coordinato e
continuativo. Non è in discussione fra le parti che gli incarichi della cui
legittimità si discute siano stati conferiti dall’INAIL ai sensi dapprima del
d.P.R. n. 500/1996 e poi del d.P.R. n. 271/2000, la cui disciplina è stata
invocata dallo stesso ricorrente, nel ricorso introduttivo del giudizio di
primo grado (trascritto da pag. 1 a pag. 11 del ricorso per cassazione) e
nell’atto di appello (egualmente trascritto da pag. 11 a pag. 22), per
sostenere l’illegittimità degli incarichi provvisori e dei termini apposti ai
contratti individuali.

I decreti in questione recepiscono gli accordi
nazionali stipulati ai sensi dell’art. 48 della legge n. 833 del
1978 per garantire l’uniformità di trattamento economico e normativo del
personale sanitario a rapporto convenzionale, rapporto definito dagli stessi
d.P.R. «autonomo, coordinato e continuativo» ( art.1).

4.1. Da tempo questa Corte ha affermato che i
rapporti disciplinati dall’art.
48 della legge n. 833 del 1978 e dagli accordi collettivi nazionali stipulati
in attuazione di tale norma, pur se costituiti in vista dello scopo di
soddisfare le finalità istituzionali del servizio sanitario nazionale,  corrispondono a rapporti libero-professionali
che si svolgono di norma su un piano di parità, non esercitando l’ente pubblico
nei confronti del medico convenzionato alcun potere autoritativo, all’infuori
di quello di sorveglianza, né potendo incidere unilateralmente, limitandole o
degradandole ad interessi legittimi, sulle posizioni di diritto soggettivo
nascenti, per il professionista, dal rapporto di lavoro autonomo (Cass.
18975/2015, Cass. n. 20419/2012; Cass. n. 8457/2011; Cass. S.U. n. 20344/2005;
Cass. S.U. n. 960/2001; Cass. S.U. n. 532/2000; Cass. S.U. n. 8632/1996).

Si è precisato che non esiste nell’ordinamento un
principio generale, ancorché settoriale, «di assimilazione delle prestazioni
svolte presso enti sanitari dai medici in base a convenzioni, stipulate secondo
lo schema della L. n. 833 del
1978, art. 48, a quelle rientranti nell’ambito del rapporto di pubblico
impiego, stante il fondamentale tratto di disomogeneità costituito dall’assenza
del requisito della subordinazione nei rapporti d’opera professionale, ancorché
di collaborazione coordinata e continuativa, che li assoggetta ad un regime
giuridico completamente differenziato» (Cass. n.
20581/2008).

Se ne è tratta la conseguenza dell’inapplicabilità
di tutte le disposizioni che presuppongono la natura subordinata della
prestazione, ivi compresa la disciplina del rapporto a tempo determinato, in
relazione alla quale, con specifico riferimento al tema della conversione, le
Sezioni Unite di questa Corte hanno osservato che «le affinità fra lavoro
parasubordinato e lavoro propriamente subordinato non comportano alcuna osmosi
delle rispettive discipline sostanziali, perché la parasubordinazione è sempre
riconducibile all’area delle prestazioni autonome, di guisa che, ferma
l’assimilazione disposta dal legislatore ai soli fini del trattamento
processuale, non è ipotizzabile, in ragione della persistente differenza della
natura e nel silenzio della legge, l’applicazione al primo di disposizioni
dettate per il secondo» ( Cass. S.U. n. 2045/2006).

4.2. Quanto, poi, al diritto dell’Unione, va detto
che secondo la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, formatasi
principalmente in relazione all’interpretazione dell’art. 45 TFUE, la
caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è «la circostanza che una
persona fornisca per un certo periodo di tempo a favore di un’altra e sotto la
direzione di quest’ultima prestazioni in contropartita delle quali riceve una
retribuzione » (Corte di Giustizia 20.9.2007,
Kiiski, C-116/06, punto 25 e giurisprudenza ivi richiamata). E’ stato più
di recente precisato che «un rapporto di lavoro presuppone l’esistenza di un
vincolo di subordinazione tra il lavoratore e il suo datore di lavoro e che
l’esistenza di un siffatto vincolo deve essere valutata caso per caso, in
funzione di tutti gli elementi e di tutte le circostanze che caratterizzano i
rapporti fra le parti» (Corte di Giustizia 11.4.2019, Bosworth e Hurley,
C-603/17, punto 26, che richiama Corte di Giustizia 10.9.2015, Holterman Ferho
Exploitantie, C-47/14, punto 46, nonché Corte di
Giustizia 20.11.2018, Sindicatul Familia Constanta, C-147/17, punto 42).

