Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 marzo 2020, n. 7567

Licenziamento disciplinare, Giusta causa, Contestazione
dell’addebito, Configurazione concreta dell’evento e della sua portata in
termini di grave turbamento della vita aziendale

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza in data 12 ottobre 2017 il Tribunale
di Pavia respingeva il ricorso in opposizione proposto dalla società O. s.p.a.
avverso l’ordinanza con cui, a conclusione della fase sommaria del procedimento
iniziato, ai sensi della L. n. 92 del 2012, da
V. C. B. per impugnare il licenziamento per giusta causa intimatogli con
lettera dell’8.4.2016, la domanda del lavoratore volta ad ottenere
l’annullamento del licenziamento e la tutela reintegratoria e risarcitoria ai
sensi del 4 comma dell’art. 18
L. n. 300 del 1970 come modificato dalla l. n.
92 del 2012, con vittoria di spese, era stata accolta.

2. A fronte dell’addebito contestato dall’azienda,
cioè dell’essere il lavoratore, operaio presso lo stabilimento di Domo (PV),
trasceso a vie di fatto nel corso di un diverbio con il capoturno, colpendolo
con un calcio sotto il ginocchio, entro il perimetro dei locali dell’impresa,
alla stregua di un’ipotesi corrispondente a quella contemplata dall’art. 52 lett. j) del CCNL per gli
addetti all’industria chimica e chimico-farmaceutica, ipotesi che
giustificava il licenziamento in tronco, il Tribunale accertava la realtà del
fatto, inclusa la circostanza dell’avere il lavoratore sferrato un calcio sotto
il ginocchio del suo interlocutore. Tuttavia, il giudice di prime cure riteneva
l’episodio, sia nella ricostruzione fattane dalla datrice di lavoro nel
complessivo iter del procedimento disciplinare dal momento della contestazione
al momento del licenziamento, sia nella realtà di fatto, non idoneo a recare un
“grave perturbamento della vita aziendale” secondo la dizione della
norma collettiva collocata all’interno della disposizione subito dopo
l’indicazione degli altri elementi costitutivi del fatto, cioè il
“diverbio litigioso, seguito da vie di fatto, avvenuto nel recinto dello
stabilimento”. Il giudice di prime cure traeva da

ciò la conseguenza del doversi considerare
l’insussistenza del fatto contestato, e quindi l’applicabilità della tutela
reintegratoria di cui al quarto comma dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970.

3. Avverso la citata sentenza la società datrice di
lavoro proponeva reclamo dinanzi alla Corte di appello di Milano.

4. Con sentenza pubblicata il 12.3.2018, la Corte di
appello di Milano respingeva il reclamo, condannando la società datrice di
lavoro al pagamento delle spese del grado.

5. La Corte distrettuale osservava in particolare
che nella contestazione degli addebiti l’azienda si era certamente riferita
all’ipotesi particolarmente grave di cui all’art. 52 lettera j) citato,
evocando l’alterco litigioso” e le vie di fatto verificatisi all’interno
del perimetro dello stabilimento, ma non aveva enunciato l’essenziale parametro
costituito dall’evento del grave perturbamento della vita aziendale, né aveva
precisato, come invece avrebbe dovuto secondo il giudice di appello,
l’effettiva connotazione di quest’ultimo nel quadro dell’intero episodio,
segnalando quali fossero state in termini di effetti le gravi alterazioni della
vita aziendale che si erano verificate. Conseguentemente, si doveva ritenere
che la contestazione non contenesse alcun riferimento all’evento e alla sua
gravità, elementi essenziali sia ad integrare la stessa contestazione sia a
porre l’incolpato in condizione di articolare una difesa possibilmente volta a
negare l’evento e i suoi connotati.

6. In conseguenza non poteva riscontrarsi nella
fattispecie l’esistenza di un “fatto contestato” ai sensi dell’art. 18, comma 4, della l. n. 300
del 1970, dal momento che, pur essendosi inequivocabilmente raccordata
l’incolpazione alla fattispecie contemplata dalla citata lettera j) della
pertinente previsione collettiva, era completamente mancata la configurazione
concreta dell’evento e della sua portata in termini di grave turbamento della
vita aziendale, donde una pecca insanabile, atta a riverberarsi
sull’insussistenza del fatto quale presupposto per la tutela di cui al detto
comma 4. La Corte territoriale osservava poi che la carenza del grave
perturbamento della vita aziendale emergeva dalle deposizioni testimoniali
raccolte.

7. Avverso la predetta sentenza della Corte di
appello di Milano la O. s.p.a. propone ricorso per cassazione affidato a tre
motivi illustrati da memoria. V.C.B. resiste con controricorso, pure illustrato
da memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il ricorso è fondato in relazione al terzo
motivo, il che comporta l’assorbimento delle altre doglianze.

2. Con il primo motivo la società ricorrente
denuncia la violazione, o comunque falsa applicazione, dell’art. 7 l. n. 300 del 1970 e
dell’art. 52 CCNL Chimici,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.
a proposito della statuizione della sentenza impugnata sull’insussistenza del
fatto contestato.

3. Con il secondo motivo la datrice di lavoro si
duole della violazione, o comunque falsa applicazione degli art. 7 e 18, commi 4 e 6, l. n. 300 del
1970, in relazione alla dichiarata, dalla Corte distrettuale, insussistenza
del fatto contestato e sull’erronea applicazione della tutela reintegratoria,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.

4. Con il terzo motivo la O. s.p.a lamenta la
violazione o comunque la falsa applicazione degli art.
2119 e 2106 cod.civ., 52 CCNL Chimici e 18, commi 4 e 5, L. n. 300 del
1970, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3
cod.proc.civ., a proposito della dedotta illegittima attribuzione di natura
tassativa alle ipotesi previste dal CCNL e sull’omessa valutazione della
sussistenza della giusta causa di licenziamento.

5. Per ragioni di carattere logico va anteposto
l’esame del terzo motivo con cui, in sostanza, si affronta la questione del
rapporto tra disciplina contrattuale del licenziamento e disciplina legale.

6. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa
Corte, cui il Collegio intende dare continuità, quella di giusta causa di
licenziamento è nozione legale che prescinde dalla previsione del contratto
collettivo. L’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento
contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni
disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa,
sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine
alla idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del
lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile,
a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore
(cfr. in termini Cass. n. 19023 del 2019,
27004 del 2018 ed ivi le richiamate Cass. n. 14321
del 2017; Cass. n. 52830 del 2016 e Cass. n.
9223 del 2015).

7. Ne consegue che il giudice chiamato a verificare
l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di
licenziamento incontra solo il limite che non può essere irrogato un
licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave
di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata
infrazione, vale a dire alla condotta contestata al lavoratore, (oltre Cass. n.
27004 del 2018 e Cass. n. 14321 del 2017, citate, anche Cass. n. 6165 del 2016 e n. 19053 del 2005).

8. Al giudice del merito è consentito, perciò, di
escludere che un comportamento, pur sanzionato dal contratto collettivo con il
licenziamento, integri una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di
licenziamento, avuto riguardo sia alle circostanze concrete che lo hanno
caratterizzato sia alla compatibilità con il principio di proporzionalità.

9. Stante, però, l’inderogabilità della disciplina
dei licenziamenti, il giudice è sempre tenuto a verificare se la previsione del
contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato
motivo (in argomento, Cass. n. 6498 del 2012,
in motivaz.). Come è stato già affermato (Cass. n.
9396 del 2018), la scala di valori recepita dai contratti collettivi
esprime le valutazioni delle parti sociali in ordine alla gravità di
determinati comportamenti e costituisce solo uno dei parametri a cui occorre
fare riferimento per riempire di contenuto le clausole generali di giusta causa
e giustificato motivo soggettivo. Queste ultime possono anche non coincidere completamente
o esaurirsi nelle previsioni della contrattazione collettiva.

10. Ne discende che il giudice deve verificare la
condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche
al di là della fattispecie contrattuale prevista (Cass. nr. 27004 del 2018, in
motivazione, § 7.5.).

11. A tali principi non si è, invece, attenuta la
Corte di appello, che si è concentrata sull’interpretazione della disposizione
collettiva pertinente, che giustificava il licenziamento in tronco nelle ipotesi
di “diverbio litigioso, seguito da vie di fatto, avvenuto nel recinto
dello stabilimento”, ritenendo che costituisse elemento costitutivo della
fattispecie il grave perturbamento della vita aziendale”, elemento non
compreso nella contestazione degli addebiti, traendone poi varie conseguenze:

in primo luogo, concludendo nel senso che nella
fattispecie si dovesse ritenere un radicale difetto di contestazione
dell’infrazione;

in secondo luogo, che tale radicale difetto di
contestazione ridondasse in insussistenza del fatto, dando luogo, quindi, alla
tutela reale.

12. Sul punto, in linea con la giurisprudenza
richiamata, condivisibilmente la ricorrente fa valere come non possa
considerarsi vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal
contratto collettivo nell’individuazione delle condotte costituenti giusta
causa, mentre spetta al giudice di merito esaminare gli addebiti posti a
fondamento del licenziamento, verificare la loro sussistenza e infine valutare
se il comportamento del lavoratore giustifichi o meno la sanzione espulsiva ai
sensi dell’art. 2119 cod.civ, anche alla luce
dell’etica comune e dei valori esistenti nella realtà sociale.

13. In effetti è del tutto mancata nell’analisi
della Corte territoriale la valutazione della gravità della condotta
contestata, che la sentenza impugnata riconosce essersi realmente verificata, e
della proporzionalità della sanzione espulsiva, mentre l’art. 2119 cod.civ., interpretato nel senso illustrato,
tali accertamenti richiede.

14. L’accoglimento del terzo motivo comporta
evidentemente l’assorbimento dei primi due.

15. La sentenza impugnata deve essere quindi cassata
in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Milano, in
diversa composizione, che si atterrà ai principi di diritto già indicati e
provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli
altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla
Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del
giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 marzo 2020, n. 7567
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: