Prassi – FONDAZIONE STUDI CDL – Approfondimento 16 aprile 2020

L’anticipo dei trattamenti di integrazione salariale ai
lavoratori da parte delle banche: vincoli e responsabilità delle parti

 

Il 30 marzo 2020 presso il Ministero del Lavoro,
l’ABI, associazioni datoriali e organizzazioni sindacali, hanno concluso un
accordo per far fronte alle difficoltà di carattere finanziario che derivano ai
lavoratori e alle loro famiglie, nelle more del pagamento diretto da parte
dell’INPS delle indennità dei trattamenti di integrazione del reddito, laddove
non vi possa provvedere il datore di lavoro con propria anticipazione,
prevedendo la possibilità che vi provvedano gli istituti bancari. In attesa
dell’effettiva entrata a regime dei sistemi e procedure solo di recente licenziati
dalle banche aderenti che hanno deciso di dare corso all’accordo, nonché della
verifica della efficacia della misura in ragione soprattutto della tempestività
della sua attuazione concreta, elemento fondamentale, come riconosciuto dalle
stesse premesse dell’accordo, appaiono utili alcune considerazioni rispetto ad
aspetti sostanziali della natura e delle conseguenze di tale accordo e della
Convenzione che ne è risultata. Questo vale innanzitutto in relazione agli
impegni che vengono assunti e alle relative responsabilità, non escluse quelle
di natura penale per il caso di dichiarazioni mendaci o comunque non veritiere.

 

1. DELLA VINCOLATIVITÀ DELL’ACCORDO

 

Si pone innanzitutto la necessità della verifica
della vincolatività dell’accordo rispetto ai datori di lavoro e quindi degli
adempimenti e obbligazioni che agli stessi sono richiesti e attribuiti nel
disegno della Convenzione in discorso.

Una prima soluzione potrebbe essere prospettata
nell’ambito della rappresentanza sindacale, per effetto della quale l’accordo
vincola, in modo pressoché consequenziale, tutti coloro che risultano aderenti
ad una delle associazioni che hanno sottoscritto la Convenzione. L’opzione non
soddisfa però del tutto, in base a due ordini di considerazioni. La prima,
relativa alla possibilità di ricondurre l’accordo medesimo alle dinamiche
ordinarie del mandato rappresentativo nell’ambito delle relazioni industriali.
La seconda, che confermerebbe proprio questo tipo di perplessità, sul rilievo
che nei confronti degli istituti bancari l’accordo, pur sottoscritto dall’ABI,
non implica alcuna vincolatività oggettiva, considerato che, sin dalle
premesse, l’adesione da parte degli istituti è volontaria, così come peraltro
confermato dal punto 1 della Convenzione, per il quale “la presente Convenzione
è aperta alla immediata applicazione da parte di tutte le Banche che intendono
sostenere attivamente l’iniziativa”. Ergo, senza alcuna efficacia di
obbligatorietà diffusa ed immediata.

La necessità di una adesione specifica (anche) per
la parte datoriale è esplicita in caso di azienda non associata alle parti
sottoscrittrici, nel qual caso è richiesta una dichiarazione del datore di
lavoro “di condividere ed aderire ai princìpi, criteri e strumenti previsti
nella Convenzione” (All. #4, n. 8).

Tuttavia, anche l’obbligatorietà che volesse
presumersi per i datori i quali invece risultino aderenti ad una delle
associazioni che hanno sottoscritto la Convenzione, non esclude la necessità di
una adesione specifica all’attivazione della procedura, come risulta dalla
previsione della sottoscrizione della parte datoriale, diffusamente presente
sui moduli allegati alla Convenzione, con i quali è raccolto l’impegno del
datore di lavoro, con una clausola di benestare (All. #1 e 2).

 

2. DELLE OBBLIGAZIONI DEL LAVORATORE

 

Per come emerge inequivocabilmente dalla modulistica
prevista con la Convenzione, il lavoratore con la sottoscrizione delle
richieste predisposte dai contraenti dispone sostanzialmente una cessione di
credito, dichiarando irrevocabilmente – “anche ai sensi dell’art. 1723 secondo comma del codice civile” – di
volere la domiciliazione del pagamento dello stipendio e delle indennità di
cassa integrazione, secondo le coordinate che deve indicare con il modello
predisposto, impegnandosi altrettanto irrevocabilmente a ripetere tali
indicazioni nella modulistica predisposta dall’INPS (mod. SR41), alla cui
consegna pure s’impegna dopo aver effettuato la richiesta alla banca.