Sulla base dei principi sopra richiamati questa
Corte ha già escluso, con la sentenza n. 8457/2011, che il rapporto
intercorrente con i medici convenzionati ex art. 48 della legge n. 833 del
1978, in quanto non connotato da subordinazione, possa essere ricompreso
nell’ambito di applicazione delle direttive che presuppongono la nozione
comunitaria di lavoratore e  detta
conclusione, affermata in relazione alla direttiva
77/187/CE sul trasferimento di impresa, deve essere ribadita anche nella
fattispecie, perché la normativa euro unitaria sul lavoro a tempo determinato
presuppone, appunto, che si sia in presenza di «un contratto di assunzione o un
rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla
prassi in vigore di ciascuno Stato membro » (clausola 2, comma 1) e tale non
può essere ritenuto il rapporto di parasubordinazione che si instaura con il
medico convenzionato.

4.3. Erra, pertanto, il ricorrente nell’invocare i
principi affermati dalla Corte di Lussemburgo in merito all’interpretazione
della clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva
70/99/CE, non applicabile alla fattispecie. Parimenti è erroneo il
riferimento alle statuizioni della sentenza n.
5072/2016, perché le Sezioni Unite di questa Corte hanno pronunciato sulle
conseguenze della reiterazione abusiva del contratto a termine nell’ambito
dell’impiego pubblico contrattualizzato, ritenendo necessaria l’agevolazione
probatoria al fine di armonizzare il diritto interno con quello dell’Unione e
di impedire che rimanesse priva di sanzione la violazione della richiamata
clausola 5. Quei principi, pertanto, non possono essere invocati nei casi in
cui il rapporto a termine instaurato dalle parti non sia di natura subordinata,
bensì autonoma, e non sia ricompreso fra quelli ai quali si riferisce la
direttiva europea.

4.4. Solo nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. il ricorrente, per replicare
agli argomenti sviluppati dall’INAIL nel controricorso, ha sostenuto che il
rapporto, seppure formalmente qualificato di natura autonoma, sarebbe stato di
fatto subordinato in quanto l’attività era stata resa «unicamente
nell’interesse dell’istituto, visitando esclusivamente gli infortunati, in
orari stabiliti dall’istituto e secondo le modalità da questi stabilite negli
ambulatori siti nella sede INAIL».

Si tratta di deduzioni inammissibili, innanzitutto
perché le memorie di cui all’art. 378 cod. proc.
civ. sono destinate esclusivamente ad illustrare ed a chiarire i motivi
della impugnazione e con le stesse non possono essere dedotte nuove censure né
sollevate questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio ( cfr. fra le
tante Cass. n. 24007/2017).

Inoltre è consolidato nella giurisprudenza di questa
Corte il principio alla stregua del quale qualora una questione giuridica –
implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella
sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde
non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non
solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di
merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia
fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la
veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa
( in tal senso fra le più recenti Cass. nn. 32804 e 2038
del 2019 e Cass. n. 27568 del 2017).

Si è evidenziato nello storico di lite che la Corte
territoriale ha ritenuto applicabili al rapporto intercorso fra le parti i
decreti presidenziali sopra citati, invocati dallo stesso ricorrente sia pure
per sostenerne la violazione quanto alle condizioni richieste per il
conferimento di incarichi provvisori, e non ha effettuato alcun accertamento
sull’effettiva natura della prestazione resa. Sulla base del principio di
diritto sopra richiamato era onere del ricorrente censurare nel ricorso la
qualificazione e dimostrare che la questione della natura subordinata del
rapporto, al di là della sua qualificazione formale, era stata posta in
entrambi i gradi del giudizio di merito.

In difetto la decisione deve essere resa tenendo
conto della disciplina giuridica dettata per il rapporto dedotto in giudizio,
sicché, sulla base delle considerazioni espresse nei punti che precedono, la
sentenza impugnata di integrale rigetto delle domande deve essere confermata, sia
pure con diversa motivazione ex art. 384 cod. proc.
civ..

5. Il terzo motivo è inammissibile perché fa
discendere una pretesa erroneità del regolamento delle spese processuali non
dalla violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., bensì dall’errore commesso nel
rigetto della domanda.

Si deve aggiungere che in tema di spese processuali
il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., è limitato ad
accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non
possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi
esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la
valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia
nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti
motivi (Cass. n. 8421/2017).

6. In via conclusiva il ricorso deve essere
rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni processuali previste
dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal
ricorrente.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per
esborsi ed € 5.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese
generali del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 marzo 2020, n. 6264
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