Prassi – FONDAZIONE STUDI CDL – Approfondimento 12 maggio 2020

Ipotesi di “scudo penale”, per il datore di lavoro “virtuoso”

 

PREMESSA

La diffusione del Covid-19 e gli effetti che senza
freni questa avrebbe potuto avere sulla collettività hanno comportato l’emanazione
di svariati provvedimenti (decreti legge e del Presidente del Consiglio dei
ministri), aventi l’obiettivo specifico di salvaguardare lo stato di salute dei
cittadini, in generale, e quello dei lavoratori, in particolare. Nel corpus di
tali atti è contenuto un espresso richiamo a Protocolli condivisi in base ai
quali il Governo e le Parti Sociali hanno individuato le misure sanitarie e
informative che i datori di lavoro devono adottare e i lavoratori rispettare,
al fine di mettere in sicurezza, eliminare e prevenire il contagio nei luoghi
di lavoro.

Dall’esame di tali provvedimenti emerge che, col
progredire del tempo, le misure precauzionali e di sanificazione da mere
“raccomandazioni” hanno acquistato valenza di vere e proprie norme cogenti, al
punto che il loro mancato rispetto comporta sanzioni che, a seconda della
gravità e delle conseguenze della condotta omissiva, sono di natura penale o
amministrativa, tra cui quella particolarmente grave della “chiusura
dell’esercizio o dell’attività”.

 

1. I POSSIBILI EFFETTI PENALI PER IL DATORE DI
LAVORO INADEMPIENTE

 

Gli effetti della (potenziale) diffusione del virus
nei luoghi di lavoro e la conseguente (elevata) possibilità di contagio dei
lavoratori hanno determinato la necessità di approntare non soltanto efficaci
cautele sotto il profilo sanitario, ma anche una specifica tutela assicurativa
e previdenziale.

A tale proposito, in data 3 aprile 2020, l’Inail ha
emanato una Circolare, la quale, nel definire l’ambito applicativo della tutela
assicurativa – stabilita dall’articolo
42, comma 2, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 – nei casi accertati di
infezione da nuovo Coronavirus, verificatisi in occasione di lavoro, ha
precisato che “secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi
di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose,
inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul
lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella
violenta. In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul
lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo Coronavirus occorsi
a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto”.

L’Inail ha, infatti, spiegato che la disposizione ex
articolo 42 del D.L. n. 18/2020
“chiarisce che la tutela assicurativa Inail, spettante nei casi di contrazione
di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio
delle attività lavorative, opera anche nei casi di infezione da nuovo
Coronavirus contratta in occasione di lavoro per tutti i lavoratori assicurati
all’Inail”. L’Istituto ha, pertanto, riconosciuto che “i casi di infezione da
nuovo Coronavirus” sono da inquadrare nell’ambito delle “malattie infettive e
parassitarie” e, come tali, riconducibili alla categoria degli “infortuni sul
lavoro”.

Pertanto, nel caso in cui risultasse provato che il
lavoratore abbia contratto il virus nell’ambiente di lavoro e fosse riscontrata
la mancata adozione da parte del datore di lavoro delle misure imposte dalla
normativa sopra citata, questi risponderà del reato di lesioni personali (gravi
o gravissime e, comunque aggravate dall’averle commesse con la violazione delle
norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, a norma dell’articolo 590 del codice penale) o, nel caso di
decesso, di omicidio per colpa grave (articolo 589
del codice penale).

Fermo restando il fatto che dovrà essere pur sempre
riscontrata tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale,
secondo i principi di cui agli articoli 40 e 41 del codice penale, in una ipotesi di palese
violazione della normativa de qua, sarà ben difficile per il datore di lavoro
poter dimostrare che la contrazione del virus da parte del lavoratore non è
dipesa dalla mancata attuazione delle misure. In buona sostanza, tale omissione
rappresenterebbe una “presunzione” – sia pure non assoluta – di colpevolezza in
capo al datore di lavoro. È, infatti, granitico sul punto l’orientamento della
Corte di Cassazione secondo cui è da ritenere responsabile il datore di lavoro
che, in caso di infortunio sul lavoro, non sia in grado di dimostrare di avere
adottato i sistemi idonei e indispensabili a prevenire l’evento lesivo. Non vi
è dubbio, dunque, che tale principio ben potrebbe trovare applicazione anche
nell’ipotesi in cui l’infortunio consistesse nella contrazione del virus da
parte del lavoratore in presenza di una condotta omissiva, parziale o totale,
carente o insufficiente nell’adozione delle misure sanitarie previste nei
Protocolli condivisi e recepite nel D.L. n.
18/2020.

 

2. IL DATORE DI LAVORO “VIRTUOSO”

 

Diverso e più complesso è, invece, il caso in cui,
sebbene il datore di lavoro abbia scrupolosamente attuato le prescrizioni
imposte, uno o più lavoratori siano risultati positivi alla “infezione da nuovo
Coronavirus”. È ovvio che, in tale ipotesi, il datore di lavoro potrà
dimostrare, essenzialmente sulla base di documenti di ogni genere, di avere
adottato tutte le cautele e le misure fissate nei Protocolli e nel D.L. n. 18/2020, ma rimarrà pur sempre il fatto
che il lavoratore è stato riscontrato positivo all’infezione. Tale circostanza
provocherà l’abbattersi sul datore di lavoro “virtuoso” – che ha provveduto in
maniera corretta, completa ed efficace ad adottare tutte le misure di
precauzione – di una “furia di elementi” che avrà effetti e ricadute (non
soltanto di natura economica) rilevanti sulla sua vita e su quella
dell’impresa.

Non vi è, infatti, dubbio che la notizia di un “caso
di infezione” di un lavoratore determinerebbe l’immediato avvio di indagini da
parte dell’Inail e la sua immediata comunicazione alla Procura della
Repubblica. Non sarebbe, inoltre, da escludere l’eventualità che l’autorità
procedente disponga il sequestro preventivo (articolo
321 del codice di procedura penale) dei locali in cui viene svolta
l’attività lavorativa non soltanto a fini sanitari, ma anche per scongiurare
“il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa
aggravare o protrarre le conseguenze di esso”, e/o quello probatorio (articolo 253 del codice di procedura penale) per
accertare e individuare le eventuali tracce della commissione di un reato. Non
è, infatti, immaginabile che l’autorità giudiziaria o di polizia, investita
della notizia di una simile infezione non disponga, quantomeno per doveroso
scrupolo investigativo, uno dei o entrambi i sequestri sopra indicati.

Ora, è vero che il datore di lavoro-indagato
(“virtuoso”) avrà la possibilità di dimostrare di avere fatto tutto quello che
poteva e doveva fare in osservanza delle prescrizioni normative, ma è
altrettanto vero che non potrà essere sottratto agli inquirenti il
potere-dovere di accertare se le misure – al di là del dato documentale – siano
state realmente adottate e, in tal caso, se eseguite o fornite da soggetti
professionalmente competenti; se siano corrette, adeguate e sufficienti ovvero,
nel caso in cui, per via delle piccole dimensioni dell’attività, abbia
personalmente provveduto l’imprenditore; se effettuate con prodotti e tecniche
idonei e con le necessarie “formazione” e “informazione” proprie e dell’unico o
dei pochi dipendenti. È, inoltre, probabile – per non dire certo – che il
provvedimento di sequestro sarebbe adottato anche per consentire l’espletamento
di accertamenti tecnici e rilievi irripetibili (articoli
354 e 360 del codice di procedura penale)
finalizzati a riscontrare la presenza di tracce del virus nei luoghi di lavoro
e a verificare se e come sono state eseguite le misure sanitarie, vale a dire
secondo criteri di diligenza, perizia e osservanza di leggi e regolamenti.

Ora, l’esperienza quotidiana ci insegna che il
compimento di tale attività investigativa comporta alcune settimane – se non
alcuni mesi – di lavoro, periodo di tempo durante il quale l’impresa rimarrà
“sigillata” in attesa dell’esito degli accertamenti con conseguenti ricadute,
anche e soprattutto di natura economica, sull’attività imprenditoriale.
Pertanto, una volta appurato che l’imprenditore avrà attuato le misure e che
queste erano idonee a prevenire la contrazione e la diffusione del virus e che,
almeno in linea teorica, tali eventi non sono da ricondurre a una sua condotta
omissiva, l’autorità giudiziaria potrà disporre il dissequestro dei locali con
la conseguente ripresa dell’attività, anche se questa sosta “forzata” avrà
causato un indiscutibile nocumento all’imprenditore “virtuoso”. Vi è da dire,
peraltro, che la restituzione dell’immobile (ex articolo
263 del codice di procedura penale) o la revoca del sequestro (a mente
dell’articolo 321, comma 3, del medesimo
codice) non determina, come effetto conseguente, l’archiviazione ex lege del
procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro. In buona
sostanza, a prescindere dalla sorte del provvedimento di sequestro, egli
potrebbe rimane “inchiodato” al procedimento fino a quando il pubblico ministero
non presenti al GIP la richiesta di archiviazione della notizia di reato. E non
è detto che tale richiesta avvenga contestualmente al provvedimento di revoca
del sequestro o a quello di restituzione delle cose. Ci potrebbe essere – come
quasi sempre accade – uno iato temporale, anche considerevole, che ntercorre
tra la revoca del sequestro (o la restituzione delle cose) e il decreto di
archiviazione del GIP, durante il quale l’imprenditore, sia pur “virtuoso”,
mantiene la non propriamente simpatica veste di persona sottoposta alle
indagini.

Descritta la “morsa” nella quale potrebbe venirsi a
trovare stretto l’imprenditore “virtuoso”, nel caso in cui uno o più suoi
dipendenti fossero affetti dal virus, appare, a questo punto, doveroso
concepire, soprattutto a tutela e riconoscimento della correttezza del suo
operato, una adeguata “rete di protezione” che, pur nel dovuto rispetto della
funzione giudiziaria e del bilanciamento dell’interesse all’accertamento dei
reati con quello della libertà dell’attività economica, gli assicuri,
nell’ipotesi di adozione di provvedimenti di sequestro, il minimo nocumento
possibile e, in generale, l’immunità dalla responsabilità penale.

 

3. SCUDO PENALE: PROPOSTE “DE IURE CONDENDO”

 

È ovvio che con un siffatto sistema di garanzie
rafforzate non si potrebbe certo giungere a menomare o a elidere una funzione
fondamentale come quella dell’esercizio dell’azione penale, perché una
normativa che si ponesse in quella direzione non resisterebbe al vaglio di
costituzionalità. Si tratta di creare un modello che preservi l’imprenditore
rispettoso e che “investe in sicurezza” dalla paralisi della propria attività
dovuta a eventi che non ha in alcun modo contribuito a causare, ma dei quali è
comunque costretto a subire le conseguenze derivate dal protrarsi nel tempo
delle necessarie e doverose indagini. Orbene, nel caso in cui, ricevuta la
notizia di un “infortunio da Coronavirus”, fossero disposti sequestri,
un’idonea “salvaguardia” potrebbe essere quella di fissare un tempo massimo di
efficacia (non superiore a novantasei ore) trascorso il quale, tali
provvedimenti – compiuti o meno che siano gli immediati accertamenti
preliminari – perdono efficacia con la conseguente immediata revoca e
restituzione del bene all’imprenditore e ripresa dell’attività produttiva. Ciò
comporta che l’assunzione di informazioni, l’acquisizione di documenti e
l’eventuale espletamento di accertamenti e rilievi tecnici dovrebbero essere
effettuati “quam celerrime”, tenuto conto, in ogni caso, del fatto che l’imprenditore
ha documentato di avere attuato le misure previste dai Protocolli, come
consacrati nel D.L. n. 18/2020. Del resto, gli
interessi in gioco (tutela della salute, svolgimento in sicurezza dell’attività
lavorativa, garanzia dell’esercizio dell’impresa) sono così rilevanti che la
speditezza e l’urgenza sono d’obbligo: la lentezza e la inadeguatezza
strutturale degli organi preposti all’accertamento “non possono” – parafrasando
il celebre processualcivilista Giuseppe Chiovenda – “andare a danno”
dell’imprenditore “che ha ragione”.

A tale correttivo temporale concernente la durata
massima della efficacia di eventuali provvedimenti di sequestro, dovrebbe fare
da corollario il principio secondo cui il pubblico ministero, accertata entro
novantasei ore dall’adozione del sequestro l’insussistenza delle condizioni di
applicabilità e acquisita altresì la prova che il datore di lavoro ha adottato
tutte le misure in maniera adeguata, riscontrata la salubrità dei luoghi di
lavoro, presenta entro le quarantotto ore successive richiesta di archiviazione
al giudice, il quale si pronuncia nelle quarantotto ore successive.

È, invero, assolutamente indispensabile apportare un
drastico limite alla durata delle indagini nel caso in cui l’imprenditore abbia
dimostrato di avere attuato in maniera integrale e corretta le misure previste
dai Protocolli proprio allo scopo di evitare una inutile “esposizione” di un
innocente (neppure “presunto”, bensì “certo”) alla gogna del procedimento
penale.

Infine, una norma finalizzata a corroborare la
presunzione assoluta di innocenza dell’imprenditore “virtuoso” potrebbe essere
quella in cui si prevedesse l’immunità dalla responsabilità penale nel caso in
cui egli abbia adottato – in maniera conforme e adeguata – tutte le misure
previste dai Protocolli condivisi. Non è, infatti, da dimenticare che – secondo
l’unanime indirizzo della Corte di Cassazione – “non risponde delle lesioni
personali subite dal lavoratore, il datore di lavoro che, dopo avere effettuato
una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una
determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di
sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione
di garanzia” (NOTA 1).

Una norma nel senso sopra proposto non sarebbe,
dunque, da considerare extra ordinem, perché rappresenterebbe la traduzione in
termini legislativi di un consolidato principio della giurisprudenza di
legittimità in materia antinfortunistica. In definitiva, si tratterebbe di
escludere la punibilità dell’imprenditore “virtuoso” nel caso in cui abbia
rispettato le “linee guida” fissate dai Protocolli condivisi.

 

Note:

(1) ex plurimis, Cass.
Pen., Sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883, Santini

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