Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 marzo 2020, n. 7487

Mobbing, Risarcimento del danno alla professionalità e alla
immagine, Incompatibilità ambientale, Onere di indicare in modo specifico i
fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso
gli atti rilevanti, Ricorso inammissibile

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 2882, resa in data 19 maggio
2014, la Corte d’appello di Roma confermava la decisione del locale Tribunale
che aveva respinto la domanda di M.G.R., docente presso l’Istituto Comprensivo
di via (…) in Cesano, intesa ad ottenere la condanna dell’Istituto e del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca al risarcimento del
danno alla professionalità ed alla immagine asseritamente derivatole da
mobbing;

2. M.G.R., in seguito ad una ‘estemporanea protesta
degli studenti’, era stata indicata come responsabile di episodi di coercizione
fisica e verbale nei confronti di alcuni alunni;

la vicenda, che aveva formato oggetto di un
procedimento penale definito con provvedimento di archiviazione e di due
ispezioni amministrative (la prima avente come esito una proposta di
trasferimento, la seconda conclusasi senza dar luogo a provvedimenti
disciplinari), a dire della ricorrente, era stata artatamente strumentalizzata
per ledere la sua immagine professionale, essendo stati posti in essere, anche
con le disposte ispezioni, ripetuti atti vessatori avvinti da intento
persecutorio;

3. Il Tribunale aveva ritenuto non raggiunta la
prova dei comportamenti mobbizzanti sulla base della documentazione prodotta ed
inoltre aveva ritenuto esistente una incompatibilità ambientale che aveva
legittimato le amministrazioni ad adottare i comportamenti tenuti;

aveva anche affermato che le allegazioni del danno
asseritamente subito fossero comunque generiche e come tali non avrebbero
comunque consentito l’accoglimento della domanda;

4. la Corte territoriale nel confermare l’indicata
pronuncia evidenziava che: – l’appellante non aveva dedotto nulla in ordine
alla statuizione della sentenza di prime cure concernente la genericità del
domandato risarcimento del danno; – dal complesso della motivazione emergevano
le ragioni della mancata ammissione dei mezzi istruttori di cui all’istanza
formulata in ricorso; – dalla documentazione versata in atti e dall’avvenuto
svolgimento dei fatti come da essa risultanti era insussistente la prova
dell’elemento essenziale del mobbing ossia dell’intento persecutorio; –
l’esposizione di fatti irrilevanti e la mancata deduzione di circostanze essenziali,
ove provate, a dimostrare il danno asseritamente patito erano a base della
mancata ammissione dei mezzi istruttori;

5. avverso tale sentenza d’appello M.G.R. ha
proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi;

6. Il MIUR e l’Istituto Comprensivo di Via (…) n.
23 hanno resistito con controricorso;

7. non sono state depositate memorie.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 434 cod. proc. civ. in
relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.;

si duole della pronuncia della Corte territoriale
laddove la stessa ha ritenuto la carenza del gravame in ordine al passaggio
argomentativo del Tribunale che non aveva ammesso le istanze istruttorie
formulate dalla ricorrente prospettando una genericità deduttiva del ricorso in
punto di danno;

rileva che in sede di appello aveva lamentato la
mancata considerazione dell’autonomo valore della sua figura professionale,
vulnerata nella credibilità con la ripetuta diffusione nello stesso ambito
lavorativo di accuse (coercizioni fisiche e verbali nei confronti di alunni
sulla base di allegazioni e sospetti rivelatisi infondati) di tale gravità da
dissipare la preesistente serenità ed aveva svolto considerazioni relative agli
effetti sulla propria professionalità di precisi comportamenti ed in
particolare enucleato le fasi della complessiva vicenda (dalle false accuse e dall’individuazione
della R. come capro espiatorio alle iniziative disciplinari ed amministrative
fino al culmine dell’azione mobbizzante rappresentata dal tentativo di imporre
all’insegnante il trasferimento) da cui era agevole discernere la concreta
deduzione del danno;

rileva che con il motivo di appello aveva aggredito
la decisione di prime cure nella sua interezza e così anche il dictum relativo
alla mancata deduzione di elementi concreti circa il danno;

2. il motivo è inammissibile;

2.1. la censura si incentra su atti del processo
(ricorso di primo grado, sentenza del Tribunale, ricorso in appello della R.)
ma è formulata senza il necessario rispetto dell’onere di specificazione di cui
all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ.;

2.2. la giurisprudenza di questa Corte è consolidata
nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo,
rispetto al quale la Corte è giudice del ‘fatto processuale’, l’esercizio del
potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle
regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in
nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del
giudice di legittimità (Cass., Sez. Un., 22 maggio 2012, n. 8077);

la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di
indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato
e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il
rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di
Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in
condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere
solo ad una verifica degli atti stessi (Cass. 4 luglio 2014, n. 15367; Cass. 14
ottobre 2010, n. 21226; Cass. 5 agosto 2019, n. 20924);

non è sufficiente, pertanto, che il ricorrente
assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 n. 4 cod. proc. civ., indicando la sede
nella quale l’atto processuale è reperibile, perché l’art. 366 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 5 del d.lgs. n. 40 del 2006,
richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi
necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità
di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere
l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai
fini dell’accoglimento del ricorso (cfr. sulla non sovrapponibilità dei due
requisiti, Cass. 28 settembre 2016, n. 19048);

