Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 maggio 2020, n. 13826

Bancarotta fraudolenta patrimoniale, Distrazione di somme di
denaro percepite a titolo di retribuzione per il lavoro subordinato prestato,
Accertamento ispettivo Inps, Dato formale della incompatibilità tra la
posizione di socio unico di Srl e qualifica di lavoratore subordinato, Diritto
del socio unico al compenso per l’opera prestata, pur sussistendo una sua
generica immedesimazione nella società

 

Ritenuto in fatto

 

1. M.G. ricorre avverso la sentenza della Corte di
appello di Trieste del 2 maggio 2019, che, in parziale riforma della sentenza
del Giudice dell’udienza preliminare di Udine del 13 aprile 2013, ha ridotto la
pena principale e le pene accessorie che le erano state inflitte per il delitto
di bancarotta fraudolenta patrimoniale, commesso nella qualità di socio unico
della M. Srl., dichiarata fallita l’11 luglio 2013, concorrendo con
l’amministratore di diritto della stessa nella distrazione di somme di denaro
erogatele a titolo di retribuzione per il lavoro subordinato prestato in favore
della società.

2. Il ricorso consta di tre motivi, enunciati nei
limiti richiesti per la motivazione secondo quanto disposto dall’art. 173 disp.att. cod.proc.pen.

– Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 521 e 604
cod.proc.pen., per essere, la Corte territoriale, incorsa in un duplice
error in procedendo; in primo luogo, per avere condannato l’imputata per un
fatto diverso da quello che le era stato contestato. Infatti, mentre secondo
l’imputazione, costei avrebbe percepito una retribuzione, a titolo di lavoro
subordinato prestato nei confronti della società, sulla base di un contratto
invalido, secondo la sentenza avrebbe, invece, percepito la detta retribuzione
ancorché non avesse prestato alcun contributo all’attività d’impresa. In
secondo luogo, una volta accertata l’immutazione del fatto, avrebbe dovuto
annullare la sentenza appellata e non, di contro, affermare che il giudice di
secondo grado può, comunque, ovviare ad eventuali incongruenze della sentenza
di primo grado.

– Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 2126 cod.civ., quale norma di cui si deve
tener conto nell’applicazione della legge penale. L’accertamento ispettivo
dell’INPS si era limitato ad evidenziare il dato formale dell’incompatibilità
tra la posizione di socio unico della M. Srl. rivestita dall’imputata e la sua
qualifica di lavoratore subordinato alle dipendenze della stessa, di modo che
vi era necessità dell’iscrizione del socio unico al regime contributivo dei
lavoratori autonomi, potendosi dire che questi avesse svolto, in maniera
prevalente e professionale attività di commercio di automobili. Ciò non
implicando, quindi, che la M. non avesse svolto attività lavorativa a favore
dell’impresa, costei aveva, perciò, maturato il diritto al pagamento dell’opera
prestata. Da qui l’errore in diritto in cui era caduta la Corte territoriale,
laddove aveva affermato che la formale immedesimazione con la società ostasse
al pagamento dell’opera prestata dal socio unico.

– Il terzo motivo denuncia il vizio di motivazione
in punto di elemento soggettivo del reato.

La Corte territoriale non aveva considerato che la
percezione delle somme di denaro erogate all’imputata dalla società fallita non
era stata animata dalla volontà di contribuire alla spoliazione del patrimonio
di questa, ma, piuttosto, dall’erroneo convincimento, determinato dalla
scorretta interpretazione delle norme civilistiche, di averne diritto per
l’opera prestata.

La sentenza impugnata deve essere annullata per le
sole ragioni di seguito indicate.

1. Correttamente la Corte territoriale ha escluso
che il Giudice dell’udienza preliminare avesse condannato l’imputata per un
fatto diverso da quello contestato.

Il diritto vivente ha, invero, più volte statuito
che, in tema di correlazione tra imputazione e sentenza, per aversi mutamento
del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali,
della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista
dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto
dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della
difesa, con la conseguenza che l’indagine volta ad accertare la violazione del
principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente
letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di
garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando
l’imputato, attraverso I’iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella
condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051;
Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, di Francesco, Rv. 205619).

Alla stregua del riportato enunciato interpretativo,
deve convenirsi con il giudice censurato che vi era coincidenza tra il fatto
per il quale vi era stata condanna e il fatto contestato, venendo in rilievo la
medesima condotta distrattiva, sostanziatasi, dal punto di vista
storico-fenomenico, nella percezione da parte della M. di risorse patrimoniali,
destinate a garantire le pretese dei creditori sociali, sottratte al patrimonio
della società poi fallita, nessun rilievo assumendo – considerata, tra l’altro
l’ampio contraddittorio registratosi sul tema – la ragione per la quale tale
percezione si dovesse considerare ingiustificata.

L’insussistenza della denunciata violazione dell’art. 521 cod.proc.pen. esonera questa Corte
dall’esame della denunciata violazione dell’art.
604, comma 1, cod.proc.pen.

2. Coglie, invece, nel segno il secondo motivo.

Dal tenore della motivazione della sentenza
impugnata, che si sofferma sulla “sinallagmaticità” delle prestazioni della M.
Srl. e della M., la quale, in effetti, si era vista inquadrare daIl’INPS
l’opera prestata a favore della M. Srl. in quella di un lavoratore autonomo, non
sembra in discussione che la ricorrente, con il percepire le somme erogatele
dalla società poi fallita, abbia inteso ripagarsi di un credito lavorativo.

A fronte di tale rilievo in fatto, la Corte
territoriale erra in diritto nel ritenere che il socio unico non abbia diritto
a compensi per l’opera pur prestata in favore della società, in ragione di una
sua generica immedesimazione in questa.

Invero, deve, piuttosto, riconoscersi che il socio,
in quanto tale, ha diritto agli utili (ove siano conseguiti) e, in quanto
prestatore di un’opera professionale a favore della società, ha, comunque,
diritto a un compenso. Tanto si trova chiaramente affermato nella
giurisprudenza civile di legittimità, espressasi nel senso che ben può il socio
di una società a responsabilità limitata, svolgere per la società stessa
attività di lavoro autonomo, quale collaboratore coordinato e continuativo, di
modo che, percependo compensi per la detta attività, è soggetto a doppia
contribuzione, presso la gestione separata per i compensi di lavoro autonomo e
presso la gestione commercianti per il reddito d’impresa (Sez. 6-L, n. 9803 del
14/06/2012, Rv. 622928- 01; conf. Sez. L -, n.
5452 del 03/03/2017, Rv. 643275 – 01).

Del resto, sarebbe irragionevole il ritenere che
l’amministratore di una società di capitali, pacificamente legato alla società
medesima da un <<rapporto professionale autonomo>>, abbia diritto
al compenso professionale (Sez. 1, n. 19714 del
13/11/2012, Rv. 624428; Sez. 1, n. 7961 del
01/04/2009, Rv. 607490) ed escludere che, a parità di attività lavorativa
di tipo autonomo svolta a favore della società, lo stesso diritto spetti al
socio.

Quanto argomentato comporta l’annullamento della
sentenza impugnata, affinché la Corte di merito del rinvio riesamini tema della
percezione da parte dell’impugnante di somme di denaro di pertinenza della M.
Srl. alla luce delle indicazioni direttive dianzi riportate, accertando,
altresì, quale lavoro abbia, in concreto, costei svolto a favore della società
e quale ne potesse essere il congruo compenso.

Il terzo motivo rimane assorbito.

3. Per le ragioni indicate, s’impone l’annullamento
della sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della
Corte di appello di Trieste.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo
esame ad altra sezione della Corte di appello di Trieste.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 maggio 2020, n. 13826
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: