Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 marzo 2020, n. 6754

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
Riorganizzazione aziendale, Genericità delle allegazioni e deduzioni
istruttorie, Domanda di reintegra

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza pubblicata il 26.3.2018 la Corte di
appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della
stessa città depositata il 30.9.2015, dichiarava l’illegittimità del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a M.A.M. dalla sua
datrice di lavoro, società R.M. Italia s.p.a., il 19.2.2013, e, applicando il
quarto comma dell’art. 18 l.
n. 300 del 1970, condannava la società a reintegrare la lavoratrice nel
posto di lavoro e a risarcirle il danno nella misura massima di legge di dodici
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione ed
interessi, e alla regolarizzazione della posizione contributiva della M.,
respingendo le altre domande proposte dalla lavoratrice, compensava per un
terzo le spese del doppio grado di giudizio, ponendo i residui due terzi a
carico della società datrice di lavoro.

2. La Corte territoriale osservava preliminarmente
che nessuna delle parti avesse sollevato questioni sulla correttezza del rito
ordinario del lavoro che era stato seguito, sebbene la lavoratrice avesse
impugnato nel presente giudizio un licenziamento intimato successivamente
all’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012
e fatto valere insieme differenti pretese. Con riguardo all’intimato
licenziamento, il giudice di appello giungeva alla conclusione
dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo posto a base del
licenziamento, e quindi all’applicazione, come detto, della tutela di cui al
comma quarto dell’art. 18 l.
n. 300 del 1970. La Corte territoriale rilevava, come già aveva fatto il
primo giudice, la genericità delle allegazioni e deduzioni istruttorie della
società in relazione alla affermata riorganizzazione, osservava che la società
datrice di lavoro non aveva allegato alcun fatto specifico concretamente
descrittivo dell’organizzazione poi in tesi attuata, e soprattutto dei suoi
effetti sui compiti già richiesti alla lavoratrice, così indicando le mansioni
delle quali essa si sarebbe privata, ma si era limitata a far valere che erano
state accentrate presso la sede di Madrid le attività commerciali connesse alle
prenotazioni, all’organizzazione dei flussi di clientela, alle politiche di
vendita, ai prezzi e al marketing.

3. Avverso la sentenza citata della Corte di appello
di Firenze la società R.M. Italia s.p.a propone ricorso per cassazione affidato
a cinque motivi, illustrati da memoria. M.A.M. resiste con controricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. Con il primo motivo la ricorrente deduce la
violazione e falsa applicazione dell’art. 1 commi 47 e 48 della l. n. 92
del 2012, degli art. 426 e 427 cod.proc.civ. e 4 D.Lgs. n. 150 del 2011, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.,
evidenziando come la lavoratrice abbia erroneamente presentato al Tribunale di
Firenze ricorso ai sensi dell’art. 414
cod.proc.civ., cioè secondo il rito ordinario del lavoro, mentre
trattandosi dell’impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo
oggettivo essa avrebbe dovuto seguire le forme del rito previsto dall’art. 1, commi 47 e seguenti, della
legge n. 92 del 2012, essendo stato il licenziamento intimato
successivamente all’entrata in vigore di tali disposizioni.

La ricorrente fa valere l’obbligatorietà del rito
speciale, che non è nella disponibilità delle parti, e lamenta di aver subito
una lesione della propria posizione processuale in termini di compressione del
diritto di difesa. Tale lesione si sarebbe concretata nel venir meno di una
fase processuale, nella quale il giudice può agire sulla base di atti di
istruzione che esulano dalle normative previste dal codice di rito, e ciò gli
avrebbe inibito di motivare la sentenza n. 1012
del 2015 sulla base della “(supposta, ma contestata) aspecificità
delle istanze istruttorie”.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia,
conseguenzialmente, ai sensi dell’art. 360, comma
1, n. 4 cod.proc.civ., la nullità delle sentenze di primo e secondo grado,
nonché del procedimento, per inammissibilità del rito introdotto.

4. Con il terzo motivo viene denunciata la
violazione e la falsa applicazione degli art. 115
e 116 cod.proc.civ. ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., in
relazione alla mancata ammissione di mezzi istruttori.

5. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta
l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 5 cod.proc.civ. e la violazione dell’art. 18, comma quarto, l. n. 300
del 1970, per non aver dedotto dagli importi di condanna i redditi
risultanti dai modelli Unico dal 2014 al 2017 prodotti dalla lavoratrice su
ordine della Corte fiorentina.

6. Con il quinto motivo la R.M. denuncia la
violazione e la falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, l. n. 300 del
1970, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3
cod.proc.civ. sempre perché la Corte distrettuale non avrebbe tenuto conto
dell’aliunde perceptum, cioè dei redditi percepiti da altra occupazione da
parte della lavoratrice nel periodo rilevante.

7. I primi due motivi possono essere esaminati
congiuntamente, perché con entrambi si deduce l’inammissibilità. del rito
prescelto dalla lavoratrice per l’impugnazione del licenziamento. Secondo la
ricorrente la M. avrebbe dovuto seguire il rito c.d. “Fornero” di cui
all’art. 1, commi 47 e seguenti,
della legge n. 92 del 2012, e non il rito ordinario del lavoro.

8. I motivi in esame non possono essere accolti.

9. La parte resistente osserva in primo luogo che,
trattandosi di domande proposte in via cumulativa contro la datrice di lavoro,
solo alcune delle quali rientravano nel paradigma dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012,
bene sarebbero state tutte trattate in un unico processo secondo il rito
ordinario del lavoro.

10. Non è necessario alla Corte pronunziarsi su tale
questione, né su quella del se la disciplina di cui all’art. 4 del D.lgs. n. 150 del 2011
sul mutamento del rito debba considerarsi espressione di un principio generale
applicabile in via analogica, nel silenzio della l.
n. 92 del 2012, ai casi di errata scelta del rito ordinario del lavoro in
luogo di quello speciale.

11. In effetti, la giurisprudenza di questa Corte
(ribadita, di recente, da Cass. n. 3803 del 2019 con specifico riferimento al
rito del lavoro (ord.), cui il Collegio intende dare continuità, ha chiarito
che la violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante
soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo
specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata
adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto
di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali
protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008, Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009;
Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015); perché essa assuma rilevanza
invalidante occorre infatti che la parte che se ne dolga in sede di
impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico
pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata
adozione del rito diverso (in termini, avuto riguardo al cd. “rito
Fornero”, v. Cass. n. 12094 del 2016).

12. In particolare in una pronuncia questa Corte ha
osservato che tale pregiudizio non poteva essere certo ravvisato, nella
privazione di “una fase processuale”, considerato che il rito
ordinario seguito nella fattispecie esaminata rappresentava la massima
espansione della cognizione integrale, idonea a consentire il migliore
esercizio del diritto di difesa, sicché la parte ricorrente in quel caso nella
sostanza si limitava ad invocare la violazione della legge processuale, con una
concezione del processo volta a ricollegare il danno processuale alla mera
irregolarità, concezione avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito
costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei
modelli procedurali (cfr. Cass. n. 4506 del 2016).

13. Nel caso oggi all’esame della Corte la
ricorrente lamenta la perdita delle maggiori possibilità di difesa che
sarebbero state a sua disposizione nella fase sommaria.

14. Ora, anche a voler supporre esistenti tali
maggiori possibilità, esse sarebbero venute meno nella fase di cognizione
piena, fase eventuale, certo, ma che la ricorrente non avrebbe avuto modo di
evitare. Non sussiste dunque una “precisa e apprezzabile lesione del
diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative
processuali protette della parte”.

15. Il terzo motivo è inammissibile.

16. In quanto questa doglianza deduce una questione
di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115
e 116 c.p.c., essa non può porsi per una
erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito,
ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a
base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio
al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo
prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come
facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova
soggetti invece a valutazione ( v. da ultimo Cass.
n. 3323 del 2018 e n. 27000 del 2016).

17. La doglianza, pur richiamando gli art. 115 e 116
cod.proc.civ., non prospetta alcuna delle ipotesi sopra citate, per cui
tali profili sono mal formulati e vanno respinti non essendo denunciata alcuna
delle concrete possibili violazioni degli art. 115
e 116 cod. proc. civ.

18. Quanto agli ulteriori aspetti contenuti nel
motivo, aspetti che, pur alludendo alla violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., contengono censure
riferite al tema della valutazione delle risultanze probatorie, va osservato
che in base al principio del libero convincimento del giudice, essi vanno
valutati nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5), cod. proc. civ.,
ed il malgoverno dei poteri istruttori deve emergere direttamente dalla lettura
della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede
di legittimità (Cass. n. 24434 del 2016 e n. 14267
del 2006).

19. Ciò senza contare che la sentenza impugnata ha
ritenuto insufficienti, prima ancora delle prove proposte, le allegazioni della
società datrice di lavoro.

20. Si tratta quindi di questioni di puro fatto
inammissibilmente riproposte in questa sede di legittimità.

21. Il quarto e il quinto motivo, inerenti
all’aliunde perceptum, possono essere esaminati congiuntamente.

22. Indipendentemente dagli evidenti profili di
inammissibilità del quarto motivo, giacché né nel corpo del motivo né nella
parte narrativa del ricorso viene trascritto il contenuto delle dichiarazioni
fiscali citate, e neppure si dice in quale luogo degli atti esse si trovino, in
effetti la sentenza impugnata tiene conto dei redditi percepiti dalla
lavoratrice successivamente al licenziamento, osservando come essa avesse
iniziato a svolgere attività lavorativa alle dipendenze di terzi “oltre
l’anno dal recesso impugnato”, per cui l’indennità di cui al quarto comma
dell’art. 18 veniva
calcolata nella misura massima di dodici mesi in modo da “riparare
effettivamente il danno cagionatole dal recesso impugnato”, danno patito
anche oltre il periodo che la legge assume come risarcibile. Entrambi i motivi
sono dunque infondati.

23. Alla luce delle considerazioni che precedono, il
ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

24. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

25. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1-bis dello stesso art.
13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente
al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate in curo 200,00 per esborsi, euro 5.000,00 per compensi,
oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

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