2.3. nel caso di specie, la ricorrente ha omesso di
riportare nel corpo del motivo le parti essenziali di tutti gli atti
processuali rilevanti (limitandosi a trascrivere, a pag. 9 del ricorso, solo
una parte dell’atto di gravame), sicché la censura non può essere scrutinata
nel merito;

il passaggio argomentativo della Corte territoriale,
secondo cui l’appellante non aveva censurato la statuizione della sentenza di
prime cure concernente la genericità del domandato risarcimento del danno non
può ritenersi adeguatamente contrastato dall’avere la R., in sede di
impugnazione (v. pag. 9 cit.), fatto riferimento al ‘bene direttamente
aggredito’ e cioè alla lesione della sua professionalità, vulnerata nella
credibilità tanto più in un ambiente lavorativo ristretto quale quello
scolastico e nel piccolo plesso di una sede distaccata’;

trattasi, infatti, di affermazione espressiva di una
tesi difensiva che, però, non si misura con il contenuto del ricorso di primo
grado (come detto non trascritto) e soprattutto con la decisione di primo grado
(egualmente non trascritta);

si aggiunga che la sentenza impugnata ha
ulteriormente specificato che nulla la R. avesse dedotto sulla consistenza del
danno alla professionalità, su quali fossero le ‘cognizioni professionali’
definitivamente ed irreparabilmente perdute, sulle modificazioni delle proprie
abitudini di vita e, quanto al danno all’immagine, che nulla fosse stato
dedotto sulle modificazioni dei comportamenti dell’ambiente lavorativo e
sociale nel quale la predetta normalmente interagiva, il che rende meramente
assiomatica (e tutt’altro che critica) l’affermazione sopra richiamata di una
lesione all’immagine ed alla professionalità per le sole caratteristiche
dell’ambiente lavorativo di riferimento;

si consideri, del resto, che come da questa Corte
più volte affermato, a proposito della risarcibilità del danno non
patrimoniale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento di
una tale tipologia di danno non discende automaticamente dall’inadempimento del
datore di lavoro, non potendosi prescindere da una specifica allegazione sul
punto (v. Cass. 17 settembre 2010, n. 19785; Cass. 19 marzo 2013, n. 6797; Cass. 5 dicembre 2017, n. 29047);

3. con il secondo motivo la ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 414 e 156 cod. proc. civ.;

sostiene che se ci fosse stata la carenza deduttiva
evidenziata dalla Corte territoriale il giudice di primo grado avrebbe dovuto
disporre la sanatoria;

ciò non era però avvenuto e la stessa Amministrazione
convenuta aveva impostato la propria difesa proprio in rapporto alle
circostanze di cui al ricorso ed alla documentazione a questo allegata;

4. la medesima censura è formulata con il terzo
motivo ma sotto il profilo dell’error in procedendo;

5. entrambi i suddetti motivi sono infondati;

5.1. si ricorda, al riguardo, che una cosa è
l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la
domanda con le relative conclusioni, prescritta dall’art.
414, n. 4, cod. proc. civ., la cui mancanza determina, ove non sanata, la
nullità del ricorso con una pronuncia processuale, altro è, invece, un ricorso
che, definibile per causa petendi e petitum quanto alla identificazione di cosa
si chieda e perché, non contenga l’allegazione di uno dei fatti costitutivi
necessari per la fondatezza della medesima, cui consegue una pronuncia di
rigetto nel merito (v. Cass. 8 giugno 2017, n. 14301);

5.2. tale seconda situazione è quella verificatasi
nel caso in esame di una pretesa volta ad ottenere il riconoscimento di un
risarcimento del danno per la condotta di mobbing ascritta al datore di lavoro
posto che, per principio generale, come sopra ricordato, non ogni inadempimento
genera necessariamente un danno e che, ai fini della configurabilità del
mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi
assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non
nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li
unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente
perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica
dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta,
unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni
personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di
intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto
espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice
per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di
mortificare la personalità e la dignità del lavoratore (v. Cass. 10
novembre 2017, n. 26684);

6. con il quarto motivo la ricorrente denuncia la
violazione dell’art. 2087 cod. civ.;

censura la sentenza impugnata per aver ritenuto
superficialmente quale prova certa dell’assenza di persecuzione la mera
legittimità degli atti posti in essere a carico della R.;

7. il motivo è inammissibile;

7.1. non si comprende quale sia la violazione di
legge imputabile alla Corte territoriale;

quest’ultima, con motivazione puntuale e articolata,
ha escluso la fondatezza della domanda di risarcimento del danno rilevando che
non fosse stata offerta la prova degli elementi costitutivi del mobbing, ed in
particolare dell’intento persecutorio, e che non fosse stato allegato e provato
il danno asseritamente subito;

