Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 marzo 2020, n. 6941

Attribuzione di mansioni inferiori, Risarcimento del danno
professionale, esistenziale, morale e biologico, Danno non ricorre
automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma suscettibile di
essere dimostrato dal lavoratore ex art. 2729 c.c.
– Prova anche attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e
concordanti,Qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, tipo e natura
della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e
nuova collocazione lavorativa dopo la prospettata dequalificazione

Rilevato che

 

1. G.P. convenne in giudizio la S.S.C. e chiese di
essere reintegrato nelle mansioni di analista informatico oltre che la condanna
della convenuta al risarcimento del danno professionale, esistenziale, morale e
biologico in relazione al demansionamento subito.

1.1. Espose il ricorrente di essere stato lasciato
inoperoso dall’agosto del 2003 per circa 56 mesi durante i quali, per circa due
mesi, gli erano state attribuite mansioni inferiori rispetto al suo livello di
inquadramento che, comunque, lo impegnavano per non più di 3-4 giorni al mese.

1.2. Dedusse che già in precedenza, con riguardo al
periodo 1996/2003, aveva denunciato di essere stato demansionato dalla allora
F. s.p.a. e che, con sentenza del Tribunale di Roma n. 940 del 2006, passata in
giudicato, la società era stata condannata a restituirlo alle mansioni
spettanti ed a risarcire il danno da demansionamento.

1.3. Evidenziò che, ciononostante, la datrice di
lavoro gli erogò le somme dovute ma non lo assegnò alle mansioni spettanti e
che dunque il demansionamento si era protratto dal 2003 e fino al 2008 sebbene
la sentenza facesse stato anche nei confronti della S. S. s.r.I., poi T.I.I.T.
s.r.I., cessionaria del ramo C.S. di F. s.p.a..

2. Il Tribunale di Roma respinse le domande di
accertamento di svolgimento di mansioni superiori e di risarcimento del danno
esistenziale mentre accolse la domanda di condanna della convenuta al
risarcimento del danno alla professionalità e biologico patito dal lavoratore a
causa del protratto demansionamento.

3. La Corte di appello di Roma, in parziale riforma
della sentenza, ha corretto l’errore materiale in cui era incorsa la sentenza
di primo grado chiarendo che il demansionamento si era protratto dal 2003 al
2008.

Ha poi rigettato la domanda relativa al risarcimento
del danno alla professionalità evidenziando che le allegazioni del ricorrente
erano generiche sia con riguardo alla quantità e qualità dell’esperienza
lavorativa precedente che con riferimento all’esito finale della
dequalificazione anche in relazione alle occasioni di lavoro più favorevoli
perse nel periodo in contestazione.

4. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
G.P. articolando tre motivi ai quali resiste con controricorso T. I.I.T.
s.r.I., già S.S. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai
sensi dell’art. 380 bis 1 cod. proc.civ..

 

Considerato che

 

5. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la
violazione degli artt. 112 e 437 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ..

5.1. Sostiene la ricorrente che, diversamente da
quanto ritenuto, nella memoria di costituzione in primo grado non vi era alcun
riferimento alla carenza espositiva del ricorso ai sensi dell’art. 414 cod. proc. civ. poiché ci si doleva della
mancanza di allegazione probatoria e non, come dedotto in appello, della
mancanza di specifiche allegazioni in fatto.

6. La censura è infondata.

6.1. Dall’esame degli atti, autorizzato dalla natura
della censura, si evince che la società aveva esattamente contestato
l’insussistenza di specifiche allegazioni in fatto utili a dimostrare
l’esistenza del danno alla professionalità e dunque la Corte legittimamente ha
verificato se erano stati dedotti argomenti in fatto ( contenuto delle mansioni
spettanti e di quelle in concreto attribuite) che consentissero al giudice di
procedere nell’istruttoria.

7. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale
è dedotta la violazione degli artt. 115, 2°
comma, 1218, 1223,
2103, 2697, 2727 e 2729 cod.civ.,
non può essere accolto.

7.1. Va rammentato che il danno derivante da
demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in
tutti i casi di inadempimento datoriale. Si tratta di danno che è suscettibile
di essere dimostrato dal lavoratore, ai sensi dell’art.
2729 cod.civ., anche attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi,
precisi e concordanti, di tal che possono essere valutati la qualità e quantità
dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità
coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione
lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (cfr. Cass. del 03/01/2019 n. 21, 26/02/2009 n. 4652 e di recente Cass. 23/07/2019 n.19923) ma pur sempre, come si
è detto, sulla base di un quadro fattuale da cui il giudice possa desumere in
via presuntiva la sua esistenza. Rientra tra gli apprezzamenti di fatto
riservati al giudice del merito e perciò incensurabili in sede di legittimità
la verifica dell’esistenza di allegazioni sufficienti da parte del lavoratore,
che ne è onerato, da cui poi desumere l’esistenza del danno da demansionamento
professionale e procedere ad una determinazione della sua entità anche in via
equitativa.

7.2. Orbene la Corte territoriale ha esattamente
applicato tali principi e con valutazione di fatto in questa sede incensurabile
ha escluso di potere desumere dai fatti allegati il danno reclamato e la sua
ricostruzione, che non viola nessuna delle disposizioni richiamate in tema di
prova, non può essere qui censurata.

8. Neppure l’ultimo motivo di ricorso, con il quale
è denunciata con riguardo all’art. 360 primo
comma n. 5 ed all’art. 132 n. 4 cod. proc. civ.
la motivazione apparente e perplessa della sentenza con omesso esame di fatto
decisivo può essere accolto atteso che nel ricorso non viene neppure indicato
quale sia il fatto decisivo il cui esame la Corte abbia trascurato.

In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso
deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo vanno poste a carico
del ricorrente soccombente.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato
d.P.R., se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.000,00 per compensi
professionali, €200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli
accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato
d.P.R., se dovuto.

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