Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 aprile 2020, n. 12157

Prevenzione degli infortuni, Responsabilità del datore di
lavoro, Reato di lesioni colpose, Mancata previsione del rischio di cadute
dall’alto, Insufficienza e inadeguatezza del presidio fornito al lavoratore,
Malore occorso al lavoratore, Rapporto di causalità comunque non interrotto
dalla mancata adozione di idoneo strumento di lavoro

Ritenuto in fatto

1. La Corte di Appello di Torino, con sentenza
pronunciata in data 11 Marzo 20191 confermava la sentenza emessa dal Tribunale
di Torino che aveva riconosciuto D.T.S., in qualità di datore di lavoro,
colpevole del reato di lesioni colpose con inosservanza della disciplina sulla
prevenzione degli infortuni i ai danni della lavoratrice N.S. la quale,
impegnata in attività di inventario della merce posta nel magazzino del punto
vendita di Rivoli, utilizzando una scala a libro per la visione degli articoli
posizionati sugli scaffali, era caduta all’indietro procurandosi la frattura della
vertebra D 12 con conseguente periodo di malattia della durata di gg.184.

Al datore di lavoro era contestata, oltre alla colpa
generica, la inosservanza di specifiche disposizioni del D.Lgs. n.81/2008, con particolare riferimento
alla messa a disposizione di inadeguato strumento di lavoro, sprovvisto di
sistemi di appoggio e di aggancio, in relazione alla mancata previsione del
rischio di cadute dall’alto con particolare riferimento all’ambito di
lavorazione in cui la lavoratrice era impegnata (inventario della merce) e alla
mancata formazione e informazione della dipendente sui rischi connessi alla
suddetta lavorazione.

2. Il giudice distrettuale riconosceva la
inosservanza delle regole cautelari suddette da parte del datore di lavoro,
attenendo le stesse non solo alla fase esecutiva della lavorazione e alla
vigilanza della ricorrenza dei presidi antinfortunistici del caso, ma anche
alla fase della programmazione della lavorazione e della individuazione dei
rischi specifici connessi alla specifica lavorazione che rientravano
nell’ambito della sfera di competenze del soggetto investito del più elevato
compito di indirizzo e di direzione dell’attività produttiva. Quanto poi alle
singole contestazioni, rilevava la insufficienza e la inadeguatezza del
presidio fornito alla lavoratrice, chiamata ad operare ad altezze, anche
superiori a quelle in cui era stata impegnata nell’occasione dell’infortunio,
ove erano riposte e accatastate le merci, in assenza di punti di appoggio o di
strumenti di contenimento, pur essendo la lavoratrice tenuta ad eseguire
attività di controllo e di annotazione che non le lasciavano libere entrambe le
mani, così da non potere ella reagire in caso di perdita di stabilità dello
strumento o di una oscillazione, pure indebita, della lavoratrice.

Sotto diverso profilo escludeva che si fosse
realizzata una interruzione del rapporto di causalità in ragione del malore che
pure la lavoratrice aveva dichiarato esserle occorso laddove, in assenza della
dimostrazione di una perdita di conoscenza, l’uso di trabattello o di scala
munita di passamani o di piano di appoggio più stabile, sarebbe stato in grado
di evitare la caduta all’indietro della lavoratrice e comunque di consentire
alla stessa di aggrapparsi ai sistemi di appoggio.

4. Avverso la suddetta pronuncia interponeva ricorso
per la cassazione la difesa della D.T. proponendo un unico motivo di ricorso
con il quale si deduce violazione di legge e vizio motivazionale con specifico
riferimento alla ritenuta sussistenza della prova del rapporto di causalità tra
le omissioni contestate e l’evento lesivo occorso alla lavoratrice.

Assumeva, da un lato, che solo nel corso
dell’istruttoria dibattimentale fosse stato introdotto dal testimone, ispettore
del lavoro, lo specifico strumento antinfortunistico idoneo a preservare la
lavoratrice da cadute dall’alto in relazione alla specifica lavorazione
richiesta (trabattello o scala cimiteriale) e dall’altro che anche un tale
strumento, in ipotesi di mancamento dell’operatrice in quota, non sarebbe stato
idoneo a preservare la persona offesa dalla caduta e quindi dal trauma che ne
era conseguito, in quanto anch’esso era privo di protezione sul lato della
schiena.

Alla udienza di discussione veniva acquisita
dichiarazione di revoca della costituzione di parte civile proveniente dalla
persona offesa N.S..

 

Considerato in diritto

 