7.2. il motivo da un lato sviluppa argomenti non
pertinenti, perché il giudice dì appello non ha fondato la decisione su una
definizione del mobbing diversa da quella ricorrente nella giurisprudenza di
questa Corte, ma anzi l’ha presupposta; dall’altro nel censurare la valutazione
espressa dalla Corte territoriale circa la mancanza di allegazione e di prova (degli
elementi costitutivi del mobbing e del danno) sollecita un giudizio di merito,
non consentito in sede di legittimità;

7.3. va ricordato al riguardo che, secondo la
consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di norme di
diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi,
implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa,
l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo
delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed
inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è
possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il
discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo
quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394 e negli
stessi termini Cass. 10 luglio 2015, n. 14468);

7.4. nel caso di specie la ricorrente, pur
denunciando nella rubrica una violazione di legge, in realtà assume la
erroneità del giudizio espresso sul materiale probatorio offerto dalla parte,
giudizio che non può essere rivisto in questa sede, perché il controllo sulla
motivazione, tra l’altro nella specie consentito nei ristretti limiti di cui
all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. come
modificato dal D.L. n. 83/12, convertito in legge n. 134/12, non equivale a revisione del
ragionamento decisorio;

8. con il quinto motivo la ricorrente denuncia
l’omesso esame di un fatto decisivo ed oggetto di discussione;

censura la sentenza impugnata quanto alla mancata
prova dell’intento persecutorio asseritamente desumibile dalle richieste
istruttorie che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale,
erano rilevanti e dimostrative di un atteggiamento palesemente contrario ai
doveri di riservatezza del superiore gerarchico (nella specie la direttrice
scolastica avrebbe riferito al parroco locale le sue preoccupazioni sulla
situazione venutasi a determinare per il fatto che ‘una sua insegnante
picchiava gli alunni’), specialmente mentre era in corso una ispezione
disciplinare;

9. il motivo è inammissibile;

9.1. anche in questo caso, pur con una intitolazione
del motivo conforme al testo di cui all’art. 360,
n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione disposta dall’art. 54, comma 1, lett. b) D.L. n.
83/12, convertito in legge n. 134/12, la
parte, in realtà, critica la sufficienza del ragionamento logico posto alla
base dell’interpretazione di determinati atti del processo, e dunque un
caratteristico vizio motivazionale;

9.2. in quanto tale, esso non è più censurabile ai
sensi dell’indicato novellato art. 360, n. 5, cod.
proc. civ. come interpretato delle S.U. di questa Corte nella sentenza 7 aprile 2014, n. 8053 nel senso che non
è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia
luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 cod. proc. civ.; ciò si
verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, di motivazione
del tutto apparente, di motivazione perplessa od oggettivamente
incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e
sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la
riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e
razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze
probatorie;

per l’effetto, il controllo sulla motivazione da
parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso
che la violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 cod.
proc. civ. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza
in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti
acquisiti nel corso dei gradi di merito;

secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un
fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o
un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo,
estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in
funzione probatoria);

ma il riferimento al fatto secondario non implica che
possa denunciarsi ex art. 360, co. 1, n. 5 cod.
proc. civ. anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta
che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia
dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria
come astrattamente rilevanti;

a sua volta deve trattarsi di un fatto
(processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente
accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti:
tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata
(e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali
(rilevanza del dato extratestuale);

l’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque,
nell’ottica della sentenza n. 8053/14, come il
‘tassello mancante’ (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle
conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del
sillogismo giudiziario;

9.3. invece, con il mezzo in disamina, si lamentano,
in sostanza, vizi di motivazione che non sarebbero stati denunciabili neppure
alla luce del previgente testo dell’art. 360, n. 5,
cod. proc. civ.: la censura, infatti, suggerisce esclusivamente una
rivisitazione del materiale istruttorio (e così delle circostanze asseritamente
risultanti dalle prove testimoniali ritenute non rilevanti e che, invece,
avrebbero consentito di ritenere assolto l’onere della prova sull’intento
persecutorio), affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella
accolta dalla sentenza impugnata;

ma non può il ricorso per cassazione enucleare vizi
di motivazione dal mero confronto tra le risultanze di causa, vale a dire
attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro
delibazione non consentiti in sede di legittimità (v. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014 cit.);

10. da tanto consegue che il ricorso deve essere
respinto;

11. al rigetto del ricorso consegue la condanna
della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità,
liquidate come da dispositivo;

12. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla I. n. 228/2012,
deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il
raddoppio del contributo unificato dovuto dalla ricorrente.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento, in favore delle Amministrazioni controricorrenti, delle spese del
giudizio di legittimità liquidate in euro 5.500,00 per compensi professionali
oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 marzo 2020, n. 7487
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