Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 febbraio 2020, n. 4183

Diritto al superiore inquadramento, Differenze retributive,
Declaratorie di categoria, Attività descritte in ciascun profilo professionale
non cumulative, ma riferite ad alternative ipotesi di utilizzazione,
Procedimento ermeneutico fondato su criteri elaborati dalla giurisprudenza di
legittimità

 

Rileva che

 

con sentenza n. 6909 in data 15 settembre – 7
ottobre 2014 la Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame interposto da
R.F.I. S.p.a. avverso la decisione n. 9962/26.5-3.6.2011, pronunciata dal
locale giudice del lavoro, che aveva accolto le domande degli attori (B.G.,
L.R., M.R., G.G., G.R., D.E.P., B.G., C.E., G.M. e C.A.), tutti dipendenti ed
ex dipendenti di R.F.I. S.p.a., volte ad ottenere il riconoscimento del vantato
diritto al superiore inquadramento nella 9^ categoria ex c.c.n.I. di settore,
risalente al 1992, come successivamente modificato, con il profilo
professionale di capo settore stazioni, secondo le rispettive e distinte
indicate decorrenze, con la condanna altresì della società convenuta al
pagamento delle conseguenti differenze retributive spettanti (maturate tra il
primo gennaio 2004, solo per il C. da maggio, fino al 31 marzo 2009), laddove
gli istanti risultavano inquadrati nella 8^ categoria con il profilo di capo
stazione sovrintendente. Costoro, infatti, avevano sostenuto di aver svolto
mansioni superiori, attribuite ed in concreto svolte come dirigente contrale
presso l’ufficio DC/DCO di Firenze, mansioni correlate alla direzione, alla
vigilanza, al coordinamento e controllo della circolazione dei treni
relativamente ad un complesso di impianti (stazioni) costituenti il c.d. nodo
di Firenze, ivi compresa la c.d. Linea Pisana, avverso la sentenza d’appello ha
proposto ricorso per cassazione R.F.I. S.p.a. (già F.S. società di trasporti e
servizi per azioni), come da atto in data 9 marzo 2015, affidato a cinque
motivi, cui hanno resistito B.G. e gli altri nove litisconsorti in epigrafe,
mediante controricorso con ricorso incidentale condizionato, riferito ad una
sola censura, e contro il quale la società RFI ha replicato con proprio
controricorso del 6/7 maggio 2015; entrambe le parti hanno depositato memorie
illustrative;

con il primo motivo del ricorso principale è stata
denunciata la violazione dell’art. 11 delle
preleggi e dell’art. 412 bis c.p.c. – ai
sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. – nonché
l’omesso esame di un punto che aveva formato oggetto di discussione ex art. 360 n. 5 c.p.c., tanto con riferimento al
rigetto dell’eccezione d’improcedibilità per ritenuta soppressione
dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, senza tener conto del fatto
che il ricorso introduttivo del giudizio era stato depositato il sette luglio
2009, di modo che operava pianamente l’art. 412 bis
c.p.c., ratione temporis applicabile;

con il secondo motivo è stato dedotta ex art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione degli artt. 1932 e 2943 c.c.
in ordine al rigetto dell’eccezione di prescrizione, in quanto le missive
all’uopo depositate dai lavoratori non risultavano firmate dagli interessati né
dal loro difensore (avv. B.);

con il terzo motivo la società ricorrente ha
censurato l’impugnata sentenza, ex art. 360 n. 3
c.p.c., per violazione, errata interpretazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1362 e
1363 c.c. in relazione al c.c.n.I. 1990/92, all’accordo sindacale del 26
luglio 1991 ed al decreto ministeriale 14 maggio 1985 n. 1085, nonché, ai sensi
dell’art. 360 n. 5 c.p.c., per omesso esame di
un fatto decisivo per il giudizio, laddove tra l’altro la corte territoriale
non aveva fatto alcun riferimento al suddetto accordo sindacale, concernente le
declaratorie relative al capo stazione sovrintendente ed al capo settore
stazioni, quest’ultimo adibito alla direzione di impianti di rilevante entità
ed importanza, oltre che per lo svolgimento di vigilanza, coordinamento e
controllo su più impianti, anche nel settore e sulla circolazione, a differenza
del capo stazione sovrintendente, di modo che la sentenza impugnata aveva anche
mancato di considerare quanto dedotto dalla società RFI sul punto;

con il quarto motivo, è stata dedotta la violazione
e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c.e 2697 c.c., nonché l’omesso
esame di un fato decisivo, in quanto la Corte d’Appello non aveva considerato i
fatti emersi a seguito dall’espletata istruttoria , che dimostravano come gli
attori non avessero mai svolto le attività di cui alle invocate declaratorie.
In particolare, l’errore era consistito nel non aver valutato, nel loro complesso,
ma quindi in maniera del tutto univoca e distorta, le dichiarazioni rese dai
testi escussi, così da far ritenere l’ascrivibilità delle mansioni svolte al
superiore inquadramento rivendicato;

con il quinto motivo la ricorrente principale ha
ulteriormente dedotto ex art. 360 n. 5 c.p.c.
l’omesso esame di un fatto decisivo, avendo la Corte distrettuale in buona
sostanza ripetuto l’errore di primo giudicante, secondo cui RFI non aveva
contestato i conteggi elaborati ex adverso;

con il ricorso incidentale condizionato è stata
denunciata, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la
violazione o falsa applicazione dell’art. 112
dello stesso codice di rito, per la parte in cui la Corte d’Appello, ritenuta
assorbita la questione circa comunque l’eseguito tentativo di conciliazione per
effetto dell’intervenuta modifica normativa, con si era pronunciata nel merito
sul punto;

Tanto premesso il ricorso principale va disatteso
per le seguenti ragioni, con conseguente assorbimento di quello incidentale;
invero, il primo motivo è inammissibile, siccome irritualmente formulato ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., e non già univocamente
in termini di nullità ai sensi dell’art. 36 n.
4 dello stesso codice, visto che il vizio denunciato riguardo in effetti un
error in procedendo (questione peraltro infondata in base al principio, in base
al quale nelle controversie di lavoro, la verifica dell’effettiva e preventiva
proposizione della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione (cui
la legge condiziona la procedibilità della domanda giudiziale), che ricomprende
anche la questione della idoneità della detta richiesta a manifestare la
volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento, è sottratta alla
disponibilità delle parti e rimessa al potere – dovere del giudice del merito,
da esercitarsi, ai sensi del secondo comma dell’art.
443 cod. proc. civ., solo nella prima udienza di discussione, sicché ove la
questione, ancorché segnalata, non venga rilevata dal giudice entro detto
termine, l’azione giudiziaria prosegue, in ossequio al principio di speditezza
di cui agli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., e la questione stessa
non può essere riproposta nei successivi gradi del giudizio – così Cass. lav.
n. 15103 del 10/09/2012 ed in senso conforme anche Cass. lav. n. 13394 del 19/07/2004);

analogamente va ritenuto per il secondo motivo,
laddove in effetti parte ricorrente omette di trascrivere il contenuto dei
documenti in questione, oltre che anche delle argomentazioni in senso contrario
espresse dal giudice di primo grado, espressamente richiamate nella sentenza
qui impugnata, con conseguente difetto di specificità e di autosufficienza,
perciò in violazione delle allegazioni invece prescritte dall’art. 366, co. 1, c.p.c.. Senza dire, inoltre, che
le contestazioni mosse dalla ricorrente circa la mancanza delle firme relative
agli atti interattivi della prescrizione riguardano, evidentemente, le minute
delle missive a suo tempo spedite dai diretti interessati e da costoro, quindi,
prodotte in giudizio, per cui R.F.I. senza contestarne la ricezione tuttavia ha
pure mancato di produrre gli originali che le furono pervenuti. Per contro si
legge a pag. 4 della sentenza impugnata che la prescrizione fu interrotta come
da missive ricevute dalla società il 29 dicembre 2008 ed il 27 aprile 2009,
validamente inviate dal difensore, cui successivamente venne conferito il
mandato ad litem, e con l’ulteriore precisazione che secondo comune esperienza
la mancanza di firma del difensore sulla velina della lettera di costituzione
in mora deve ritenersi relativa alla sola copia trattenuta dal mittente, mentre
deve ritenersi regolarmente sottoscritto l’atto ricevuto dal destinatario. V.
sul punto anche Cass. IlI civ. n. 1557 del 19/05/1972, secondo cui l’effetto
interruttivo della prescrizione non può essere prodotto da qualsiasi atto, ma
proprio da quelli espressamente previsti dall’art. c.c., e l’indagine
sull’esistenza di tali atti, implicando un apprezzamento di fatto, non è
censurabile in cassazione se correttamente motivata. In senso analogo, v. anche
Cass. II civ. n. 2159 in data 8/7/1971: lo stabilire nei singoli casi se un
dato atto abbia efficacia interruttiva è indagine di mero fatto insindacabile
in cassazione);

parimenti, vanno respinti il terzo ed il quarto motivo,
tra loro connessi e perciò esaminabili congiuntamente, dovendosi ribadire in
questa sede quanto già ripetutamente deciso da questa Corte in casi del tutto
analoghi a quello di cui si discute in questa sede, non sussistendo validi
motivi per discostarsi dal precedente orientamento (cfr. tra le altre Cass.
lav. n. 15685 del 4/5 – 28/07/2016: <<… I motivi, che possono
congiuntamente trattarsi siccome connessi, sono privi di fondamento. In
particolare, quanto al primo motivo, si osserva che nel procedimento
logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento dei dipendenti,
la Corte di appello ha correttamente operato l’accertamento in fatto delle
mansioni lavorative in concreto svolte dagli odierni controricorrenti,
richiamando, ai fini della esegesi delle declaratorie di categoria applicabili
nella fattispecie, precedenti giurisprudenziali di legittimità attinenti ai
previgenti parametri normativi di cui al d.m. n. 1085/1985, secondo cui le
attività descritte in ciascun profilo professionale non sono cumulative ma si
riferiscono ad alternative ipotesi di utilizzazione. Si tratta di un corretto
procedimento ermeneutico fondato su criteri elaborati dalla giurisprudenza di
legittimità, che non inficia la correttezza del procedimento logico-giuridico
seguito dai giudici dell’impugnazione.

4. Non va, peraltro, sottaciuto che l’accertamento
della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini
dell’inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori,
costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito ed è
insindacabile, in sede di legittimità, se sorretto, come nella fattispecie, da
logica e adeguata motivazione. Invero, la Corte distrettuale ha desunto il dato
delle mansioni espletate dagli odierni intimati dalle testimonianze raccolte in
giudizio ed ha accertato che le stesse corrispondevano a quelle contemplate
dalla seconda ipotesi della declaratoria di cui all’Accordo sindacale del 26
luglio 1991 che, nel definire il contenuto professionale della 9′ categoria,
cioè quella del Capo Settore Stazioni, prevede lo svolgimento di “attività
di direzione di impianti di rilevante entità ed importanza” oppure
“attività di vigilanza, coordinamento e controllo su più impianti anche di
rilevante importanza nel settore della circolazione”. Così in particolare,
ha evidenziato che gli appellanti “avevano il compito di dirigere e
coordinare il traffico su più impianti, occupandosi di 14 stazioni
telecomandate su di un tratto di circa 150 km. di linea; verificavano la regolarità
della circolazione, intervenivano in caso di anomalie a risolvere i problemi,
decidevano la soppressione o la sostituzione dei treni, erano gli unici
responsabili in caso di anomalia, informavano successivamente la direzione
delle irregolarità riscontrate”.

5. Inoltre, la stessa Corte ha spiegato che
l’attività del Dirigente Centrale Operativo è quella della direzione generale
della circolazione dei treni realizzata mediante il controllo e la vigilanza
sull’andamento della circolazione nelle stazioni assegnate al medesimo
Dirigente, oltre che attraverso ordini e consigli diretti agli agenti operanti
localmente al fine di mantenere o ristabilire la regolarità della corsa dei
treni, attività complessa, questa, che ha ritenuto non contemplata nella declaratoria
della 8′ ottava categoria ove erano inquadrati i lavoratori. In maniera
altrettanto corretta la Corte di merito ha fondato la propria decisione sulla
disamina dei profili professionali previsti dallo specifico Accordo sindacale
del 26 luglio 1991, per cui il richiamo operato dalla ricorrente alle più
generiche declaratorie del contratto collettivo nazionale non scalfisce la
validità della suddetta “ratio decidendi”. Si è, infatti, avuto già modo
di affermare (Cass. 23 febbraio 2016 n. 3547,
Cass. 15 novembre 2012 n, 20015, Cass. 13 dicembre
2005, n. 27430) che “in sede di interpretazione delle clausole di un
contratto collettivo relative alla classificazione del personale in livelli o
categorie, ha rilievo preminente, soprattutto se il contratto ha carattere
aziendale, la considerazione degli specifici profili professionali indicati
come corrispondenti ai vari livelli, rispetto alle declaratorie contenenti la
definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie,
poiché le parti collettive classificano il personale non sulla base di astratti
contenuti professionali, bensì in riferimento alle specifiche figure
professionali dei singoli settori produttivi, che ordinano in una scala
gerarchica, ed elaborano successivamente le declaratorie astratte, allo -scopo
di consentire l’inquadramento di figure professionali atipiche o nuove”.

6. Con riferimento ai rapporti di lavoro dei
ferrovieri si è anche affermato (Cass. 24 gennaio 2003, n. 1083) che “in
sede di interpretazione delle clausole di un contratto collettivo relative alla
classificazione del personale in livelli o categorie, ha rilievo preminente,
soprattutto se il contratto ha, come nella specie, carattere aziendale, la
considerazione degli specifici profili professionali indicati come
corrispondenti ai vari livelli, rispetto alle declaratorie contenenti la
definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie,
poiché le parti collettive classificano il personale non sulla base di astratti
contenuti professionali, bensì in riferimento alle specifiche figure
professionali dei singoli settori produttivi, che ordinano in una scala
gerarchica, elaborando successivamente le declaratorie astratte, allo scopo di
consentire l’inserimento di figure professionali atipiche o nuove” (in
senso conforme v. anche Cass. 18 novembre 1997). Oltretutto, l’interpretazione
del suddetto accordo sindacale operata dalla Corte di merito è rispettosa del
canone ermeneutico letterale, così come la valutazione del materiale probatorio
è immune da vizi logico-giuridici.

7. In definitiva, le censure appaiono prive di
pregio, sia perché non scalfiscono la ratio decidendi basata
sull’interpretazione dei profili professionali dell’Accordo sindacale specifico
del 26 luglio 1991, sia perché attraverso le stesse si tenta una rivisitazione
del materiale istruttorio non consentita nella presente sede di legittimità.

8. Le considerazioni sinora esposte si attagliano
anche al secondo motivo di ricorso concernente la non condivisa valutazione
delle risultanze testimoniali che hanno consentito alla Corte territoriale di
acquisire elementi utili alla verifica delle mansioni espletate in concreto dai
lavoratori e sul conseguente inquadramento delle stesse nella corrispondente
categoria rivendicata di cui al suddetto Accordo sindacale, risolvendosi nel
sollecitare soltanto una nuova lettura delle risultanze probatorie, operazione
preclusa in questa sede di legittimità. Quanto alla contestuale denuncia di una
violazione di legge ed in particolare degli artt.
116 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., parte
ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa
applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale, dipendano o siano ad
ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio. Al
contrario, un’autonoma questione di non corretta applicazione degli artt. 116 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ. può porsi, rispettivamente, solo
allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base
della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di
fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia
disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove
legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza
apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a
valutazione; 3) abbia invertito gli oneri probatori. E poiché nessuna di queste
tre situazioni è rappresentata nei motivi anzidetti, le relative doglianze sono
prive di pregio (vedi in tali sensi, Cass. cit. n.
3547/2016). 9. Va, peraltro, rimarcato, quanto ai profili di violazione di
legge, che è costante l’insegnamento di questa Corte per cui il vizio di
violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.,
giusta il disposto di cui all’art. 366, primo
comma, n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilità,
dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate
ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto
contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto
con le norme regolatici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse
fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così
da prospettare críticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni,
non risultando altrimenti consentito alla S. C. di adempiere al proprio compito
istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (cfr.
Cass. n. 16038/13). È di tutta evidenza, pertanto, che pur con una
intitolazione della violazione di cui all’art. 360,
n. 3, cod. proc. civ., parte ricorrente non ha posto altro che pure
questioni di merito, il cui esame è per definizione escluso nella presente sede
di legittimità. 10. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 2946, 2948 n. 4, 2697 c.c,
nonché dell’art. 116 c.p.c., ed omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della
controversia. Si critica la sentenza impugnata per aver conferito valore
interruttivo della prescrizione alle lettere con le quali i ricorrenti
rivendicavano il superiore inquadramento e le conseguenti differenze
retributive, nonostante la genericità del tenore delle stesse. Al di là di ogni
considerazione in ordine ai profili di inammissibilità che connotano il motivo
nel cui contesto trovino formulazione, al tempo stesso, censure aventi ad
oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, giacché in tal modo si
finisce per affidare alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla
mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece
deve avere una autonoma collocazione, (vedi ex plurimis, Cass. 8 giugno 2012 n,
9431), si impone l’evidenza della ulteriore ragione di inammissibilità che
connota la censura per difetto di specificità ed autosufficienza. Essa non
reca, invero, l’esposizione del tenore delle missive oggetto della statuizione
impugnata per quanto di rilievo ai fini della doglianza sollevata, non essendo
compito della Corte stessa quello di ricercarlo autonomamente. In conclusione,
alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.
…>>. V. altresì similmente Cass. lav. n. 30545 del 9/5 – 26/11/2018);
analoghi motivati accertamenti un punto di fatto sono stati operati anche nel
caso in esame dagli aditi giudici di merito , con riferimento anche qui
all’accordo sindacale del 26 luglio 1991 ed in relazione alla nona categoria,
specialmente quella attinente al capo settore stazioni adibito ad attività di
vigilanza, coordinamento e controllo su più impianti anche di rilevante
importanza nel settore della circolazione (cfr. in part. pag. 5 e ss. della
sentenza impugnata);

del tutto inammissibile, infine, si appalesa il
quinto e ultimo motivo del ricorso principale, attesa l’estrema genericità
delle allegazioni svolte sul punto alle pagine 85 e 86 del ricorso per
cassazione, in violazione dei principi di specificità e di autosufficienza
occorrenti a norma dell’art. 366 c.p.c.,
laddove la sommaria contestazione dei conteggi in questione difetta del suo
presupposto, non essendo state riportate le avversarie elaborazioni di calcolo
in ordine alle quali la Corte di merito rilevava il fatto che l’appellante si
era limitata ad eccepirne l’inesattezza. Con l’ulteriore precisazione, inoltre,
che l’omesso esame di cui al vigente art. 360 n. 5
c.p.c., nella specie ratione temporis applicabile, con riferimento alla
sentenza impugnata risalente all’anno 2014, deve riguardare una precisa
circostanza fattuale, in storico, perciò non equiparabile ad una contestazione
di conteggi, di cui ad ogni modo la Corte d’Appello ha invece evidentemente
tenuto conto, sicché al più la critica mossa da parte ricorrente andava,
eventualmente, denunciata come difetto di motivazione, inferiore al minimo
costituzionale occorrente a norma degli art. 111
Cost., 132 n. 4 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., quindi ritualmente ed
univocamente in termini di nullità ex art. 360 co.
1 n. 4 c.p.c.;

pertanto, il ricorso deve essere rigettato, sicché
le relative spese seguono il regime della soccombenza, nella misura in
dispositivo liquidata;

infine, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge
24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti
processuali, giusta la corrispondente declaratoria, limitatamente al ricorso
principale, stante il conseguente mero assorbimento di quello incidentale,
condizionato all’accoglimento del primo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso, dichiarando inoltre assorbito
quello incidentale condizionato. Condanna la società ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 200,00 per esborsi
ed in euro 7000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed
accessori di legge, con attribuzione all’avv. P.P., procuratrice antistataria
costituta per i controcorrenti.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n.
115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della sola ricorrente principale, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso
principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 febbraio 2020, n. 4183
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