Tale impegno di domiciliazione – circostanza non di
scarso rilievo – potrebbe anche riguardare, ad insindacabile giudizio
dell’istituto bancario, “l’apertura di un conto corrente apposito” (punto 3
della Convenzione). È comunque prevista l’eventualità per il lavoratore istante
di superare il vaglio, anche questo ad insindacabile giudizio dell’istituto
bancario, del merito creditizio, per il quale non è prevista alcuna
disposizione speciale, se non la sollecitazione che sia effettuato “nel più
breve tempo possibile”, confermando per le banche “in ogni caso (la) piena
autonomia e discrezionalità, nel rispetto delle proprie procedure e delle
vigenti disposizioni di legge e regolamento in materia di assunzione del
rischio” (art. 5 della Convenzione).

In qualsiasi modo, stando al terzo comma del punto 6
della Convenzione, “in caso di mancato accoglimento della richiesta di
integrazione salariale, ovvero allo scadere del termine dei sette mesi di cui
al punto 3 qualora non sia intervenuto il pagamento da parte dell’INPS (termine
massimo previsto per la durata dell’apertura di credito in discorso), la Banca
potrà richiedere l’importo dell’intero debito relativo all’anticipazione al/la
lavoratore/trice che provvederà ad estinguerlo entro trenta giorni dalla
richiesta”. Da segnalare che quest’ultima obbligazione è assunta, per quanto è
richiesto di sottoscrivere con l’allegato #2, nel caso in cui la “domanda non
sia stata accolta”, senza alcuna distinzione circa le ragioni che hanno
determinato tale reiezione, né la considerazione della definitività e/o della
fondatezza del diniego.

 

3. DEI VINCOLI DEL DATORE DI LAVORO

 

L’adesione del datore di lavoro è prevista in ogni
istanza del lavoratore e la sua firma è richiesta ai fini del benestare della
domanda. Tuttavia, il punto 6 della Convenzione, al sesto comma, lo individua
espressamente quale responsabile, in solido con il lavoratore, innanzi tutto “a
fronte di omesse o errate sue comunicazioni alla banca ai sensi della presente
convenzione”, conseguenza questa fisiologica di qualunque dichiarazione,
documentazione, attestazione. Ma, soprattutto, l’attenzione deve essere rivolta
inoltre sulla responsabilità, sempre solidale “a fronte del mancato
accoglimento – totale o parziale – della richiesta di integrazione salariale
per sua responsabilità: in tal caso, la Banca richiederà l’importo al datore di
lavoro responsabile in solido, che provvederà entro trenta giorni”.

Qui i contorni della responsabilità datoriale non
appaiono immediati, sebbene non si possa ritenere alcun dubbio nel considerarla
sussistente solo in caso di omissioni proprie dell’operato del datore stesso e
si debba invece escluderla, evidentemente, laddove risulti conseguenza di
dichiarazioni e/o documentazione mendaci, incomplete o comunque inesatte, che
gli possano essere provenute da terzi, lavoratore compreso.

 

4. RIFLESSI DI NATURA PENALE

 

Nell’ambito della Convenzione, le condotte che
possono avere un rilievo di natura penale sono rintracciabili proprio
all’interno del punto 6. Si tratta, dunque, di enucleare i comportamenti
specifici, che consistono nella violazione di alcuni obblighi ivi previsti e di
individuare le fattispecie criminose astratte alle quali ricondurli.

Il primo dovere, che la Convenzione, nel primo
capoverso del punto, pone a carico del lavoratore e del datore di lavoro in via
solidale, è quello di “informare tempestivamente la Banca (…) circa l’esito
della domanda di trattamento di integrazione salariale”.

A tale obbligo si aggiunge quello – previsto nel
quinto capoverso del medesimo punto della convezione – di fornire alla Banca dati
corretti che, secondo il tenore letterale della clausola, devono riguardare non
soltanto l’esito della domanda di trattamento di integrazione salariale, ma,
altresì, qualsiasi comunicazione che il lavoratore e il datore di lavoro sono
tenuti a dare alla Banca in dipendenza dell’apertura di credito mediante la
quale è stata disposta l’anticipazione dell’indennità.

Oltre a ciò, è da rilevare che, ai sensi del citato
quinto capoverso del punto 6, rappresentano fonte di responsabilità “in solido
del datore di lavoro” le “omesse” e le “errate” comunicazioni.

Orbene, atteso che le “comunicazioni” di cui si
tratta sono senza dubbio da ricomprendere nell’alveo della “scrittura privata”,
con riguardo alle condotte è da mettere in evidenza che:

1. quella omissiva (che consiste nel non avere
inviato le comunicazioni alla Banca) potrebbe assumere la forma del falso
ideologico in scrittura privata;

2. quella commissiva (che consiste nell’aver fornito
mediante un scrittura privata comunicazioni “errate” alla Banca) potrebbe
rivestire – reputando con una forzatura ermeneutica la parola “errate” come
sinonimo della parola “false” – la fisionomia tanto del falso materiale quanto
del falso ideologico.

Tuttavia, tali condotte, anche se fossero da
inquadrare nella fattispecie ex art. 485 del codice
penale, che puniva la “falsità in scrittura privata”, hanno perduto rilievo
di natura penale in seguito al decreto legislativo
15 gennaio 2016, n. 7, che, all’art. 1, ha abrogato la norma di cui al
citato articolo 485 cod. pen.

In ogni caso, a prescindere dall’intervenuta
abolitio crimimis, il fatto di presentare nella forma della scrittura privata
comunicazioni “errate” non sarebbe stato previsto dalla legge (in particolare,
dall’art. 485 cod. pen.) come reato, perché,
come suggerisce l’aggettivo “errate” utilizzato nella Convenzione, si sarebbe
trattato di una condotta punibile a titolo di colpa – in quanto dovuta,
appunto, ad un “errore” – e non a titolo di dolo come, invece, era richiesto
per la punibilità delle fattispecie riconducibili al paradigma di cui all’art. 485 cod. pen.

Un altro profilo di responsabilità è previsto, poi,
dalla seconda parte del quinto capoverso, testé analizzato alla fine del
paragrafo terzo del presente approfondimento, secondo cui il datore di lavoro
risponde in solido nei confronti della Banca per il “mancato accoglimento –
totale o parziale – della richiesta di integrazione salariale per sua
responsabilità”. In tale ipotesi non è dato modo di cogliere una condotta
idonea a rivestire carattere di illecito penale, perché il “mancato
accoglimento della richiesta” potrà essere dovuto più che a dolo semmai a
colpa, nella manifestazione della negligenza ovvero della inosservanza di leggi
o di regolamenti, per avere, ad esempio, il datore di lavoro presentato in
ritardo la domanda prevista dal decreto
legislativo 14 settembre 2015, n. 148. Si tratta, dunque, in buona
sostanza, esclusivamente di una responsabilità di tipo patrimoniale.

È, infine, da osservare che dal combinato disposto
del secondo e del quarto capoverso del punto 6 della Convenzione si apprende
che, nell’ipotesi in cui il lavoratore non dovesse adempiere l’obbligo di
estinguere l’importo dell’intero debito relativo all’anticipazione (a causa del
“mancato accoglimento della richiesta di integrazione salariale”, ovvero al
fatto che allo scadere del termine dei sette mesi stabilito al punto 3 della
Convenzione, l’INPS non abbia ancora provveduto a pagare l’indennità), il
datore di lavoro sarà tenuto a versare alla Banca “gli emolumenti e tutte le
componenti retributive spettanti al lavoratore, fino alla concorrenza del
debito”.

Deve, pertanto, costituire oggetto di riflessione
sotto la lente d’ingrandimento della legge penale l’ipotesi in cui il datore di
lavoro non versi alla Banca le somme di cui quest’ultima fosse creditrice “fino
alla concorrenza del debito”.

A tale fine, giova richiamare l’attenzione sul fatto
che, al momento della presentazione della richiesta di anticipazione, il
lavoratore “darà preventiva autorizzazione al proprio datore di lavoro” ad
effettuare il versamento delle somme a lui spettanti in favore della Banca. Il
caso di specie può essere equiparato a una cessione negoziale della
retribuzione (o di una sua quota) effettuata dal prestatore di lavoro alla
Banca contestualmente alla anticipazione da parte di questa di una somma a titolo
di integrazione salariale. Ebbene, secondo la sentenza
n. 37954 pronunciata il 20 ottobre 2011 dalle Sezioni Unite Penali della
Corte di Cassazione, non è configurabile il reato di appropriazione indebita
nell’ipotesi in cui il datore di lavoro ometta di pagare “al cessionario la
quota di stipendio trattenuta”. E ciò sul presupposto che “nulla consente di
distinguere, come già rilevava la sentenza delle Sezioni Unite n. 1327 del
2004, tale omesso pagamento da quanto versato a titolo di retribuzione al
lavoratore, dall’omesso pagamento, integrale e parziale, della retribuzione al
lavoratore. In relazione a un inadempimento di tal fatta del datore di lavoro
non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la
somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal
patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote
intangibili, non essendo prevista – ad opera dei datori di lavoro, di alcun
tipo – la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati
deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini
dell’assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall’art. 36 della Costituzione”. È logico, dunque,
concludere che, alla luce di quanto affermato dalla autorevole richiamata
decisione della Suprema corte, nella fattispecie concreta in esame,
l’inadempimento del datore di lavoro ha una valenza esclusivamente patrimoniale
e non riveste carattere di illiceità penale.

Prassi – FONDAZIONE STUDI CDL – Approfondimento 16 aprile 2020
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