1. Va preliminarmente evidenziato, in ossequio a
principi ripetutamente affermati da questa Corte, che, in punto di vizio
motivazionale, compito del giudice di legittimità, allo stato della normativa
vigente, è quello di accertare (oltre che la presenza fisica della motivazione)
la coerenza logica delle argomentazioni poste dal giudice di merito a sostegno
della propria decisione, non già quello di stabilire se la stessa proponga la
migliore ricostruzione dei fatti. Neppure il giudice di legittimità è tenuto a
condividerne la giustificazione, dovendo invece egli limitarsi a verificare se
questa sia coerente con una valutazione di logicità giuridica della fattispecie
nell’ambito di una plausibile opinabilità di apprezzamento; ciò in quanto l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) ; non consente
alla Corte di Cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa
interpretazione delle prove, essendo estraneo al giudizio di legittimità il
controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali
(ex pluribus: Cass. n. 12496/99, sez.IV, 2.12.03 Elia n. 4842, Rv. 229369);
pertanto non può integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di
una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze
processuali. È stato affermato, in particolare, che la illogicità della
motivazione, censurabile a norma del citato art.
606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella evidente, cioè di spessore tale da
risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato demandato
alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a
riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti
della decisione impugnata (Cass. SU n. 47289/03 Rv. 226074). Detti principi
sono stati ribaditi anche dopo le modifiche apportate all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) dalla L. n. 46 del 2006, che ha introdotto il
riferimento ad “altri atti del processo”, ed ha quindi, ampliato il
perimetro d’intervento del giudizio di cassazione, in precedenza circoscritto
“al testo del provvedimento impugnato”. La nuova previsione
legislativa, invero, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che
rimane comunque un giudizio di legittimità, nel senso che il controllo rimesso
alla Corte di cassazione sui vizi di motivazione riguarda sempre la tenuta
logica, la coerenza strutturale della decisione. Così come sembra opportuno
precisare che il travisamento, per assumere rilievo nella sede di legittimità,
deve, da un lato, immediatamente emergere dall’obiettivo e semplice esame
dell’atto, specificamente indicato, dal quale deve trarsi, in maniera certa ed
evidente, che il giudice del merito ha travisato una prova acquisita al
processo, ovvero ha omesso di considerare circostanze risultanti dagli atti
espressamente indicati; dall’altro, esso deve riguardare una prova decisiva,
nel senso che l’atto indicato, qualunque ne sia la natura, deve avere un
contenuto da solo idoneo a porre in discussione la congruenza logica delle
conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito.

2. Orbene, alla stregua di tali principi, deve
prendersi atto del fatto che la sentenza impugnata non presenta alcuno dei vizi
dedotti dai ricorrenti, atteso che l’articolata valutazione, da parte dei
giudici di merito, degli elementi probatori acquisiti rende ampio conto delle
ragioni che hanno indotto gli stessi giudici a ritenere la responsabilità della
ricorrente, mentre le censure da questa proposte finiscono sostanzialmente per
riproporre argomenti già esposti in sede di appello, che tuttavia risultano
ampiamente vagliati e correttamente disattesi dalla Corte territoriale, ovvero
per sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze
processuali, fondata su una valutazione alternativa delle fonti di prova, in
tal modo richiedendo uno scrutinio improponibile in questa sede.

3. In particolare la Corte territoriale ha indicato
una serie di elementi a sostegno del proprio convincimento in punto di
sussistenza tanto del rapporto di causalità omissiva quanto dell’elemento
soggettivo del reato, argomenti con i quali la difesa della ricorrente non
mostra di confrontarsi finisce per riproporre il contenuto dei motivi di
gravame già articolati dinanzi al giudice di appello.

4. Sotto il profilo soggettivo è indubbio che la
lavoratrice era intenta a svolgere un’attività di lavoro (in particolare di
inventario di merce stipata su scaffali) con mezzo, scala a pioli, del tutto
inadeguato in relazione alla specifica lavorazione che le veniva richiesta, con
particolare riferimento alla esigenza di operare in sicurezza pur mantenendo impegnate
una o entrambe le mani in attività di computo e di inventario, in presenza di
strumento di lavoro privo di punti di appoggio, di balaustra o di mancorrenti e
in assenza di una specifica previsione di tale lavorazione nel Documento di
Valutazione dei Rischi. A tale proposito, se è vero che il lavoratore era
impegnato a lavorare ad altezza che giustificava l’impiego di scala a pioli,
nondimeno dall’esame della sentenza e dei motivi di ricorso si evince che egli
si trovava ad operare a quota non minimale, in presenza di scaffali posti anche
a m.2,50 da terra, stipati di numerosissimi articoli da inventariare, con
modalità operative che giustificavano l’impegno delle mani di chi operava.

4.1 In tale prospettiva non può ritenersi certamente
imprevedibile la perdita di equilibrio dell’operatore i dovuta alla
oscillazione della scala ovvero al fatto del lavoratore nelle operazioni di
inventario; conseguentemente il giudice di appello ha riconosciuto del tutto
correttamente la inidoneità di una scala a pioli per attività che imponevano al
lavoratore di stazionare a lungo in quota per lo svolgimento di operazioni che
imponevano l’impiego delle mani, richiedendo l’adozione di strumento di lavoro
più consono che gli consentisse di stazionare su una superficie più ampia,
ovvero di sorreggersi con punti laterali e frontali e ancora prima la
esplicitazione nel DVR di una chiara procedura di lavoro, in presenza di palesi
problemi di sicurezza, stabilità ed equilibrio del lavoratore impegnato.

5. Quanto al rapporto di causalità, a fronte di
caduta all’indietro il motivo di ricorso della N. non si confronta con i logici
e non contraddittori argomenti indicati dalla torte distrettuale t la quale ha
correttamente rappresentato come, anche in presenza di una perdita di equilibrio
determinata da un malessere o da un mancamento non accompagnato da una perdita
di conoscenza, non risulterebbe interrotta la serie causale innescata dalla
mancata adozione di idoneo strumento di lavoro. Invero qualora fosse stata
adottata una procedura di lavoro più accorta (mediante l’impegno di due
persone), ovvero in presenza di strumento di lavoro più stabile o sicuro (scala
cimiteriale), la caduta sarebbe stata evitata, in quanto la N. avrebbe potuto
assicurarsi ai sistemi di appoggio della scala (balaustra, appoggi laterali)
anche in ipotesi di improvviso mancamento, ovvero mediante la stabilità e la
fermezza della scala garantita da altro lavoratore ai piedi della scala.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza
di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent.
n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese
del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella
misura indicata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila
in favore della Cassa delle Ammende.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 aprile 2020, n. 12157
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: